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Ossimori immaginari

copertina-2di Cinzia Costa

I concetti astratti nascono sempre per definire qualcosa che esiste già concretamente nella realtà. È avvenuto così per i principali teoremi matematici o le leggi della fisica, per le correnti filosofiche o le ideologie politiche. Le menti più illustri della storia, da Pitagora a Kant, da Marx a Foucault, hanno avuto “solo” il merito di rivelarsi i primi scopritori o interpreti delle leggi naturali, sociali, storiche o politiche, del mondo del loro tempo. Le parole hanno dunque il dirompente potere di far esistere le cose, o meglio, di far riconoscere a tutti quello che vedono accadere intorno a loro. Questo processo può però essere piuttosto lento e arduo e può anche accadere che alcune parole, che un tempo avevano un particolare significato, non rispecchino più la realtà che nominavano e descrivevano in precedenza. Occorre dunque, di tanto in tanto, guardarsi intorno per capire se le parole, e di conseguenza i concetti e le idee che esse trasmettono, non siano forse rimaste indietro rispetto ad una realtà che galoppa senza mai guardarsi indietro. Chiedersi se quello che fino a qualche tempo fa chiamavamo in un modo possa ancora essere chiamato così o se forse una parola a cui attribuivamo un significato non debba piuttosto acquisire nuove sfumature e valori semantici.

Per quanto banale, dovremmo sempre tenere presente questa considerazione quando parliamo di teorie, ideologie, movimenti, leggi, status giuridici. Possiamo ancora usare le parole Nazione o Patria, come venivano usate nel XIX secolo? Quando usiamo il termine Femminismo intendiamo lo stesso movimento per l’affermazione dei diritti delle donne che nacque negli anni Sessanta, o questa parola acquisisce oggi nuove sfumature?

Sebbene questo tipo di riflessioni possano sembrare lontane dalla quotidianità delle persone comuni, e appaiano dibattiti relegati al mondo accademico, la definizione di alcuni concetti teorici è una cosa che ci riguarda molto da vicino. Molti dei concetti che stanno alla base della nostra idea di umanità, e che diamo per scontati, sono stati coniati o si sono evoluti nel corso della storia; per questo stesso motivo è bene ricordarsi che possono sempre essere messi in discussione. Il significato stesso dell’idea di vita e morte non è univoco e astorico (ad essi sono legate le spinose questioni di aborto, testamento biologico, eutanasia, etc.), per non parlare di termini come famiglia, genere, diritto.

Un altro concetto su cui è urgente oggi interrogarsi è quello di cittadinanza, e dunque nel caso particolare del nostro Paese quello di “italianità”. Il dibattito sullo ius soli, ovvero sulla possibilità di concedere la cittadinanza italiana a chiunque sia nato sul suolo italiano, a prescindere dall’origine geografica dei propri genitori, è infatti da tempo uno dei temi più discussi all’interno del nostro Parlamento. Come è noto la normativa italiana prevede che possano essere considerati italiani di diritto solo coloro che sono figli di italiani. La discussione parlamentare sulla possibilità di cambiare questa norma è in realtà aperta da diversi anni e rimane un tema caldo sul quale i rappresentanti politici non riescono a trovare un accordo chiaro e definitivo [1].

Questo tema ci mette però davanti ad una questione aperta, che riguarda non solo i giovani di seconda generazione, figli di immigrati nati in Italia, ma tutti gli italiani già cittadini di diritto. Il fatto che i componenti del nostro Parlamento mettano in dubbio la possibilità (o la necessità) di conferire la cittadinanza a migliaia di bambine e bambini nati in Italia ci costringe a chiederci cosa vuol dire essere cittadini di un Paese. La cittadinanza è qualcosa che si ha o che si è? [2]. E  in definitiva cosa significa essere italiani?

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Spazi esterni della Scuola elementare Nuccio, Palermo (ph. Cinzia Costa)

Essere italiani nel 2018 non significa certamente ciò che significava essere italiani nel 1861 [3]. È necessario probabilmente, allora, “risignificare” questa espressione. Per quanto la storia dell’unità d’Italia sia stata sempre caratterizzata da frammentarietà e grande divergenza linguistica, culturale ed economica tra le diverse aree del Paese, in senso generale “essere italiani” fino a pochi decenni fa equivaleva a condividere una serie di valori, primo fra tutti la cristianità, l’appartenenza ad una famiglia patriarcale allargata, parlare italiano, essere bianchi.

Uno sguardo, neppure troppo approfondito, alla realtà che ci circonda basterà certamente a riconoscere nei tratti somatici dei nostri concittadini e nelle loro espressioni linguistiche o comportamentali delle peculiarità lontane da quelle dell’italiano d.o.p, a cui siamo stati per lungo tempo abituati. Fino a poco tempo fa (e per buona parte dell’opinione pubblica e del panorama politico ancora oggi) il binomio italiano/musulmano, italiano/nero, italiano/francofono era percepito come un vero e proprio ossimoro. Pensare un italiano con la pelle nera, o che si chiama Abdul, è spesso ancora oggi considerata una contraddizione in termini. Questo non avviene in altri Paesi d’Europa, come la Francia o il Regno Unito, dove una storia migratoria più antica e, nel caso francese, delle forti relazioni coloniali di lunga durata hanno abituato la popolazione ad entrare in confidenza con l’idea che tra di loro potessero esistere, per esempio, diverse sfumature della carnagione [4].

Questo ossimoro è ciò che rimane fisso nella mente di molti dei parlamentari, non solo di destra, del nostro Paese, e in buona parte dell’opinione pubblica, quanto pensano al cittadino italiano. Tutte persone che, evidentemente, non frequentano e non hanno confidenza con le scuole italiane di oggi.

Negli ultimi mesi ho avuto occasione, per questioni lavorative, di frequentare alcuni istituti principalmente di educazione secondaria di primo grado, ma anche di educazione primaria ed asili nido, in diversi quartieri di Palermo. Le scuole sono da sempre le avanguardie dei Paesi: ciò che avviene nelle classi è la rappresentazione microcosmica del futuro prossimo di un Paese. Con i suoi esiti positivi e negativi questo è già avvenuto in passato in Italia: dopo l’unità d’Italia, durante il ventennio fascista, o dopo la guerra di mafia in Sicilia, per esempio, quando le scuole hanno insegnato l’italiano a bambini la cui lingua madre era il dialetto regionale, hanno educato piccoli balilla o hanno intrapreso percorsi di educazione alla legalità, che hanno formato generazioni. Le scuole sono i laboratori dove i bambini plasmano il proprio essere nei primi anni di vita.

Le classi che ho visitato a Palermo, di diversi quartieri con differenti connotazioni socio-economiche, sono luoghi di un fortissimo impatto sociale. I bambini e i ragazzi che ho incontrato vestono tutti più o meno alla moda, hanno capelli biondi, neri, rossi, lisci o ricci crespi, hanno quasi sempre uno smartphone in mano, si annoiano e si distraggono durante le lezioni, hanno gli occhi mandorla, la carnagione bianca, olivastra o nera, parlano italiano, spesso con una certa cadenza palermitana. Seduti uno a fianco all’altro leggono le lezioni sui libri, risolvono problemi, chiacchierano, litigano o giocano. Questi bambini e ragazzi, tra le altre cose, sono italiani, non perché la legge lo preveda o perché io abbia una precisa opinione in merito, ma perché non potrebbe essere altrimenti. Quello che nella nostra mente è incancrenito in un’idea immobile come quella di italianità, non esiste già più da decenni. Coloro che ci ostiniamo a definire stranieri sono italiani di fatto già da molto tempo, e migliaia di giovani italiani sulla carta hanno invece vissuto o vivono all’estero per anni, parlano due o tre lingue europee bene come l’italiano e probabilmente non torneranno.

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Il Giardino di Madre Teresa, Asilo all’Albergheria, interno (ph. CInzia Costa)

Uno dei posti che ho frequentato, ma che conosco già da molti anni, è il Giardino di Madre Teresa: una ludoteca creata e gestita dall’associazione Kalaonlus [5], situata nel cuore del quartiere Albergheria, che dal 2009 offre alle famiglie del quartiere un servizio altrimenti inesistente. La struttura accoglie tutti i giorni bambini da 1 a 5 anni, aiutando le famiglie con disagi economici e in cui, per problemi lavorativi, i genitori non possono occuparsi dei figli; la maggior parte delle famiglie che usufruiscono della ludoteca sono migranti, considerando anche il fatto che la quota mensile richiesta dall’associazione è veramente irrisoria. La struttura si trova oggi ospitata all’interno della scuola elementare Nuccio, dopo che per alcuni anni ha dovuto chiudere i battenti per problemi burocratici.

Quando lo scorso marzo, con una grande festa, si è celebrata la riapertura della ludoteca la partecipazione delle famiglie del quartiere, non solo migranti, è stata fortemente significativa. Mentre entravo nella scuola incontrai una coppia di signore, italiane, che in un palermitano stretto si incitavano vicendevolmente a far presto, perché era un giorno importante e dovevano assolutamente partecipare alla festa di Rosita, la presidente dell’associazione che tutti i genitori del quartiere conoscono e interpellano in caso di necessità. I bambini ospitati nella ludoteca sono molto piccoli e, a differenza di quelli che ho incontrato nelle scuole, non hanno ancora una personalità o dei comportamenti già definiti e non parlano fluidamente l’italiano, proprio come qualsiasi bambino italiano. Non c’è nulla che possa contrassegnarli come stranieri. Il melting pot è totale ed è sorprendente, ma forse neanche troppo, scoprire che ci sono bambini neri che si chiamano Abdul, Wendy, Mami, Luigi o Agnese.

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Il Giardino di Madre Teresa, Asilo all’Albergheria, interno (ph. CInzia Costa)

Il processo di integrazione in Italia è già avviato da anni, bambini di famiglie italiane e migranti giocano, studiano, parlano e crescono insieme da tempo. Non si tratta ormai di una scelta politica dall’alto, ma del riconoscimento di un fenomeno che dal basso si è già consolidato. In centinaia di quartieri italiani, principalmente quelli inter- culturali come Ballarò a Palermo, sono tantissime le esperienze di bottom up, che hanno avviato percorsi di accoglienza e riqualificazione delle città in cui migranti e autoctoni vivono. Le scuole in questo senso sono tra le eespressioni più esemplificative di questi processi [6]. Tutte queste persone sono cittadini poiché vivono nelle nostre città e da cosa è fatto uno Stato se non dalle persone che in esso vivono?

In Italia c’è ancora una forte resistenza nel pensare che esistano afro-italiani, arabo-italiani o cinesi italiani, eppure, per quanto ci ostiniamo ad osteggiare quest’idea, esistono già. 

Dialoghi Mediterranei, n.29, gennaio 2018
Note
[1] La cittadinanza, intesa come status giuridico di un soggetto, costituisce prima di tutto un’etichetta che affibbia agli individui una sola identità formale, utilizzando come criterio di identificazione un solo elemento arbitrariamente stabilito per convenzione. Nel caso dell’Italia il criterio adoperato per stabilire l’identità nazionale di un soggetto è attualmente il sangue (ius sanguinis), ovvero la discendenza diretta dai propri genitori. Se, in un futuro prossimo, il Parlamento italiano dovesse virare verso una nuova modalità di conferimento della cittadinanza, ius soli o ius culturae (anche detto ius soli temperato, che consisterebbe nel conferire la cittadinanza a tutti coloro che hanno frequentato la scuola primaria nel nostro Paese), si passerebbe comunque alla attribuzione di un’identità formale ad un soggetto, a partire da un solo criterio, selezionato a priori da una norma nazionale. Il limite della cittadinanza intesa come “club” a cui accedere, così come oggi avviene, e dunque di qualsiasi status giuridico e di conseguenza, ancor di più, del meccanismo dei visti e dei permessi di soggiorno, è stato evidenziato da numerosi studiosi (per esempio da Amartya Sen, nel suo noto Identità e violenza, 2006). Questi meccanismi prevedono infatti che uno Stato possa decidere le sorti di centinaia di persone a partire dall’appartenenza ad uno status giuridico, stabilito generalmente solo in base alla provenienza geografica dei soggetti: questo è quello che accade per i richiedenti asilo, per esempio, il cui riconoscimento come profughi dipende dal giudizio arbitrario di una commissione che valuta, spesso in modo sbrigativo, le situazioni individuali. L’essere o il non essere cittadini di un Paese conferisce alla nascita ai soggetti una serie di diritti, non equamente distribuiti nella sfera internazionale, come dimostra per esempio la libertà di circolazione che conferiscono alcuni passaporti e non altri (http://www.ilpost.it/2017/01/07/classifica-passaporti/). Inoltre l’identità, a differenza di come è generalmente intesa, ha un’essenza molteplice e dinamica, che può cambiare nell’arco delle nostre vite e che difficilmente può essere racchiusa in un attributo come “italiano”. Tuttavia, poiché dalla cittadinanza deriva il riconoscimento di una serie di diritti, civili, sociali e politici, imprescindibili per coloro che vivono un territorio, e considerando l’annullamento di qualsiasi lasciapassare burocratico e di qualsiasi frontiera, una prospettiva quantomeno utopica, sarà necessario impegnarsi affinché la cittadinanza e i diritti che ne derivano vengano riconosciuti a chi vive al nostro fianco ormai da decenni.
[2] Una dichiarazione rilasciata da Matteo Salvini nelle scorse settimane, in merito alla cittadinanza, è in questo senso particolarmente significativa. Lo scorso 10 dicembre, nel corso di un’intervista con alcuni giornalisti, il leader della Lega Nord ha dichiarato: «La cittadinanza si merita, arriva alla fine di un percorso, non è un regalo elettorale». In questo senso la cittadinanza sarebbe dunque un premio, che tutti gli italiani di nascita hanno vinto per il solo fatto di avere genitori italiani (?), e non un diritto.
[3] Con l’espressione “essere italiani” sono ben consapevole di parlare per approssimazione e di applicare un ragionamento sintetico (qui inteso come opposto di analitico) ad una realtà quanto mai frammentaria e dinamica, come lo è l’Italia sia dalla sua fondazione istituzionale per ragioni storiche e sociali. Tuttavia questo tipo di categorizzazioni sono necessarie quando si ha a che fare con l’apparato legislativo, che per definizione racchiude i soggetti in contenitori e status costruiti a tavolino. Inoltre questo tipo di ragionamento, che eufemisticamente definirei approssimativo e semplicistico, è quello che sta alla base di tutti i dibattiti politici e mediatici del momento sul tema della cittadinanza.
[4]  Questa differenza non ha certo evitato l’insorgenza e la diffusione di problemi di integrazione tra la popolazione “autoctona” e quella “immigrata” – i due termini sono impropri – poiché, come hanno dimostrato le banlieue parigine e l’attuale diffusione di molti movimenti radicali (spesso erroneamente etichettati sotto la sfera religiosa) tra i giovani di seconda generazione di origine araba, il modello di assimilazione culturale francese ha totalmente fallito la sua missione; missione che, a conti fatti, consisteva nel prospettare ai giovani stranieri una vita con pari diritti e possibilità rispetto ai coetanei d.o.p. sulla carta, per negare poi loro nei fatti una reale inclusione sociale.
[5] La ludoteca costituisce un luogo di grande importanza per tutte le famiglie del quartiere, ma riesce con difficoltà a sostentarsi. Tante sono state negli anni le iniziative di autofinanziamento in cui le mamme dei bambini sono state coinvolte nella realizzazione di cene “etniche” o di prodotti realizzati con stoffe e materiali provenienti dai propri Paesi di origine. L’Associazione è inoltre, durante tutto l’anno, un punto di raccolta di qualsiasi tipo di beni, dai prodotti alimentari, al vestiario e ai giocattoli per bambini e adulti, che poi distribuisce alle famiglie del quartiere. Per ulteriori informazioni sul Giardino di Madre Teresa: https://www.facebook.com/ilgiardinodimadreteresa/.
[6] Noto è il caso della scuola Carlo Pisacane nel quartiere Torpignattara di Roma dove alcuni anni fa esplose una protesta di alcune madri italiane, seguita anche da una manifestazione pubblica del senatore della Lega Nord Borghezio, per l’eccessiva presenza di bambini stranieri nella scuola. Nella scuola, tuttavia, si sperimentano da anni laboratori di intercultura e attività di condivisione soprattutto con le madri dei bambini, attraverso l’intervento di alcune associazioni come “Pisacane 011”, nata da un comitato di genitori e “Asinitasonlus”. La esperienza è narrata nel documentario Una scuola italiana di Giulio Cederna e Angelo Loy. Un altro caso più recente è quello di una donna che nella città di Modena ha lamentato il malessere della figlia, unica italiana in una classe elementare di soli stranieri. Numerose inchieste successive hanno però dimostrato che una serie di informazioni divulgate dai giornali erano errate e, sebbene la bambina fosse effettivamente l’unica ad avere entrambi i genitori italiani, la restante maggioranza dei compagni di classe parlano italiano, sono di religione cristiana e alcuni di loro sono anche cittadini italiani, essendo figli di una coppia mista formata da un italiano e uno straniero. http://www.ilpost.it/2017/10/26/scuola-cittadella-modena-bambina-unica-italiana-in-classe/
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 Cinzia Costa, dopo aver conseguito la laurea in Beni demoetnoantropologici all’Università degli Studi di Palermo si è specializza in Antropologia e Storia del Mondo contemporaneo presso l’Università di Modena e Reggio Emilia con una tesi sulle condizioni lavorative dei migranti stagionali a Rosarno, focalizzando l’attenzione sulla capacità di agency dei soggetti. Si occupa principalmente di fenomeni migratori e soggettività nei processi di integrazione. Collabora con l’Associazione Sole Luna – Un ponte tra le culture.

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