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Pandemie urbane e schiocchi di dita elfiche. Cronache da realtà parallele in tre tempi
Posted By Comitato di Redazione On 1 luglio 2020 @ 00:53 In Cultura,Società | No Comments
il centro in periferia
di Luca Bertinotti
Primo tempo. Riflessioni che vengono dal mare
Nel rapportarsi con un luogo nuovo o, più in generale, con una situazione insolita tendiamo a mettere in campo schemi di comportamento basati sull’istinto più che affidarci come al solito agli automatismi appresi nella quotidianità. Al pari, una distanza fisica e mentale dai luoghi e dalle situazioni a cui siamo avvezzi acuisce le percezioni e amplifica la capacità di reagire. Così, un turbamento notevole, come una completa variazione di “scenografia” della nostra vita, riesce a risvegliare i sensi più sopiti e a scuotere la capacità di riflessione interiore più irrigidita. Viceversa, la consuetudine, soprattutto quella che non lascia spazio all’otium, spegne e svigorisce.
Quando ho ricevuto l’invito a scrivere questo contributo, mi trovavo piuttosto lontano da casa. Tutto è relativo, ovviamente. Da poco tempo le disposizioni governative permettevano i viaggi fuori provincia. Dunque, quel giorno, dopo tanti mesi di spostamenti limitati esclusivamente a raggiungere il mio luogo di lavoro, anche la costa tirrenica della bassa Toscana sembrava diventata una meta esotica, sebbene la meta si trovasse a meno di un’ora e mezzo di distanza in auto dal mio condominio. Approfittando di un riposo lavorativo, avevo accettato la proposta di Giulia, che aveva saggiamente suggerito di evitare, per questa volta, i soliti luoghi a me cari – appartati, silvestri, faticosi da raggiungere – preferendo loro un più agevole e rilassante soggiorno marino insieme. L’avevo accontentata, senza alcun rimpianto, e ne ero felice: stavo vivendo un riverbero di vacanza che risaliva a tempi remoti e che non mi concedevo da troppo tempo.
In quel momento era il tramonto e il clima era piacevole, colori di arance e turchesi impregnavano diverse fette di cielo e analoghi riflessi si contendevano i vetri delle case e delle poche automobili che ci passavano davanti. Ero seduto a un tavolino e stavamo per assaporare le pietanze di una trattoria, già sperimentata in altre contingenze. Ignoravamo il fatto che l’esercizio aveva riaperto proprio quella stessa sera. Dopo aver raccolto l’ordine con abituale professionalità, sollecitata dalle mie domande su quale fosse la situazione sanitaria in quella cittadina di mare, già alla timida ricerca della sua consueta vocazione vacanziera, la pasciuta e gioconda proprietaria ce la stava raccontando sottovoce, mischiando al suo meticoloso resoconto piccoli granelli di commozione, mentre ricordava i concittadini scomparsi. Una crescente e sbalordita ilarità tracimava dalla sua bocca insieme alle parole: evidentemente il riecheggiare della sua stessa voce nella mente andava intensificando in lei il concetto che la lunga inattività, a cui era stata obbligata non senza conseguenze di vario tipo, era finalmente terminata. «È stata dura – ripeteva la ostessa – ma l’importante è che siamo qua, ora, e che ci sia concessa la ripartenza». Ed era una temperata emozione starla ad ascoltare mentre pronunciava la parola ripartenza, con le labbra in sussulto e gli occhi inumiditi.
Provo anche io a concentrarmi, adesso, e a riflettere su una mia definizione di ripartenza. Cerco di considerare questo nuovo momento, guardando attraverso la lente dei quattro mesi appena trascorsi; tento di riportarlo al contesto attuale; infine, mi azzardo a spingerlo fuori dai limiti dell’esperienza personale e collettiva, per osservarlo sotto la luce di una prospettiva futura. In realtà, il periodo appena trascorso da chi ha continuato a svolgere il proprio lavoro in ospedale, come me, è stato un tempo dall’andamento zoppo, in cui la vita è cambiata “solo” alla metà. Fatta eccezione per le pur numerose limitazioni di ordine generale subìte come tutti gli altri, le misure di quarantena non sono state di certo applicate alla nostra attività lavorativa che non si è fermata, anzi! L’Ospedale San Jacopo, ad esempio, è stato protagonista della diagnosi e della cura di un ampio numero di casi, sviluppatisi nell’arco di un breve lasso di tempo in tutta la provincia di Pistoia [1]: dal primo marzo al 14 aprile 2020 sono stati ricoverati 333 casi di Covid-19 (308 fino al 30 marzo), con un picco massimo di 150 pazienti contemporaneamente ospedalizzati nell’ultima decina di marzo.
L’avvento della nuova patologia epidemica, che ha divampato letteralmente come il fronte di un incendio, ha reso necessaria una tempestiva e radicale revisione delle modalità lavorative quotidiane per tutti noi operatori sanitari. Insomma, se medici e infermieri non sono stati eroi [2], certamente si sono trovati a vestire i panni dei protagonisti, per una volta non criticati nel loro operato quotidiano, ma pubblicamente riconosciuti, invece, quali specialisti coscienti e seri con un compito socialmente basilare. Nei mesi più drammatici, a sostenere lo spirito in quella che sembrava una lunga e difficile giornata che si ripeteva all’infinito, è stata senza dubbio la forte sensazione positiva di svolgere un ruolo finalmente non screditato, non disautorato, non sminuito.
Durante le settimane più angoscianti della pandemia, quando la luce in fondo al tunnel sembrava veramente molto lontana, non so dire se gli operatori sanitari abbiano potuto godere di una piccola “fortuna”, quella di sottrarsi lecitamente all’isolamento sociale forzato, dovendosi recare a lavoro, o, al contrario, abbiano patito proprio per questo motivo più degli altri. Certo è che per molti – sottoscritto compreso – il percorso quotidiano da casa all’ospedale, ben più breve del solito grazie a strade divenute deserte come quelle di un borgo abbandonato, è stato una preziosa boccata d’aria fresca, appena prima di sparire per molte ore ogni giorno dentro ai “dispositivi di protezione individuale”, cioè tuta, calzari, guanti, visiera, cuffia e doppia mascherina. Oltre a ciò, va fatto, infine, cenno al diverso – non certo minore – carico di ansia elaborato dal clinico che ha vissuto l’esperienza di cura della patologia, un nemico ignoto prima d’ora che ha lanciato una sfida totale. Nessun cataclisma, nessuna guerra, nessuna crisi economica o altro evento infausto, per quanto vasti, avrebbero potuto forse mettere così profondamente a soqquadro la nostra realtà.
Ma quale sarà il mio ricordo di questo evento pandemico fra dodici mesi? Sarà finita o avrò trascorso già il secondo lockdown? E fra cinque anni? E fra venti? E fra cinquanta? Ci sarò ancora per raccontarla a chi me lo chiederà? Riuscirà il tempo ad allontanare il ricordo dello sguardo attonito dei pazienti più gravi che domandano: «Sto per morire qua, da solo?», mentre l’infermiera corre a prendere uno degli ultimi caschi [3] disponibili? E che cosa diverrà questa ripartenza per i miei figli? E per i miei nipoti? Qualcuno mi chiederà i lineamenti del mondo “di prima” quando sarò vecchio? Cambierà davvero, come profetizzato da molti, il mondo? Sarà raccontata con precisione nelle pagine dei libri che verranno questa incisura nello scorrere del tempo umano? Oppure già fra pochi mesi, complici della schizofrenia cui siamo avvezzi, del dinamismo esasperato e logorante della nostra civiltà, ci scopriremo tutti a rimpiangere le innumerevoli occasioni perdute? O, ancor peggio, finiremo come pigri gatti smemorati a crogiolarci al sole di una routine restaurata? Queste domande restano a galla nella mia testa, pur sapendo che non verrà nessuna risposta decisa e univoca, a riscattarle definitivamente: sono mete affascinanti, ma precoci, smodate, impossibili da raggiungere per una muscolatura così rammollita dai troppi mesi di inattività.
Ripartenza… Le uniche risposte mentali che riesco a ottenere sono, invece, astrazioni capricciose, voci proteiformi, tracce di pensieri chimerici, quasi fossero stati partoriti dalla vivida fantasia di un narratore eccentrico o sintetizzati per errore in un laboratorio di ricerca. Come una carambola di lampi, mi tornano in mente offuscati ricordi di testi scolastici di storia aperti al capitolo del dopoguerra; si mischiano, come capita nei sogni, ai racconti di mio nonno di ritorno a casa dalla prigionia in Africa; si affacciano dentro alle sceneggiature di film neorealisti; sfiorano la scia di meditazioni New Age, quasi fossero comete lanciate allo sprofondo; s’insinuano in frammenti di cronache di giornale, su cui non smettono di campeggiare le frasi ad effetto del personaggio di turno a caccia di notorietà.
Prende, quindi, le mosse da questo contesto rivierasco, leggero e onirico, comparso al termine di un tempo sospeso, il presente scritto, che accoglie, si mescola e per alcuni aspetti diverge dalle considerazioni personali del popolo degli Elfi sul periodo della pandemia. Infatti, al di là del loro indubbio valore di peculiare testimonianza, se alcuni passaggi potranno essere percepiti come energici schiocchi di dita atti a risvegliare la coscienza, spenta dall’abitudine prima e stordita dalla paura poi, altri potranno risultare certamente controversi. D’altronde, fra i vari effetti che il virus ha provocato, per la maggior parte senza dubbio negativi [4], ve ne sono stati alcuni positivi. Fra questi uno è quello delle occasioni, come la possibilità di connessione, di confronto, di colloquio – improbabile solo fino a pochi mesi addietro – fra la civiltà moderna come generalmente la conosciamo e le realtà di vita alternativa di chi ha scelto di starne ai margini, di starne fuori. Scelte di vita, la nostra e la loro, ambedue contrassegnate dall’urgenza di definire i contorni di una rinascita, di una ripartenza, che sarebbe forse meno claudicante per entrambi, se condivisa, magari mescolando gli aspetti più benefici e vantaggiosi dei due stili.
Un po’ come i riflessi aranciati e azzurri a cui accennavo prima: realtà in opposizione, ma anche connessioni a distanza in perenne rincorsa reciproca; o rimandi di specchi, echi visivi, parallelismi fra cielo e mare, separati e uniti dall’impalpabile linea dell’orizzonte. Tuttavia, così come le luci del tramonto, anche le occasioni di conoscenza non potranno durare in eterno.
Secondo tempo. La comunità intenzionale degli Elfi pistoiesi
Le numerose comunità intenzionali presenti sul territorio italiano sono realtà di vita collettiva spesso molto differenti fra loro per territorio e per tipologia di realizzazione, per spinta ideologica e per obiettivi dei padri fondatori, per norme interne di comportamento e per scelte relazionali con il mondo, per capacità-volontà-necessità attrattiva e per percorso evolutivo.
Nella provincia di Pistoia si trova il Popolo degli Elfi che si è insediato da oltre 40 anni in una sorta di ecovillaggio [5] “diffuso”, fatto di gruppi di abitazioni, di piccoli borghi e di case sparse, nei comuni pistoiesi di Sambuca Pistoiese e di Montevettolini, tra loro distanti poco meno di 50 chilometri, percorribili in auto in circa un’ora.
La letteratura sulla comunità pistoiese non è copiosa e, per diritto alla riservatezza, non riporta mai i nomi esatti dei protagonisti [6]. Rifacendosi all’intervista di uno dei più anziani testimoni, “Augusto”, giunto in un secondo momento nel gruppo iniziale, ma da sempre autorevole e impegnato rappresentante della comunità, Livia Colle riporta che l’esperienza iniziò a prendere forma con la decisione di ripristinare una borgata, abbandonata da alcuni decenni, sulla Montagna pistoiese [7]. Più in specifico, secondo quanto afferma lo stesso “Augusto”, l’esperienza degli Elfi «è nata grazie a quattro persone che vivevano già sull’Appennino Modenese. Ad un certo punto [essi] divennero stanchi di vivere in quello spazio limitato e, andando a castagne, trovarono un villaggio abbandonato e vi si insediarono»[8]. Le motivazioni di questa decisione sono riportate anche da Francesca Guidotti [9]:
Il nome Gran Burrone (ispirato a quello dell’avamposto elfico de Il Signore degli Anelli, dello scrittore J.R.R. Tolkien, una delle letture preferite dalla piccola comunità degli inizi), fu la nuova denominazione data al villaggio di Pesàle, raggiungibile solamente a piedi e posto a 876 metri s.l.m.. I primi costituenti del futuro popolo degli Elfi occuparono alla fine anni Settanta del secolo scorso la borgata, a quel tempo in completo stato di abbandono, poiché gli ultimi proprietari delle case erano venuti via già da alcuni decenni. La popolazione insediatasi crebbe rapidamente, raggiungendo le venti unità entro il primo anno. Il ricambio, dovuto al continuo via vai di persone, fu frequente e ben presto Gran Burrone non bastò più per accogliere tutti.
Già durante i primi anni Ottanta, lo stanziamento di un numero sempre maggiore di individui, fra cui anche molti stranieri, spinse altri “pionieri” a iniziare il ripopolamento di altri villaggi vuoti nei dintorni: grazie a loro Case Balli, rinominato in Piccolo Burrone, Case Sarti, Aldaio, Pastoraio, Case Volotto, Campoli, Cugliamme e altre case sparse tornarono a nuova vita.
Questa piccola esplosione demografica, assai significativa, però, per un territorio come quello di Sambuca Pistoiese, segnato da una forte emigrazione dal dopoguerra in poi [11], venne generalmente accettato con occhio benevolo dai vecchi proprietari delle case (già molto anziani e ormai trasferitisi definitivamente nei paesi vicini più popolosi e molto più accessibili) e dai loro discendenti, se non altro per l’importante opera di ristrutturazione degli immobili che gli Elfi sostennero.
Tuttavia, a questo insieme di persone, eterogeneo e in progressiva crescita, in prevalenza dedito all’agricoltura, alla pastorizia e ai piccoli lavori di artigianato, non mancarono le difficoltà di relazione con l’esterno. Infatti,
“Augusto”, lo stesso testimone già citato, specifica che, quasi subito, durante i primi concitati giorni,
In seguito alla scomparsa degli anziani proprietari che non rivendicarono le loro antiche dimore, gli occupanti poterono restarvi per usucapione. Inoltre, a seguito (e a rinforzo) dello statu quo raggiunto con le assoluzioni ottenute dopo la denuncia di occupazione, gli Elfi ebbero dalla Regione Toscana una concessione di quindici anni, che tuttavia è ormai scaduta da tempo: il suo rinnovo è ancora pendente per mancato rispetto di alcune norme di abitabilità di certi immobili che nel frattempo sono stati recuperati. Tuttavia, a detta di alcuni degli interessati, le imprecisioni edilizie che vengono contestate loro sono solamente il frutto di un’eccessiva pignoleria burocratica che non tiene conto della distanza esistente, di fatto, tra la realtà dei luoghi in oggetto e quelle che sono le disposizioni generali in materia di edilizia [14]. Dichiara sempre “Augusto” che
Un altro motivo di grande tensione per gli Elfi (anch’esso per fortuna appartenente al passato) derivò dalla “guerra senza esclusione di colpi” ingaggiata con le comitive dei cacciatori abituati a fare tappa nei borghi abbandonati ben prima del loro arrivo: una sorta di scontro per il predominio territoriale. Ancora una volta “Augusto” racconta:
Tutto ciò deve aver certamente contribuito ad alimentare, all’origine, l’atteggiamento di sostanziale diffidenza degli Elfi della Valle nei confronti di chi era esterno alla comunità, come forma di autoprotezione, senza però che venisse mai presa una scelta di completa e definitiva chiusura. Sempre la Guidotti scrive che
Vi è da dire che la particolare posizione di Gran Burrone e degli altri nuclei abitati rese semplice la scelta iniziale di isolamento: la Valle è compresa in un’ampia area appenninica che ricade nel Comune di Sambuca Pistoiese e che ospita insediamenti di varia grandezza, dal villaggio alla casa singola abitata da un solo abitante, posti a differente altitudine, dagli 800 fino ai 1300 metri s.l.m.. Per raggiungere alcuni di questi luoghi occorre percorrere strade sterrate, mulattiere o perfino sentieri di montagna. Non meno di 4 chilometri e mezzo di strada sterrata separano le prime abitazioni dal fondovalle dove decorre la SS64 Porrettana. Questa stessa situazione, insieme alla “fluidità demografica” relativamente marcata, che ha da sempre caratterizzato la comunità, rende ancora oggi difficile agli Elfi stessi fornire un dato ufficiale sul numero di persone residenti nei vari villaggi che oscillano fra le 150 e le 200 unità.
Rispetto al territorio di Sambuca pistoiese, di più recente costituzione è, invece, l’abitato di Avalon, situato in una zona collinare a 207 metri s.l.m. nel Comune di Montevettolini. La scelta del luogo non fu casuale: la necessità di rendersi autonomi anche per quanto riguarda alcune produzioni alimentari non realizzabili in un ambito di montagna, spinse, infatti, uno dei fondatori ad acquistare, grazie a un’eredità familiare ricevuta, questo grande casolare di origine settecentesca che si sviluppa su due piani, accompagnato da fabbricati più piccoli, posti in sua prossimità, e a stipulare l’affitto di circa dieci ettari di terreno con almeno milleduecento olivi. Il numero di persone presenti ad Avalon è ancora più variabile. Sebbene sempre mediante strada sterrata, l’abitato è, infatti, più semplice da raggiungere rispetto ai siti montani: esso è perciò utilizzato anche come ritrovo per gente di passaggio e come banco di prova per i nuovi arrivati che si prefiggono di restare. Chi vi giunge si ferma generalmente almeno una settimana, più di frequente qualche mese o perfino alcuni anni, prima di capire se davvero i princìpi e lo stile di vita della comunità elfica siano proporzionati o meno alle proprie aspettative e adeguati alla propria indole.
La consistente differenza altimetrica fra Gran Burrone e Avalon assicura la produzione di un ampio assortimento di alimenti: olive, patate, cereali, legumi, ortaggi, castagne, funghi, erbe spontanee, frutti di ogni genere come meli, peri, ciliegi, pruni, susini, recuperando tra l’altro gli albereti rimasti in stato di abbandono. Non manca ovviamente la produzione del miele, del latte e dei formaggi. Pur venendo allevate varie specie di animali (mucche, cavalli, asini, capre e pecore), non è frequente il consumo della carne: la preferenza alimentare più diffusa è, infatti, il vegetarianismo.
I contatti con la civiltà sono molto frequenti e riguardano il viaggio in genere (parte importante della “vita da Elfo”), sia per andare a trovare parenti lontani, sia a scopo ricreativo e/o di crescita personale; le necessità di rifornimento di alcuni generi alimentari quali riso, pasta, caffè, zucchero, bevande alcooliche (queste ultime consumate in quantità molto modesta e in prevalenza durante giorni di festa); gli impieghi lavorativi, più o meno saltuari, di vari appartenenti alla popolazione elfica (un numero non indifferente di donne insegna, ad esempio); le mansioni che non possono svolgersi e le necessità che non possono trovare soluzione all’interno della comunità elfica. Inoltre, i ragazzi, che devono allontanarsi da casa per studio, frequentano con buoni risultati le scuole medie e superiori degli istituti di Pistoia o di Porretta, dopo aver svolto invece la scuola primaria da bambini all’interno della comunità, in orari prestabiliti, ma spesso apprendendo dagli adulti anche durante momenti non ufficiali, nel rapporto quotidiano con la vita, con l’esperienza.
Nel corso dei quattro decenni di esistenza, la piccola società agro-silvestre è riuscita ad andare avanti, si è rafforzata, è rimasta unita e salda sulle proprie posizioni ed è cresciuta insieme, accumulando esperienza da tentativi e sbagli, moltiplicando la gioia per i risultati positivi raggiunti e distribuendo il peso delle delusioni [18]. Come in ogni altra comunità anche fra gli Elfi non sono mancati errori e grattacapi e in questo elaborato non si vuole certo cercare di trovare lo straordinario per forza. Ad esempio, nel passato, alcune difficili situazioni interne sono sorte per un atteggiamento di eccessiva tolleranza verso personaggi sbandati e nefasti, comportamento questo che, con l’andare del tempo e soprattutto dopo la nascita dei primi bambini [19], ha subìto alcuni indispensabili “aggiustamenti di tiro”. Tuttavia, la sensazione che generalmente si prova la prima volta che si è accolti in questo mondo è quella di profonda meraviglia.
Fa meraviglia, infatti, conoscere una realtà sociale parallela e alternativa come questa, che è sorta oltretutto a poca distanza dalle grandi città della Toscana. A primo impatto, una visita in Valle dà realmente l’impressione di aver fatto un salto indietro nel tempo, tornando alla Montagna pistoiese dei primi del Novecento.
Fa meraviglia vedere di che cosa possa essere ancora capace la volontà umana in un tempo sbrigativo e inquieto come quello moderno. Determina un deciso turbamento di facili pregiudizi e di aprioristiche convinzioni la scelta caparbia di questa «microsocietà fondata su altri valori, quali l’uguaglianza tra i sessi, l’annullamento dei ruoli, la famiglia allargata» [20]. Una microsocietà, questa, che, da così tanto tempo, vive a stretto contatto con la natura, mantenendo con essa un rapporto sano ed equilibrato, intimo e non prevaricante, rispettando i suoi ritmi, facendosi guidare da essi, senza la pretesa di stravolgerli [21] e operando per la salvaguardia dell’ambiente e della gestione delle risorse in modo da preservarle per le generazioni future.
Fa meraviglia, inoltre, la serenità negli occhi degli Elfi, soprattutto dei più giovani, nell’epoca del “lavora – consuma – muori”, vessata da un’evidente lassità dei rapporti sociali, dalla disgregazione dei valori di una volta, dalla superfetazione di impegni che abbreviano le giornate, da un’inconcepibile inclinazione generale verso i beni futili, dal disinteresse collettivo e dalla superficialità verso ciò che dovrebbe davvero contare di più: la sanità del luogo che da sempre ci accoglie.
Fa meraviglia riscontrare così diffusi un atteggiamento di rispetto e di cura rivolti ai più anziani, che trovano una loro naturale collocazione nel tramandare i saperi, rendendosi utili come possono, l’affetto sincero nei confronti dei bambini, propri e altrui, l’offerta spontanea di aiuto nei casi di indigenza, di malattia o di altre necessità. I princìpi della condivisione dei beni primari e dell’impegno collettivo al soddisfacimento delle necessità dei singoli si sostituisce all’individualismo e all’isolamento che imperversano nella nostra società. Il baratto, lo scambio o il dono vanno a sostituire per quanto possibile l’uso della moneta.
Fa meraviglia, ancora, notare che non vi è un rifiuto della tecnologia: questa è impiegata, però, ponendola a servizio del bene della comunità, senza che essa ne sia comunque davvero dipendente. Ad esempio, l’utilizzo dell’energia solare mediante pannelli fotovoltaici affianca e integra laddove possibile la combustione della legna e del carbone. O, ancora, il telefono cellulare è un oggetto sfruttato con la moderazione legata a quello che è il suo reale scopo di utilizzo: comunicare o ricevere rapidamente un’informazione in caso di necessità.
In altri termini, la decisione di sottrarsi agli effetti del surplus, “imposto” dalla società dei consumi, chiamandosi quindi fuori dalla spirale dei vari vincoli che esso comporta, ha permesso agli Elfi di recuperare un più diretto e vivido rapporto con la Madre Terra, fatto, questo, tanto costitutivo in essi da toccare ogni aspetto della loro vita. Non è, quindi, un caso che il sentimento religioso più diffuso sia quello della sacralizzazione degli elementi naturali [22]. Come scrive Claudia Roselli, soprattutto appare evidente che ogni attività svolta
In questo senso, ormai da molto tempo, gli Elfi hanno modificato la percezione della propria “missione” e non si sentono più «utopici hippy avventurieri fuori dal mondo e dalla storia, ma un baluardo di resistenza culturale, umana e naturalistica che incarna il bisogno della terra e del genere umano per una riconciliazione»[24]. Ritengo debba essere, quindi, accolto con grande attenzione il suggerimento di Francesca Guidotti:
In effetti, “Augusto” ci ricorda la triste sorte che sarebbe toccata a Pesàle (oggi Gran Burrone), senza l’intervento degli Elfi, lo stesso destino a cui centinaia e centinaia di borghi abbandonati e dimenticati stanno andando inevitabilmente incontro in tutta Italia:
D’altra parte, forse, l’unico posto dove l’esperienza degli Elfi poteva iniziare e realizzarsi compiutamente non avrebbe potuto essere altro che un villaggio abbandonato, separato dalla civiltà, un sito ormai dimenticato, un territorio rifiutato, un non-luogo. Scrive Vito Teti a proposito del recente ritorno alla ribalta dei paesi fantasma in Italia, favorito dall’epidemia e sostenuto da architetti e da imprenditori di successo:
Ed è complementare al precedente il pensiero di Pietro Clemente che da anni si batte per riportare i margini al centro:
Terzo tempo. Gli Elfi e le recenti vicende sanitarie mondiali
A fare da pendant alle scelte di vita degli Elfi, che sono state appena esposte, appare abbastanza logico, quindi, che la loro richiesta nei confronti della medicina convenzionale non si trovi al primo posto nella graduatoria dei trattamenti terapeutici preferiti. È, invece, piuttosto diffuso il ricorso alle medicine non convenzionali: viene fatto largo uso delle tecniche di meditazione, delle pratiche naturopatiche ed è rilevante l’impiego di erbe e di piante medicamentose secondo antiche conoscenze della medicina tradizionale. Importante dunque è il ruolo del laboratorio di erboristeria
È pensiero comune fra gli Elfi che uno squilibrio con la natura e la conseguente angoscia per il mancato controllo sulla propria vitalità sottendano lo sviluppo di una malattia fino a condurre, nei casi più perseveranti, alla morte. Nella qualità dell’esistenza per gli Elfi la positività gioca, dunque, un ruolo fondamentale così come il luogo in cui trascorrere in prevalenza il proprio tempo: essi ritengono che scegliere di abitare in zone isolate e di mantenere uno stile di vita in equilibrio con il mondo della natura porti inevitabili vantaggi sulla salute psichica e, di conseguenza, sulla sanità del corpo. Invece, la paura, la rabbia, l’infelicità, l’isolamento, la disarmonia, l’allontanamento dalla natura, ma anche il ricorso a pratiche mediche, che non tengano conto in primis del rapporto mente-corpo, portano all’indebolimento del sistema immunitario e alla disgregazione dell’organismo-uomo [29].
Alla luce di tutto questo, allora, come è stata concepita, vissuta ed elaborata la pandemia da Sars-Cov-2 all’interno della comunità elfica? Ho chiesto direttamente a loro un parere e ho raccolto i seguenti racconti. Prima testimonianza (persona di sesso femminile):
Seconda testimonianza (persona di sesso maschile)[30]:
Infine, lo stesso testimone liberamente prosegue, per esemplificare e rafforzare il suo pensiero, e conclude:
Sarebbe ovviamente scorretto desumere una linea generale di pensiero, basandosi solamente sulle poche interviste raccolte [31]. Ciò che emerge dalle precedenti è una visione alternativa della pandemia, piuttosto lontana da quella a cui siamo stati avvezzi sfogliando i rotocalchi, vedendo le televisioni, navigando in rete o ascoltando i racconti di medici e infermieri impegnati in prima linea.
La prima testimonianza attiene a un ambito più privato: essa è un intimo racconto ricco di solarità e di speranza, un incitamento all’introspezione e, contemporaneamente, al recupero dei rapporti interpersonali, un resoconto dall’interno di una collettività che, senza troppo disagio e senza molti cambiamenti, sembra essersi ben adattata ai mesi del lockdown, facendo virtuosamente leva sui valori che la connotano da sempre.
Il secondo contributo esce dall’ambito più ristretto dei luoghi d’appartenenza degli Elfi per esprimere dubbi sulla “portata catastrofica” della pandemia, non crede all’esistenza di un agente eziologico virale e contesta la veridicità di quanto dichiarato dagli organi di stampa ufficiale, basandosi sui rapporti forniti dai canali di controinformazione. Egli si oppone alla cappa di paura plasmata a bella posta, lancia la propria critica alla comunità scientifica e ai poteri forti e protesta per le limitazioni delle libertà fondamentali imposte dalle normative dell’emergenza, emanate dalle Istituzioni in cui non ripone fiducia. Al contempo dichiara di aver seguito le norme stesse per rispetto nei confronti degli altri cittadini e non nega a sé e alla sua comunità l’esigenza di un cordoglio collettivo per la scia di morti che l’evento si lascerà dietro. D’altronde, si sta compiendo il disegno della natura e unicamente nella sua giustizia occorre confidare, senza timore alcuno: alla fine il Popolo degli Elfi ne uscirà ulteriormente consolidato nei suoi pensieri e fortificato nei suoi propositi.
Se posso arrivare a comprendere le ragioni dell’avversione per le regole precostituite e, quindi, per la rigidità delle Istituzioni che caratterizzano larga parte del pensiero “elfico”, trovo molta più difficoltà nell’approcciarmi alle motivazioni di fondo che inducono i membri della comunità ad avversare il rigore della medicina ufficiale, il cui metodo applico nel mio ambito lavorativo. In questo senso ho già fornito in precedenza i dati relativi alla mia esperienza diretta con i malati di Covid-19 che hanno rappresentato, per altro, un numero esiguo rispetto a quanto mostrato dalle statistiche delle regioni del Nord Italia [33].
Piuttosto, voglio cogliere nelle idee degli Elfi l’implicito invito a considerare il binomio uomo-malattia non solo in modo meccanicistico, secondo un freddo modello di stimolo e risposta e sulla base di cifre misurabili con strumenti e modificabili somministrando pillole. Nelle convinzioni delle teorie complottistiche preferisco trovare le radici di un malessere, espresso anche nei confronti dei professionisti della salute, da parte di chi si sente solo un caso, solo un numero; preferisco scorgervi il bisogno di un tipologia di cura resa più umana, di un approccio più empatico di terapia atta a curare il malato e non solo una malattia; preferisco sentirvi il richiamo accorato a una maggiore attenzione verso il dolore dell’anima, oltre che i malanni del corpo, dimodoché l’uomo-paziente non si senta assistito solo per metà.
Nei momenti più tragici mi affacciavo alle finestre del mio ospedale rivolte a nord, verso le montagne. Sapevo che da qualche parte lassù tanti Elfi che ho conosciuto continuavano a trascorrere la loro esistenza più o meno uguale al solito. Da loro ricevevo messaggi di conforto e dichiarazioni di disponibilità a fornire aiuto fattivo (qualcuno di loro ha una buona preparazione nell’assistenza infermieristica). Mi tornano adesso in mente i ritornelli di tanti striscioni appesi che incrociavo tornando a casa: «Andrà tutto bene!», «State a casa. Tutti assieme possiamo farcela». Confesso che, durante i mesi passati, c’è stato un tempo in cui sono stato ammaliato dalle “ragioni dell’apocalisse”; un tempo in cui ne ho accettato passivamente l’avvento, ritenendolo forse perfino necessario; un tempo in cui mi sono adagiato con naturalezza nella sua alcova alienante poiché in certi momenti pareva tenera, materna, benevola. Sono stato fra quelli che hanno amato il silenzio del lockdown, la giustizia insita nel dover restituire il mondo a sé stesso, smettendo di esserne i padroni smodati e incontrollabili. Ho percepito il paradosso di vivere in un’epoca insieme spaventosa e stupenda, che ci aveva riportato a considerare la sobrietà come una virtù. Che cosa spaventa di più: un paese fantasma o una città allucinata, gelificata dalla paura, messa sotto un vetro che non ci permette più di afferrare con un semplice gesto di mano quello che non ci serve davvero?
Naturalmente ho anche il dubbio che tutto questo fosse soltanto una visione distorta e compensatoria del dramma che stavamo tutti vivendo. Forse resta da tenere bene a mente solo un frammento di pensiero, che germoglia dalla fusione dei vari slogan ricorrenti in tempo di pandemia: «Stiamo assieme». Anche una volta che saremo usciti definitivamente di casa. Sempre.
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