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Oltre le burocrazie, l’immigrazione dopo il viaggio

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Profughi a Barcellona, 1939, Robert Capa

di Valeria Dell’Orzo

Il fenomeno delle migrazioni assume troppo spesso delle tinte più cupe del dolore stesso che si sottende all’andar via dal proprio ambiente quotidiano per immergersi in una realtà aliena e così, tante volte, tristemente ostile.

L’angoscia del viaggio non termina quasi mai all’arrivo, e quel momento invece di trasformarsi in un salvifico nuovo punto di partenza, tra le tappe che costituiscono il vivere personale e comunitario, si trasforma in nuove forme di paura, di dolore sordo che non si avverte quasi più in maniera distinta e riconoscibile; inscindibile da un sentire profondo che costruisce la percezione dell’io, che diventa parte di sé, della vita quotidiana, come un’esperienza che amaramente si ripete di giorno in giorno per ricordare al migrante quanto sofferto è stato il suo cammino e quanto le sue speranze e aspettative possano rimanere disilluse nonostante tutto quello che si è stati disposti, o costretti, a lasciare in cerca di qualche morso di vita.

Dalle notizie di cronaca si dispiega una realtà di arrivo intrisa di una esasperante frustrazione di fronte all’ingiustizia e alla nuda violenza, non più o non solamente quelle dalla quali si è fuggiti via e che accompagnano il bagaglio esperienziale e formativo di ciascuno, ma una condizione presente nel paese di arrivo, ferma lì a aspettarli digrignando i denti per un’ottusa paura mediatica, come un gorgoneion ferino e mostruoso che sbarra il passaggio verso un luogo e un futuro finalmente sicuro e dignitoso.

Migrare è molto più che trasferirsi, per un po’ di tempo o per sempre, in un Paese che non sia il proprio. La migrazione è una condizione di vita che dal momento della partenza forgia una nuova immagine di sé, basta pensare ai vecchi migranti italiani, a volte tornati nella madre patria solo per gli ultimi anni della propria vita, o rimasti in quei luoghi che prima altro non erano per loro che un approdo di speranza per affrancare se stessi, per lasciarsi tutto alle spalle o sognando di fare ritorno a casa con un nuovo volto sociale. Se si pensa a loro, si coglie quella difformità, rispetto a chi è rimasto, e rispetto a chi erano prima di partire; una realtà personale che si è generata in seno alla migrazione stessa, come processo di riformulazione. Questa difformità insita in chi è andato via non è rintracciabile solamente nel diverso bagaglio esperienziale, visivo, conoscitivo, ma si esplica piuttosto in un vero e proprio doppio binario culturale e sociale che ha forgiato l’esistenza personale e la percezione esterna, divenendo parte germinativa del nocciolo dell’io.

Lasciato il proprio Paese, i propri cari, il proprio campanile socioculturale dal quale ogni uomo è rassicurato, passato l’inferno di un viaggio che troppe volte si muove sul filo della sopravvivenza, subite e affrontate privazioni e violenze, mortificazioni e paure, che marchiano la memoria dell’esodo, e giunti in un Paese ospitante che per becero interesse economico e politico tiene su un impianto di burocratismi meccanici e lenti, inizia un nuovo percorso.

Le cronache che si mescolano alle istigazioni della politica in una poltiglia tossica, delineano uno scenario di profonda violenza, latente o dirompente che sia nelle sue tante manifestazioni. Stigmatizzato lo straniero col contrassegno della minaccia, le esternazioni di aggressività diventano plausibili esiti di una presunta esasperazione, perdere la capacità di vedere nell’altro un essere umano, di riconoscervi un riflesso di se stessi, porta a non essere in grado di attuare quel meccanismo che ha formato le società; manipolata dalla politica per creare identità di appartenenza e bacini elettorali «la migrazione ha portato alla polarizzazione e a effetti di surriscaldamento sia nelle popolazioni locali sia in quelle immigrate» (Eriksen, 2017: 43).

Mani sul badile, Messico, 1926 Tina Modotti.

Mani sul badile, Messico, 1926 Tina Modotti

È così che sparare da una finestra viene presentato come un atto goliardico, una leggerezza giustificabile, spacciata per una stoltezza di cui spesso, vigliaccamente, si nega la matrice razzista, priva di implicazioni socio-politiche, tranne per chi vive sentendosi un potenziale bersaglio; diventa possibile effettuare illegali servizi di vigilanza, con modi coercitivi e a chiaro sfondo razziale. Perde progressivamente campo, entro una parte della popolazione, la capacità di rispecchiarsi nell’altro, trasformando il convivere in una lunga trincea di violenze e paure, che si agitano offuscando i veri responsabili di un malessere che invece dovrebbe unire chi, in forme diverse, lo condivide. La capacità duttile di accogliere e inserire nello scenario comunitario diversi gruppi umani – attitudine che ha dato origine alle più fruttuose realtà urbane – «può perdere questa flessibilità al livello della vita sociale pubblica se la politica identitaria antagonista crea un ingorgo in zone nelle quali di solito il traffico scorreva tranquillo» (Eriksen, 2017: 135), e così gli schieramenti politicizzati e più accesi sfociano nell’incolparsi a vicenda incrementando quella polarizzazione che produce fazioni esacerbate e scinde la società invece di miscelarla; «Nell’era moderna l’identità è un misto di individualismo e globalismo (…) esiste una tensione tra le persone in quanto individui e le persone in quanto membri di una società» (Collier, 2016: 229), che si esplica nel delinearsi di una opposizione per macro-gruppi, scissa da un parere singolare ma veicolata dall’idea degli schieramenti.

Nell’attuale realtà migratoria, il fulcro della riformulazione frustrante post-arrivo, non risiede com’è ovvio solamente nella paura di essere colpiti da un atto di violenza ma consiste piuttosto nel dovere immaginare se stessi non più dentro uno spazio auspicato come luogo di crescita e sviluppo, ma trovarsi spinti dall’acredine circostante a proiettarsi sullo schermo dell’essere reietti, proprio entro quei confini nei quali si auspicava la libertà. «L’esperienza soggettiva della disuguaglianza può intaccare i legami sociali», come spiega Sennet (2014: 189), e condurre a una riformulazione dei rapporti interpersonali e dell’immagine di se stessi all’interno della comunità, e può espandersi al crescere di invidie e competizioni lavorative, politicamente propulse, soprattutto tra coloro che al lavoro hanno un minore e più instabile accesso.

La facilità con la quale ci si imbatte in affermazioni o allusioni razziste è pari alla diffusione di un sistema sommerso, ma in realtà ben noto e rodato, quello dello sfruttamento lavorativo che fa dei migranti prede sulle quali banchettare ancor più agevolmente rispetto alle tante vittime della crisi economica, per appagare i più violenti istinti di prevaricazione e abuso o per ingrassare i profitti di un’economia mal gestita che si muove tra sistemi di tassazione iniqui e criminalità, tra corruzione e forme di estorsione, alle quali fa comodo la vecchia e mai estinta realtà della schiavitù.

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Boy on a Fence Looking at the sky, Manuel Alvarez Bravo

Sono disseminati in tutta Italia i luoghi in cui il lavoro e la vita del migrante, spesso ancora in quel limbo di sospensione dell’attesa del riconoscimento del suo diritto di rimanere qui, diventano null’altro che merce: prelevati da campi di fortuna e lasciati chini sui campi o chiusi nelle serre, dalle dieci alle tredici ore al giorno, senza pause, senza accesso a servizi minimi, in cambio di pochi euro, o ancora migranti prelevati da strutture in mano alla criminalità e lasciati in strada, prevalentemente donne e giovanissime vittime della prostituzione. Braccia e schiene da caricare o corpi da usare, così queste vite diventano fonti di guadagno prive di spese, mezzi di un arricchimento che si alimenta della generale condizione di marginalità nella quale il sistema socio-giuridico del nostro Paese, e con varie declinazioni del Primo Mondo in genere, relega i migranti.

Gli effetti di una simile deriva retrograda nel mondo del lavoro legato alla criminalità si riflettono su vari aspetti del vivere globale che permea la quotidianità di tutti. Nonostante le sbraitate accuse di una certa politica circa il rapporto tra i migranti e il lavoro,

«gli immigrati non entrano direttamente in competizione con i lavoratori autoctoni (…). Il vantaggio degli autoctoni può dipendere dalla loro maggiore padronanza della lingua, o dalla maggiore conoscenza delle convenzioni sociali (…). Oppure può dipendere del fatto che i datori di lavoro adottano comportamenti discriminatori nei confronti dei lavoratori immigrati. Indipendentemente dalla spiegazione il risultato è che gli immigrati appartengono a una diversa categoria di lavoratori. Di conseguenza i nuovi immigrati fanno abbassare i guadagni di quelli che sono già sul posto. Di fatto è questo l’unico effetto sostanziale dimostrato dell’immigrazione sulle retribuzioni» (Collier, 2016: 164).

 Un sistema dunque che non coinvolge in alcun modo i lavoratori e i disoccupati autoctoni ma penalizza i nuovi e i vecchi migranti schiacciati dalle logiche di un mercato a ribasso.

Si formano giorno per giorno, un diritto negato dietro l’altro, una violenza sull’altra, frange di popolazione avvilite dallo sfruttamento, sfiancate nel corpo e ancor di più nella percezione di sé e della realtà circostante, così dichiaratamente ostile, che inserirvisi come ci si auspicava, diviene oltre che molto difficile anche intimamente meno accettabile; e specularmente vi si contrappongono i più plagiabili dai media, cresciuti ai margini della propria società, costretti dal sistema capitalistico a desiderare mezzi e servizi, disponibilità e possibilità, spacciate come di libero accesso ma di fatto vincolate dalle regole di un sistema piramidale e utilitaristico, che nel negarle ai suoi ultimi si sottrae da ogni responsabilità agitando lo spauracchio dell’altro, di chi è colpevole solo di essere più facilmente sfruttabile.

«Al di là di ogni considerazione politica e morale, è inevitabile registrare un crescente sentimento popolare di astio nei confronti degli immigrati, alimentato dalla semplificazione (per non dire menzogna) secondo cui tutti i mali deriverebbero dalla presenza degli stranieri (…) è in questo modo che molti governanti europei tentano di celare (…) i disagi socio-economici derivati dalla recessione e dagli aggiustamenti capitalistici che si fanno sempre più estremi» (Aime, 2011: 102-103).
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Luciana, 1994, Mario Cravo Neto

Quei danni collaterali di cui ci parla Bauman (2013), scatenati nei Paesi vittime del sistema di sfruttamento della globalizzazione, e riversatisi ciclicamente entro i confini del potere economico e mediatico, stanno assumendo contorni sempre più nitidi all’interno degli Stati che hanno innescato quella sequela di danni e derive, e sulle spalle dei quali hanno poggiato il proprio diritto di far parte del mondo delle “magnifiche sorti e progressive”. Ci ritroviamo oggi, pur consapevoli della storia di altre realtà intorno a noi, a riproporre lo schema della marginalizzazione all’interno delle nostre stesse città, si creano nuovi ghetti, urbani o suburbani, e si soffia sul fuoco del disagio sociale.

Si sfrutta l’altro, approfittando della complicità di una giurisprudenza lacunosa che lascia centinaia di persone nel limbo dell’attesa, si esaspera lo sfruttato e si crea invidia in coloro che esclusi dal mondo del lavoro, ma italiani e con qualche diritto in più, non potrebbero essere sfruttati tanto impunemente, e che finiscono col vedere nello straniero non il proprio compagno di sventura nella palude del lavoro nero e della criminalità, ma il proprio rivale che grazie alla sua mancanza di status può essere indotto alla schiavitù.

L’annichilimento profondo di una vita relegata ai margini della sicurezza e della giustizia ha  schiacciato e travolto generazioni di migranti,  ha prodotto accoglienze mancate e incontri sprecati. «Il multiculturalismo inteso come fusione poggia su solide basi etiche», attaccate senza sosta da una certa politica, «diversamente dall’assimilazione garantisce immediatamente uguale dignità al migrante e al cittadino autoctono. In questo caso, non esiste una gerarchia culturale quanto piuttosto l’accettazione e la creatività prodotte dalla mescolanza delle culture» (Collier, 2016: 94), il multiculturalismo è dunque il principio da combattere per chi detiene il potere, perché non c’è nulla che spaventi le politiche che poggiano il proprio consenso sulla paura, quanto il pensiero libero e la maggiore conoscenza dei suoi potenziali elettori.

Dialoghi Mediterranei, n.33, settembre 2018
Riferimenti bibliografici
Aime M., Eccessi di culture, Einaudi, Torino, 2011.
Bauman Z., Danni collaterali, Laterza, Roma- Bari, 2013.
Collier P., Exodus. I tabù dell’immigrazione, Laterza, Roma-Bari, 2016.
Eriksen T. H., Fuori controllo. Un’antropologia del cambiamento accelerato, Einaudi, Torino, 2017.
Sennet R., Insieme. Rituali, piaceri, politiche della collaborazione, Feltrinelli, Milano, 2014.
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Valeria Dell’Orzo, antropologa culturale, laureata in Beni Demoetnoantropologici e in Antropologia culturale e Etnologia presso l’Università degli Studi di Palermo, ha indirizzato le sue ricerche all’osservazione e allo studio delle società contemporanee, con particolare attenzione al fenomeno delle migrazioni e delle diaspore e alla ricognizione delle dinamiche urbane. Impegnata nello studio dei fatti sociali e culturali e interessata alla difesa dei diritti umani delle popolazioni più vessate, conduce su questi temi ricerche e contributi per riviste anche straniere.
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