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Per un Archivio siciliano delle scritture popolari

Posted By Comitato di Redazione On 1 gennaio 2020 @ 00:45 In Cultura,Società | No Comments

 

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Pagina tratta dal Diario di Carolina Drago, di prossima pubblicazione presso la collana «Scritture dal dialetto alla lingua», Palermo, Centro di studi filologici e linguistici siciliani

di Giuseppe Paternostro

Premessa

Alla fine di novembre del 2019, il Centro di studi filologici e linguistici siciliani, attraverso il suo presidente, Giovanni Ruffino, ha annunciato l’istituzione di un grande Archivio siciliano di scritture popolari. Saranno raccolti e opportunamente archiviati testi di varia tipologia, di autori di estrazione diastratica e di epoche diverse, e in particolare: diari, storie di vita, lettere, descrizioni ambientali e di tradizioni locali, cartoline scritte, ricettari e qualsiasi altro testo scritto e dattiloscritto. I testi raccolti potranno essere editi o inediti, in originale o, nel caso in cui gli autori (o più spesso i loro familiari) non vogliano privarsi del documento, anche in fotocopia. L’Archivio sarà costituito da una sezione fisica e una digitale, gestita tramite un portale collegato al sito del Centro. Sarà anche istituito un premio da attribuire annualmente a uno dei testi pervenuti, destinato alla pubblicazione in una delle collane editoriali del Centro.

In questo contributo si presenta l’iniziativa siciliana, inserendola nel più vasto movimento culturale e scientifico di recupero della memoria non ufficiale che interessa ormai da diversi decenni il nostro Paese.

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Dall’Archivio di Pieve di Santo Stefano

Raccogliere le voci degli ‘altri’

La Sicilia delle classi subalterne è stata raccontata innumerevoli volte sia in chiave letteraria sia di inchiesta storico-sociologica. In entrambi i casi sono stati parlanti/scriventi di alto livello di istruzione a fornire immagini e rappresentazioni degli “altri”, di quanti cioè appartengono a un mondo sociale e/o spaziale irriducibilmente diverso [1]. In queste operazioni, la loro voce è apparsa linguisticamente in gran parte deformata e stravolta, immobilizzata da una patina compatta di arcaismi (o di supposti arcaismi) e di costruzioni morfosintattiche stereotipate. Questo modo di guardare al piano linguistico e alle contaminazioni tra lingua e dialetto è divenuto funzionale alla costruzione del topos della Sicilia immobile, diversa e sequestrata (cfr. Giarrizzo 1987). Si tratta, a ben vedere, di un dispositivo retorico non molto diverso da quello, denunciato non a caso da un altro storico (cfr. Lupo 1996), che per anni ha contribuito a rafforzare un’idea della mafia come fatto culturale, specchio della presunta diffidenza, se non aperta ostilità dei siciliani al riconoscimento di qualunque forma di autorità, a cui si aggiungerebbero «il familismo che sottrae l’individuo alla percezione di proprie responsabilità di fronte a una collettività più vasta di quella primaria» (ivi: 20).

Un contributo a una lettura “progressiva” e dinamica della situazione siciliana è stato offerto negli ultimi decenni dagli studi linguistici, che hanno ricollegato (anche) la Sicilia al più generale movimento di rivalutazione di quella storia dal basso che, a partire dal secondo dopoguerra, aveva visto la cosiddetta “cultura alta” (qualunque sia il significato che si vuol attribuire a questo sintagma) interessarsi al mondo dei senza voce, esclusi dalla narrazione della Storia con la maiuscola perché le narrazioni “con la minuscola” erano considerate irrilevanti in sé o, forse ancor di più, perché a essere ritenuti irrilevanti erano le istanze che le classi popolari esprimono attraverso tali narrazioni.

La rivalutazione delle voci delle classi subalterne è avvenuta dapprima sul versante dell’oralità, e ha investito non soltanto le discipline linguistiche ma più in generale le scienze umane. Su quest’ultimo versante si devono ricordare almeno il lungo percorso di dialogo-racconto con il mondo contadino e post-resistenziale intrapreso da Nuto Revelli fra la fine degli anni ’70 e la prima metà degli anni ’80 del secolo scorso, allo scopo di «far emergere i ricordi, i pensieri, il modo di vivere di un intero popolo alle soglie della sua inevitabile trasformazione» (Giordano 2018: 335). I due volumi frutto di questo lavoro (Revelli 1977 e Revelli 1985) si configurano come un’opera di traduzione dal dialetto (codice nel quale erano condotte le conversazioni fra Revelli e i suoi intervistati) all’italiano, e di trasferimento del racconto dalla forma orale alla scrittura, con tutto ciò che ne consegue sul piano linguistico e discorsivo. Questo doppio intervento di traduzione è, però, condotto con il massimo rispetto per il contesto linguistico e comunicativo originale, attraverso il ricorso al discorso diretto (introdotto dalla tecnica della domanda ripetuta)[2] e alla sostituzione del dialetto usato dalla fonte con un italiano regionale la cui sintassi ricalca piuttosto fedelmente quella del piemontese, che  in taluni passaggi è addirittura mantenuto, affidando l’intelligibilità alla traduzione riportata in nota o glossata nel testo (Giordano 2018).

Un altro momento di questa operazione di valorizzazione delle voci degli “altri” è rappresentato dalla raccolta di quell’inestimabile patrimonio culturale costituito dalla tradizione orale delle musiche e della canzone popolare, grazie all’opera di studiosi come Roberto Leydi e Gianni Bosio, o di musicisti come Ivan Della Mea e Giovanna Marini, operazione che sfociò nell’esperienza del Nuovo Canzoniere Italiano.

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Dall’Archivio di Pieve di Santo Stefano

La “scoperta” delle scritture popolari

Se, come abbiamo appena visto, le scienze umane (in particolare la storia, l’antropologia, la sociologia) hanno contribuito non poco al riconoscimento della dignità delle testimonianze orali dei rappresentanti delle classi popolari, alle scienze del linguaggio (e in particolare alla dialettologia e alla sociolinguistica) va riconosciuto il merito di aver dato loro legittimità di oggetto di ricerca. Raccogliere il sapere linguistico dei parlanti dalla loro viva voce è, infatti, l’obiettivo principale della ricerca linguistica sul campo almeno sin dagli inizi del ‘900 (cfr. Matranga 2002). In particolare, questa attenzione è stata tenuta viva da discipline quali la dialettologia e la geografia linguistica, il cui interesse principale è stato storicamente quello di fissare attraverso le inchieste sul campo un mondo culturale di riferimento che aveva nel dialetto il codice con il quale esso veniva predicato. Con il mutare del quadro, e la comparsa dell’italiano quale codice che reclamava uno spazio nella comunicazione quotidiana, e il cui possesso appariva sempre più necessario nell’Italia unita, le classi popolari iniziano un faticoso percorso di emancipazione sociale che è anche emancipazione linguistica.

Tullio De Mauro, a partire dalla sua Storia linguistica dell’Italia unita (cfr. De Mauro 1963), ha ricostruito le vicende di questa lenta conquista dal basso dell’italiano, che è avvenuto principalmente attraverso il suo impiego nella scrittura, il mezzo nel quale per la prima volta una popolazione costituita quasi interamente da analfabeti fu costretta «sotto la spinta di comunicare e senza addestramento, [a] maneggiare quella che ottimisticamente si chiama la lingua ‘nazionale’, l’italiano» (De Mauro 1970: 49). È, questa di De Mauro, una delle più fortunate e complete definizioni di ‘italiano popolare’, una varietà (non solo scritta, ma anche parlata) caratterizzata da una serie di tratti che investono tutti i livelli di analisi linguistica (fonetica, lessico, morfologia, sintassi), e che sono assai distanti da quel modello ‘alto’ (letterario) proposto (e imposto) come l’unico possibile dall’insegnamento scolastico.

Non è questa la sede per stilare un elenco di questi tratti, né tantomeno per discuterli (si rinvia su questo senz’altro a uno dei tanti manuali di linguistica italiana, come, per esempio, D’Achille 2003)[3]. Basti qui solo ricordare che questa varietà di italiano ha consentito a intere generazioni di italiani, emigrati al di là dell’oceano o mandati a combattere guerre che non sentivano e di cui non capivano le ragioni, di poter pensare/sperare/aspirare a possedere una lingua comune. Lettere, diari, racconti autobiografici più o meno abbozzati ci offrono così una preziosissima testimonianza sia della storia linguistica italiana sia della storia d’Italia senza altri attributi, declinata sul versante di una memoria personale che si scopre memoria collettiva. Un solo esempio valga a confermarlo. Tullio De Mauro ha osservato come le lettere spedite in Italia nei primi del ‘900 dagli emigrati dalle mete transoceaniche (Sud e Nord America) avevano in comune il fatto di raccontare la vergogna, il disagio e lo spaesamento di chi si era proiettato in un mondo in cui la parola scritta era la normalità, un mondo dal quale costoro erano irrimediabilmente esclusi. Solo in quel “nuovo mondo”, cioè, si erano resi conto dell’importanza di istruirsi, e in quei testi si possono frequentemente leggere pressanti inviti a mandare i bambini a scuola.

La poderosa domanda di istruzione proveniente dal basso, che è proseguita, con modalità e protagonisti diversi, per gran parte del ‘900, si è manifestata e ha continuato a manifestarsi in una altrettanto vasta produzione privata, familiare, talvolta addirittura intima, che è andata allargandosi mano a mano che si è allargato il bacino degli italofoni tendenziali o potenziali. Nel corso degli ultimi decenni, l’interesse per questa produzione di massa, rimasta per molto tempo sotto traccia, è sicuramente cresciuto, come testimoniano le numerose iniziative sorte sulla scorta dell’esperienza più importante in questo campo, l’Archivio diaristico nazionale di Pieve S. Stefano. Fondato nel 1984 da Saverio Tutino, oggi accoglie oltre 8000 documenti autobiografici, tutti catalogati, e che presto saranno resi fruibili anche in formato digitale (cfr. http://archiviodiari.org/).

L’Archivio di Pieve, che ogni anno assegna un premio al testo memorialistico inedito che meglio riproduce quello che Tutino chiamava «il fruscio degli altri», è oggi un modello di riferimento dal quale non può prescindere chiunque decida di costruire iniziative analoghe.

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Dall’Archivio di Pieve di Santo Stefano

Linee guida per un Archivio siciliano di scritture popolari 

L’idea di dotare la Sicilia di un Archivio sul modello di quello di Pieve si pone in continuità con l’impronta progressiva rappresentata dalla più che ventennale esperienza dell’Atlante linguistico della Sicilia (ALS). Fondato da Giovanni Ruffino, l’ALS ha rinnovato strumenti e metodi della geografia linguistica e della dialettologia, aprendo allo studio delle dinamiche del contatto fra dialetto e lingua nazionale, integrando i modelli della dialettologia e geolinguistica italiana e romanza con quelli della linguistica variazionale europea (tedesca in particolare) e anglosassone. Un atlante linguistico (e l’ALS su questo punto non fa eccezione) lavora principalmente, anzi quasi esclusivamente, con materiali orali. Quelli siciliani (più di tremila testi, di durata varia, rappresentativi sul pianto diatopico e diastratico) si trovano ora raccolti nell’Archivio delle parlate siciliane (Matranga 2011).  L’istituzione di un archivio di scritture popolari costituisce, dunque, una sorta di completamento diamesico dell’Atlante. In questo senso, il modello teorico geolinguistico dell’ALS interagisce con quello demauriano della storia linguistica, che assegna alle classi subalterne (anche meridionali e siciliane) un ruolo attivo nel processo di diffusione della lingua nazionale.

Non si intende qui entrare nel dibattito nominalistico che divide gli studiosi fra quanti accettano l’etichetta di ‘italiano popolare’ e quanti invece preferiscono quella di ‘italiano dei semi-colti’, «che intende sottolineare, sulla base del fatto che la varietà è documentata prevalentemente da testi scritti (lettere, diari, autobiografie), la sia pur limitata competenza scrittoria di coloro che si esprimono in italiano popolare, caratterizzati dal punto di vista sociolinguistico proprio per il loro basso grado di istruzione» (D’Achille 2010). Proprio per questa ragione, la scelta assunta in sede di determinazione del nome è stata quella di usare un’accezione ampia dell’aggettivo ‘popolare’, che può essere inserito in un vasto campo sinonimico in cui esso può assumere il valore ora di ‘proprio delle classi popolari’, ora di ‘non ufficiale’, ora di ‘pratico’, ora di ‘proprio dei semi-colti’ o ‘dei dialettofoni quasi esclusivi con basso livello di istruzione’.

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Esempio pagina del dattiloscritto di V. Rabito “Fontanazza” tratto da Amenta (2004)

Al di là delle questioni terminologiche, occorre qui rimarcare il fatto che la costituzione di un archivio di scritture popolari si inserisce nel solco di una serie di lavori che, se pur non molto numerosi, hanno tuttavia rappresentato momenti importanti della storia del Centro. Ci riferiamo in particolare allo studio di Antonia G. Mocciaro sul rapporto fra italiano e siciliano in un corpus di scritture private del XVIII secolo (cfr. Mocciaro 1991) e al saggio di Elvira Assenza su un corpus di lettere di una donna emigrata negli Stati Uniti (cfr. Assenza 2004). Di particolare rilievo, inoltre, sono i numerosi studi di Luisa Amenta sui diari autobiografici di Vincenzo Rabito (cfr. Amenta 2004) e Tommaso Bordonaro (cfr. Amenta 2012). Rispetto a questi due autori (i cui diari hanno vinto il premio di Pieve), si è iniziato a confrontare le edizioni edite con i rispettivi originali al fine di verificare il peso dell’intervento del curatore in funzione della fruizione del lettore colto. In particolare, su Rabito si rimanda al saggio di Sorrentino (2018). Sul caso delle memorie di Bordonaro (pubblicate qualche anno addietro con il titolo La spartenza) si segnala, invece, la raccolta di saggi curata da Santo Lombino (cfr. Lombino 2019).

È, infine, imminente la pubblicazione del diario di Carolina Drago di Galati Mamertino (ME), il cui originale è custodito nell’Archivio di Pieve con il titolo Diario autobiografico, familiare e di vita contadina. Sarà, questo, il primo volume della collana «Scritture dal dialetto alla lingua», diretta, oltre che da chi scrive, da Luisa Amenta e Marina Castiglione. Tale collana sarà anche il luogo in cui saranno pubblicati i testi a cui sarà attribuito il premio siciliano a cui si accennava nella Premessa.

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Dall’Archivio di Pieve di Santo Stefano

Organizzazione di massima e obiettivi analitici dell’Archivio

L’integrazione dell’Archivio di scritture con quello delle parlate siciliane consente di ristabilire un circolo virtuoso fra definizione dei concetti teorici, raccolta non ingenua di dati empirici e loro interpretazione. In tal modo, il parlante/scrivente può emergere nella sua essenza più profonda, quella cioè di proprietario delle sue lingue e delle conoscenze culturali ad esse connessi, ma anche nella sua capacità e volontà di raccontarsi e rappresentarsi, di costruire immagini (spesso diverse) di sé, delle sue esperienze, delle sue pratiche sociali e dei gruppi e degli spazi con i quali si rapporta o si è rapportato nel corso della sua esistenza.

Come anticipato nella Premessa, nell’Archivio confluiranno testi di genere e tipologia testuale diversi (dalle lettere e cartoline ai diari e memorie, fino ai ricettari familiari e alle descrizioni di tradizioni locali, di episodi di vita comunitaria ecc.), che coprono un arco temporale di produzione che va dagli anni immediatamente successivi all’Unità ai giorni nostri. Rispetto all’asse diastratico, benché si intendano privilegiare i testi prodotti da soggetti di basso livello di istruzione aventi il dialetto come L1, non si escluderanno contributi di autori con caratteristiche diverse.

I testi saranno reperiti in parte attraverso la campagna di raccolta avviata con l’invito del Centro (diretto ai soci, agli insegnanti, agli studenti, agli attivisti delle Pro loco), in parte negli archivi già esistenti (l’Archivio diaristico nazionale di Pieve Santo Stefano e gli archivi presenti nella Rete dei Musei Siciliani dell’Emigrazione con cui si intende stringere una collaborazione).

Non è da escludere, infine, di accogliere nell’Archivio anche le produzioni scritte (oggi quasi esclusivamente digitali) di quei nuovi utenti della lingua costituiti dai cittadini non italiani che hanno una L1 diversa da una delle varietà italoromanze (italiano o dialetti), molti dei quali stanno compiendo oggi un percorso di conquista dell’italiano che non è solo di apprendimento di una (nuova) lingua, ma anche di acquisizione della scrittura, in quanto si tratta spesso di soggetti poco o per nulla scolarizzati [4].

Una volta raccolti, si procederà a una catalogazione che terrà conto delle caratteristiche sia dei testi (a) sia dei suoi autori (b), secondo questo schema di massima.

(a)  Nome -  Sesso – data di nascita – luogo di nascita – professione (al tempo della scrittura e al tempo degli eventi) – livello di scolarizzazione.

(b) eventuale titolo del testo – consistenza (numero di fogli o pagine) – tipo testuale – genere testuale – formato di scrittura (a mano, dattiloscritto, digitale) – provenienza geografica del testo – luoghi a cui il testo si riferisce – argomenti trattati.

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Dall’Archivio di Pieve di Santo Stefano

I testi così raccolti e catalogati si presteranno ad analisi di diverso tipo, che sono in primo luogo linguistiche, ma che possono essere estese anche ad altri campi di indagine (storia, antropologia, sociologia). In queste righe conclusive ci si limiterà a indicare un primo generalissimo piano di lavoro riguardante il campo più specificamente linguistico, ma che è in realtà preliminare a qualunque tipo di studio da compiersi su questi testi. Si tratta, come è ovvio, di un piano di lavoro suscettibile di modifiche, aggiunte (e anche di ripensamenti) in corso d’opera, ma che rappresenta già un momento di riflessione analitica sui materiali che comporranno l’Archivio.

La prima operazione riguarda il raffinamento della catalogazione a cui si è fatto cenno poco sopra. Per esempio, per i testi appartenenti al genere epistolare sarà di una certa utilità distinguere tra lettere isolate e veri e propri epistolari. In questo secondo caso, infatti, a quello strettamente linguistico, si aggiunge l’interesse per la ricostruzione del tessuto dialogico a distanza, sul quale si potranno operare delle riflessioni a partire dall’analisi della struttura delle lettere (cfr. Magro 2014).

Ancora, nel caso dei testi memorialistici sarà interessante riflettere sullo scopo della scrittura in relazione o meno ad un destinatario/lettore. Le memorie destinate a sé stessi saranno così distinte sia da quelle rivolte alla stretta cerchia familiare, in cui l’autore affida alla pagina scritta la ricostruzione di eventi traumatici della propria esistenza (guerra, migrazione), sia da quelle destinate a lettori sconosciuti e ideali. In tutti questi casi, un promettente filone di indagine potrebbe essere quello che punta a valutare, attraverso tracce testuali e linguistiche (rinvii interni e dialogo con il lettore), il grado di consapevolezza e intenzionalità del processo a seguito di una pratica di scrittura prolungata nel tempo, emersa il più delle volte da una urgenza comunicativa spontanea, ma che talvolta potrebbe anche essere stata indotta da richieste esterne (ricercatori o altri).

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Dall’Archivio di Pieve di Santo Stefano

Un ultimo aspetto al quale occorre fare riferimento in conclusione è quello al già accennato dialogo fra piano dell’oralità e piano della scrittura che la costituzione dell’Archivio rende possibile. Obiettivo principale di tale comparazione è quello di individuare eventuali differenze nella gestione della testualità in parlanti aventi caratteristiche sociolinguistiche simili. In particolare, l’analisi delle lettere può costituire uno snodo importante tra testi orali e testi scritti di tipo memorialistico, perché richiama più direttamente il dialogo con un interlocutore seppur distante, assimilandosi sul piano pragmatico ai testi orali dialogici relativamente al grado di implicitezza e di conoscenze condivise con il destinatario, che dovrebbe invece non ricorrere nei testi scritti di tipo memorialistico.

Inoltre, si potrebbe dar luogo a un’analisi delle forme di contatto linguistico, al fine di individuare il grado di intenzionalità con cui nei testi orali e scritti si verifica l’incontro fra i codici secondo il modello della trasferenza (cfr. Regis 2013), che tende a valutare il contatto sulla base dei passaggi di materiale linguistico tra i codici e permette l’individuazione del grado di compenetrazione da un punto di vista strettamente strutturale e gerarchico-implicazionale (trasferenza lessicale, fonetica, grammaticale).

Infine, dal confronto sarà possibile far emergere nuove categorie di analisi non dedotte a partire dal filtro di un modello alto (letterario o normativo, italiano standard), che di norma induce l’analista a valutare i tratti di questi testi solo in termini di deviazione dalla norma e non anche come espressione di un sistema altro, esito di tante varianti non necessariamente diagnostiche di singole o specifiche varietà.

Dialoghi Mediterranei, n. 41, gennaio 2020
 Note

[1] Rare sono state le eccezioni, fra le quali ci limitiamo qui a citare l’esperienza di Danilo Dolci, il quale, nonostante fosse estraneo due volte (perché “intellettuale” e perché non siciliano, come quasi tutti coloro i quali avevano nel recente passato voluto indagare la Sicilia diseredata e contadina) aveva deciso di prestare la propria voce a coloro i quali non l’avevano e, fatto ancora più straordinario, impegnarsi affinché gli ultimi si dotassero di una loro voce.
[2] La tecnica della domanda ripetuta consiste nell’attribuire all’intervistato la domanda posta dall’intervistatore durante la conversazione.
[3] A puro titolo esemplificativo, forniamo qui alcuni fra i tratti considerati dagli studiosi ‘diagnostici’, ossia peculiari, dell’italiano popolari sono: la mancata percezione di confini delle parole (si veda, nello scritto, casi come amme per ‘a me’); la tendenza a regolarizzare i paradigmi nominali e aggettivali (si veda, nel parlato e nello scritto, casi come il zio o la moglia); la sovraestensione (nel parlato e nello scritto) del clitico dativo ci, che assume il valore di ‘a lui’, ‘a lei’, ‘a loro’; lo scambio di ausiliare (ho andato); la tendenza a storpiare le parole sul piano del significante per accostamento ad altre più conosciute al parlante/scrivente (celibe per ‘celebre’.
[4] Non vi è qui lo spazio sufficiente nemmeno per accennare ai numerosi aspetti di carattere linguistico variamente connessi al rapporto tra fenomeno migratorio e apprendimento linguistico da un lato, e fra apprendimento linguistico e apprendimento della scrittura dall’altro. Da quest’ultimo punto di vista, si consideri soltanto che occorrerebbe almeno distinguere due categorie: a) soggetti che hanno piena competenza di più sistemi grafici di consolidata tradizione (ad esempio sistema sillabico bengalese, alfabeto latino, arabo), oppure sistemi costruiti di recente (come l’ADLaM per il pular) appresi in Italia o nel paese d’origine; b) soggetti a bassa scolarizzazione che usano sistemi di scrittura di cui hanno poca padronanza (acquisiti in Italia, o nei luoghi di partenza, o ancora durante il lungo periodo del viaggio) e che usano per lingue materne che non avevano mai conosciuto prima in forma scritta (a causa della loro scarsa o nulla alfabetizzazione o perché di rara o inesistente dimensione scritta) o per altre lingue di cui hanno piena o limitata competenza orale (inglese, francese, italiano, siciliano, altre).
Riferimenti bibliografici
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Giuseppe Paternostro, ricercatore di Linguistica italiana nell’Università di Palermo, dove insegna nei corsi di laurea in Lingue e di Scienze della comunicazione pubblica. I suoi interessi di ricerca riguardano soprattutto lo studio delle dinamiche sociolinguistiche dell’Italia contemporanea, con particolare riferimento alla Sicilia, e il rapporto fra discorso e rappresentazioni identitarie. Attualmente coordina il costituendo Archivio siciliano delle scritture popolari.

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