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Parola. Superficie, suoni

 

Orfeo Tamburi, Blaise Cendrars, Villefranche sur Mer, 1948.

Orfeo Tamburi, Blaise Cendrars, Villefranche sur Mer, 1948.

di Aldo Gerbino 

I have Dutch, nigger, and English in me,/and either I’m nobody, or Im a nation. Ho in me dell’olandese, del negro, e dell’inglese, sono nessuno o sono una nazione [Derek Walcott (1930-2017), da La Goletta Flight].                                                                              

Se c’è una superficie della terra, c’è una superficie della parola. Tale visione rizomatica non è certo meno pregnante e indicativa della profondità che sostiene terra e parola. Intercettare questo punto di vista è sentir «correre un brivido sulla carta geografica», un’imprevedibile carezza – così racconta il poeta Blaise Cendrars in una sua poesia del 1914, “Bombay express” (nella traduzione di Luciano Erba), – e aiuta a disegnare la dimensione orizzontale della conoscenza. L’immagine stessa di Cendrars, segnata dalla partitura grafica del pittore Orfeo Tamburi (per altro traduttore di Cendrars con La Transiberiana, pubblicata ad Ancona nel 1968), restituisce il poeta svizzero nella sua distesa corporeità, in quel suo essere viaggiatore anche dentro la pagina scritta.

Nella sua “Lettera” (tratta da Fogli di viaggio, del 1926, tradotta da Erba), protagonista l’amata Remington, avverte, infatti, in modo deciso: «la mia scrittura è netta e chiara / si vede che sono io che l’ho battuta / Ci sono dei bianchi che solo io so fare / vedi che bell’aspetto ha la mia pagina / eppure per farti piacere io aggiungo ad inchiostro/ due tre parole / e una grossa macchia d’inchiostro / perché tu non possa leggerle». E se sulla buccia terrestre incontriamo fessure, ripide discese, asperità, fratture che attraversano lunghe estensioni desertiche, sulla ‘parola’, sulla sua superficie, si concreta spesso l’epifania di un taglio, uno scarto, che accende inaspettate ‘ruvidezze’ di significati.

Affiora, dunque, qualcosa che sta modificando lo spazio semantico; una tmesi, un arcaico distacco alimentato dal tempo: quel tempo che già Alain de Benoist, ha sistematizzato nelle «due grandi concezioni della storia [che] non hanno cessato di affiancarsi e di affrontarsi, sotto forme per altro molteplici: la storia “lineare” e la storia “ciclica”». Superficie, allora, che si espone – con la sua materia, col suo marchio – al brulicare atmosferico dei segni, attraversata dalla ricchezza delle variabili morfologiche che in essa si conformano, si strutturano.

Filippo De Pisis, Gli albatri, 1945

Filippo De Pisis, Gli albatri, 1945

Sono tutti quegli elementi, tutte le cose prodotte dal processo di trasformazione e che nella parola vivono, manifestandosi nella lingua, nel procedere stesso del fare, dell’ordito imposto dalla scrittura, in altre parole nell’emersione di un rinnovato signum. La superficie si mostra quindi non come parametro di riduzione espressiva bensì come un ecosistema nel quale confluiscono le articolazioni di un linguaggio pertinente a una semiotica globale cui ci ha introdotto Thomas Sebeok, e che attiene anche alla conversazione tra oggetti biologici e loro processi, tra cose e loro esistenza.

Che sempre ci sia stata la tendenza a destinare automaticamente valore minoritario al concetto di ‘superficie’ lo conferma per altro il risaputo avvertimento deleuziano. «Strano pregiudizio», avverte, infatti, Gilles Deleuze, quello «che valorizza ciecamente la profondità a scapito della superficie, pretendendo che superficiale significhi non già di vaste dimensioni, bensì di poca profondità, mentre profondo significa di grande profondità e non di superficie ristretta». L’osservazione deleuziana citata, com’è noto, anche dallo scrittore Michel Tournier (il celebrato autore di Vendredi ou les Limbes du Pacifique, il rimodellatore di materie ancestrali nelle forme esposte tra condizione reale e fantastica) suona opportuna, nel momento in cui, lo avvertimmo anche in Col dire poesia (2020: 92), come  il ‘superficiale’ vada ancora inteso quale icona di scarsa profondità, al contrario del ‘profondo’ che nasconde la sua ristrettezza di superficie a fronte d’un supposto privilegio nell’affrontare e accogliere una più ampia capacità conoscitiva.

Più e più volte abbiamo ripetuto, in varie occasioni d’incontro e di scrittura, come non fosse possibile non rivolgere attenzione ai segni che turbinano sulla lastra geografica insita nella parola: suoni, voci che con il loro penetrante messaggio coinvolgono la tangibilità percettiva di ogni conoscenza. La voce, ad esempio, mentre attraversa come un vento leggero le superfici concretate dalle parole, costituisce, – col suo precipuo suono, con i suoi timbri, con la sua capacità d’interazione, – la misura d’ogni superficie pronta a restituirci l’eco per un riscrivere e significare (e leggere) quel paesaggio sonoro di cui essa è portatrice.

Sappiamo di due pedane linguistiche ed espressive che sanciscono il flusso della lettura da parte dell’enunciatore e la comprensione dell’emozionale status dell’io poetante: il declamatorio (esigenza sottolineata anche da Angelo Maria Ripellino) col suo gettito emotivo, il cui governo è demandato all’assetto polisindetico (l’insistenza delle congiunzioni – vale per tutti la lettura dell’Infinito leopardiano – che aggiunge solennità alle immagini) e quello riflessivo, in cui il raffreddamento emotivo viene tracciato dall’assetto asindetico: lo slittare delle parole, prive di giunzioni linguistiche, riportano, col compattarle, suoni e senso, circoscrivendole (sotto l’effetto di una sordina) nella germinazione dell’ambiente interiore, nelle ‘cose’ che in esso abitano.

Leopardi affida, infatti, all’udito «una sorta di primato della poeticità», – sostiene nell’intenso e commosso saggio La voce dei Canti, Carlo Mathieu (al paragrafo “La materia dei suoni e la natura delle vocali”), – un primato per quel «senso fra tutti più immediato e più “spirituale” per l’“effetto fisico” che smuove gli organi, e che agisce senza bisogno di mediazioni dell’intelletto». Il brano tratto dallo Zibaldone (1820), riportato da Mathieu, chiarisce a pieno tale concetto: 

«La natura ha dato i suoi piaceri a tutti i sensi. Ma la particolarità del suono è di produrre per se stesso un effetto più spirituale […]. Laonde quello stesso spirituale del suono è un effetto fisico di quella sensazione de’ nostri organi, e infatti non ha bisogno dell’attenzione dell’anima, perché il suono immediatamente la tira a sé, e la commozione vien tutta da lui, quando anche l’anima appena ci avverta». 

È consegnata da queste parole – con molto anticipo sulle conoscenze scientifiche – l’intuizione per quel “suono” che “immediatamente la tira a sé”, cioè d’un effetto fisico che oggi sappiamo nutrirsi del chimismo organico testimoniato dal complesso apparato endocrino (parte di origine neurale) conosciuto come “Sistema neuro-endocrino” (‘confinato’ e ‘diffuso’) stimolante la complessità del cervello emozionale o dall’intricato ruolo della prolattina e dei neurotrasmettitori. Un suono, per Leopardi, «è musicale in quanto armonico, l’armonia in quanto, applicata al suono», esso si discosta dalla percezione della luce che ravviva i colori ma che «non hanno che fare coll’armonia, ma hanno un altro modo di dilettare»: un piacere della Musica facente parte della “Teorica delle arti, lettere (Parte speculativa)” capace di indirizzare nello scenario percettivo valori fisiologici e antropologici.

Vladimir Jankélévitch, affrontando quest’aspetto sensoriale, si chiede del perché il recettore del suono, l’udito, debba essere l’«unico fra tutti gli altri, [che] avrebbe il privilegio di aprirci l’accesso alla cosa in sé [Ding an sich] e di sfondare così il tetto della nostra finitezza? In virtù di quale monopolio [si chiede] certe percezioni, quelle dette uditive, sarebbero le sole a sfociare nel mondo dei noumeni?». Sarebbe forse più opportuno considerare nel complesso sistema creativo, un potenziamento sinestesico dei sensi coinvolgenti gli strati più profondi della coscienza, non altro che l’attiva raccolta di sensazioni, rammemorazioni, conoscenze che giacciono nel fondo metaforico di quella poetica “cisterna” cara a Seferis.

Indubbio: su Leopardi sembra anche giocare un ruolo, la dimensione geografica qui etimologicamente e concettualmente trascritta come ‘misura’ della scrittura del mondo. E nel momento in cui il recanatese dichiara che «il poeta non imita la natura: ben è vero che la natura parla dentro di lui e per la sua bocca», appare altresì convincente quanto Emilio Cecchi sostiene, e cioè che 

«in nessun altro luogo sembra così fatta visibile l’essenza musicale delle cose. D’altronde si capisce come qui solo potesse nascere e formarsi quel nostro poeta che parla con la voce più quieta, con le parole più naturali, inadorne, e la cui lirica sembra formata non di concetti e d’immagini, ma soltanto di rapporti musicali»; e più avanti: «Che cos’è che fa l’incantesimo di Silvia, dell’Infinito, del Sabato del villaggio? Suoni, echi, proporzioni che trascorrono e inafferrabili si sciolgono una nell’altra: anche questa poesia sovranamente ritiene dello spirito della regione: è un altro, e il più misterioso, fra tanti miracoli della Marca». 
Salvatore Caputo, Suoni, 2017

Salvatore Caputo, Suoni, 2017

Per comprendere e trasmettere la voce della poesia, è sufficiente una partecipata lettura del testo? oppure necessitano ulteriori spinte analitiche che traggano dalle parole gli umori, le pellicole poste, appunto, sulle superfici e che si son stratificate nei tempi, le tracce multiculturali, le impronte meticce della genesi poetica che avvertiamo come frustuli vaganti sula pelle? Per Iosif Brodskij la vita dei poeti va ricercata proprio nei suoni e lo testimonia il suo toccante saggetto sulla poesia di Derek Walcott (poeta di colore delle Indie occidentali, Nobel nel 1992, che esprime, a detta di Brodskij, quella “babele genetica che ha per lingua l’inglese” commista al patois creolo). Un poeta dai versi «sonori e stereoscopici» di cui racconta il saggio del 1983 Il suono della marea: «Le vere biografie dei poeti sono come quelle degli uccelli», scrive, «quasi identiche – i dati veri vanno ricercati nei suoni che emettono.

La biografia di un poeta è nelle sue vocali e sibilanti, nella sua metrica, nelle rime e nelle metafore».  Per altro è noto come nei poeti «la scelta delle parole [sia] invariabilmente più rivelatrice di qualsiasi elemento narrativo», esse sono parole trasdotte da fondali genetici carichi della forza trascinatrice del linguaggio, un lessico ancorato, e disciolto in ogni marea, nella storia e nel cerchio del suo tempo. Nei versi di Metamorfosi (I. Luna) troviamo un uso prospettico della ‘O’: una sorta di «allitterazione psicologica che quasi costringe il lettore a vedere le due o di “moon”» nella loro proiezione satellitare; proprio quelle due o di “moon”, avverte Brodskij, «si sono mutate, passando per la doppia l di “ballooned”, nelle due r di “O / mirror” le quali per loro virtù consonantica, stanno anche per “resisting reflection” (dove “reflection” significa “riflesso” ma anche “riflessione”)». Ed ecco, tra sovrabbondanze di doppie, automaticamente generatesi dalla storia geografica e razziale di Walcott, e raddoppiamenti consonantici, può essere elaborato il tracciato verbale tra smalti antropologici e il singhiozzo di uno spike sonoro: «a moon balloned up from the Wireless Station. O / mirror, where a generation yearned / for whiteness, for candour, unreturned» («Una luna si alzò come un pallone dalla Stazione Radio. O / specchio, / dove anelava una generazione, / non corrisposta, a bianchezza, candore»). E tale traccia linguistica non può che essere il riflesso di una specifica geografia, per cui ogni tentativo di definire il perimetro dell’arte appare spesso quanto mai riduttivo specialmente quando ci si spinge a incasellare il lavoro creativo o, ancor peggio, il circoscrivere l’estensione della vita spesa per l’arte e nell’arte.

Ecco allora che si esercita un’incomprensione, un’azione di depauperamento; così, proprio per questo, si spiega – incalza Brodskij – il ripetuto fallimento dell’interpretazione critica sul tessuto vitale di un artista, fallimento che «va ricercato, è chiaro, in una scarsa conoscenza della geografia», quelle geografie periferiche che non sono luoghi «in cui finisce il mondo – è proprio il luogo in cui il mondo si decanta. È un fenomeno che riguarda la lingua non meno che l’occhio». Un fallimento (sul tema delle ‘periferie’ troviamo utili conferme in Dopo la poesia di Roberto Galaverni, 2002: 142) che si ripete nell’enunciazione della poesia, almeno che non sia stata fatta un’opportuna iniziazione geografica, una ricognizione attenta della storia geologica e culturale del luogo.

Filippo De Pisis, Natura morta con la penna, 1953.

Filippo De Pisis, Natura morta con la penna, 1953.

Tutto questo si riversa (si mescola) nel paesaggio sonoro (in una commixtio verbale, terrestre e spirituale) del poeta; così, come in Walcott, emergono i fondali oceanici dell’isola di Santa Lucia, o nei versi di “Alla maniera di Filippo de Pisis nell’inviargli questo libro”, tratti dalle Occasioni di Montale (cui fa eco la poesia di De Pisis “Vanessa nel sole”), vibrano suoni flebili di voli mentre lasciano una pioggia di filamenti piumati sulla spiaggia (Natura morta con la penna, 1953). Poi, è nella lettura dell’Infinito leopardiano, che affiorano le armoniose estensioni collinari delle Marche, in cui i suoni si trascrivono nella scissione del verso tra la compattezza di senso e l’unità sintattica determinando – proprio con l’enjambement (la tassiana inarcatura nell’esercizio cinquecentesco di Angelo Di Costanzo e Giovanni Della Casa) – l’effetto di un prolungamento logico del periodo e della pausa ritmica e che destina, con il rejet, il suo potenziamento nel processo metrico del verso successivo.

È la superficie geografica, – resa in tutta la sua plasticità dalle parole che la attraversano, – che ricostruisce esistenze nelle quali «la biografia è scrittura della vita, scrittura della parola». Il composto semiotico offerto dalla parola (vero e proprio epifenomeno d’intimità ideale) identifica e costituisce il suolo geografico di un testo e di un’esistenza. ‘Parola’ ed ‘esistenza’ sono l’accertamento del viaggio, quel viaggio cui mirabilmente accennava Kavafis in Itaca: circolarità probante mossa sulla superficie della parola e sull’idea irrinunciabile per un vivere costruito nell’intimo valore della lealtà alla propria crosta: una cifra che, in virtù del taglio e delle asperità, può mostrare le molteplici qualità della conoscenza.

La non effimera proprietà della ‘parola’ ci indica subito lo scontro nel momento in cui si assottiglia la sua superficie o si tenda al silenziamento del suo brusìo sonoro (aequitas sonora) con i sieri del conformismo linguistico e sociale; allora le parole ci appariranno come malferme ombre di Banco, in quella forma indecifrabile e inquietante d’un molesto algoritmo. 

Dialoghi Mediterranei, n. 57, settembre 2022
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Aldo Gerbino, morfologo, è stato ordinario di Istologia ed Embriologia nella Università di Palermo ed è cultore di Antropologia culturale. Critico d’arte e di letteratura sin dagli anni ’70, esordisce in poesia con Sei poesie d’occasione (Sintesi, 1977); altre pubblicazioni: Le ore delle nubi (Euroeditor, 1989); L’Arciere (Ediprint, 1994); Il coleottero di Jünger (Novecento, 1995; Premio Marsa Siklah); Ingannando l’attesa (ivi, 1997; Premio Latina ‘il Tascabile’); Non farà rumore (Spirali, 1998); Gessi (Sciascia-Scheiwiller, 1999); Sull’asina, non sui cherubini (Spirali, 1999); Il nuotatore incerto (Sciascia, 2002); Attraversare il Gobi (Spirali, 2006); Il collettore di acari (Libro italiano, 2008); Alla lettera erre in: Almanacco dello Specchio 2010-2011 (Mondadori, 2011). Di saggistica: La corruzione e l’ombra (Sciascia, 1990); Del sole della luna dello sguardo (Novecento, 1994); Presepi di Sicilia (Scheiwiller, 1998); L’Isola dipinta (Palombi, 1998; Premio Fregene); Sicilia, poesia dei mille anni (Sciascia, 2001); Benvenuto Cellini e Michail K. Anikushin (Spirali, 2006); Quei dolori ideali (Sciascia, 2014); Fiori gettati al fuoco (Plumelia, 2014); Cammei (Pungitopo, 2015); Non è tutto. Diciotto testi per un catalogo (Il Club di Milano – Spirali, 2018).

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[Dida, immagini]

Orfeo Tamburi, Blaise Cendrars, Villefranche sur Mer, 1948.

Filippo De Pisis, Natura morta con la penna, 1953.

 

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