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Oltre la psiche. Un approccio antropologico alla malattia mentale
Posted By Comitato di Redazione On 1 settembre 2019 @ 01:15 In Cultura,Società | No Comments
di Chiara Dallavalle
«Sia detto ancora una volta, e a chiare lettere, a scanso si equivoci: accettare i sistemi degli altri non significa, come nel relativismo da salotto, smettere di farsi e di fare domande e lasciare che il mondo vada a rotoli come meglio crede. Al contrario, il dialogo radicale significa andare a vedere come funzionano i sistemi altrui, in quali circostanze, attraverso quali dispositivi, da quale visione dell’uomo dipendono e quale contribuiscono a costruire, quali zone esplorano e con quali esiti. L’etnopsichiatria ha preso questa seconda strada […]» (Coppo et al. 2009).
Questa citazione è tratta da un articolo di Piero Coppo, il padre dell’etnopsichiatria italiana, forse il primo nel nostro Paese a contemplare le implicazioni socio-culturali della salute mentale. Piero Coppo, classe 1940, nasce come neuropsichiatra e approda alla psicoanalisi durante il suo training presso la Clinica Psichiatrica Universitaria di Losanna. I suoi successivi viaggi in Africa lo portano ad incontrare un potente guaritore tradizionale, Sagara Kasselem, che curava i problemi mentali attraverso strumenti tradizionali, in cui la persona veniva colta nel suo insieme di corpo, fisico e sociale, e di anima.
Da qui è facile intuire come la malattia mentale assuma significati profondamente diversi in contesti culturali altri da quello occidentale, in cui concetti a noi assolutamente famigliari, e su cui si basa l’intera clinica della salute mentale, non hanno nemmeno un termine lessicale che li rappresenti, tanto sono lontani da quella specifica visione dell’esperienza umana. Per fare un esempio quasi banale, “Psiche” è uno di questi. Allora è facile intuire come la stessa psichiatria manifesti tutta la sua limitatezza nel rendere conto di fenomeni di disagio psicologico, che altrove assumono il loro significato in altre sfere, quali la magia, la spiritualità e la dimensione del sacro.
L’etnopsichiatria nasce proprio qui, dall’incontro dei terapeuti di stampo occidentale con pazienti afferenti a contesti culturali altri e dalla constatazione dell’inefficacia delle terapie tradizionali con questi stessi pazienti. È pertanto una disciplina che si colloca all’intersezione di antropologia e medicina, e che prevede l’apertura del discorso terapeutico all’universo di quei significati culturali che costituiscono un riferimento per il paziente. Nonostante ne siamo ben poco consapevoli, anche il sapere medico-psichiatrico, nato all’interno di un’evoluzione storica tutta europea, è, al pari di altri saperi, plasmato culturalmente e si costruisce e riproduce all’interno di modelli socio-culturali ben definiti. È una pretesa puramente occidentale quella di richiamare la psichiatria di stampo europeo (ed americano) ad una sorta di scientifica oggettività.
Nessuna forma di conoscenza può astrarsi dalle categorie interpretative dentro cui nasce, e che riflettono necessariamente un dato contesto storico, sociale e quindi culturale. Se la cultura è l’insieme di rappresentazioni e interpretazioni che plasmano l’esperienza e in ultimo l’esistenza di un individuo, anche in termini relazionali, allora è chiaro che anche la visione della malattia, e nello specifico della malattia mentale, viene prodotta all’interno di certi paradigmi culturali di riferimento. È interessante ad esempio notare che in alcuni contesti africani l’individuo non esiste mai come entità isolata ma sempre all’interno di una rete di relazioni che lo rendono in primis parte di una collettività prima ancora che singolo soggetto. In questo senso la malattia è il sintomo non tanto di qualcosa che non va all’interno del corpo (o della mente) di quella specifica persona, quanto piuttosto il segnale di uno squilibrio che si è prodotto tra quella persona e l’ambiente circostante, laddove l’ambiente va inteso in senso ampio (famiglia, gruppo sociale, mondo degli spiriti, etc.).
La cura non va quindi operata solo sulla persona ma anche e soprattutto nel rapporto tra soggetto e ambiente. Questo tipo di approccio è di difficile comprensione per chi, come noi, è nato e cresciuto in società dove uno spiccato senso dell’individualità è promosso e incentivato sin dai primi anni di vita e dove l’espressione di sè stessi e l’indipendenza dagli altri sono considerati valori inalienabili. Ecco allora che l’approccio etnopsichiatrico ci offre uno spunto di riflessione importante, in quanto ci costringe a calare le nostre lenti culturali e ad inforcare altri occhiali con cui guardare al mondo e alle manifestazioni dell’esistenza umana. L’interpretazione della malattia e della cura deve necessariamente fare a meno della presunzione, tutta occidentale, di poter interpretare qualunque cosa attraverso le nostre categorie conoscitive.
In questo senso la valenza terapeutica di rituali e atti magici non va dismessa come semplice superstizione, ma al contrario chiede di essere integrata con altri approcci di cura in una dimensione necessariamente interdisciplinare. Non occorre che il terapeuta condivida la visione del mondo del paziente secondo cui sono gli spiriti a provocare la follia, ma è invece fondamentale che ne sappia cogliere la valenza simbolica fondamentale che il paziente vi attribuisce. Quella visione del mondo e della malattia diventa infatti una componente essenziale attraverso cui il paziente riesce a dar conto della propria sofferenza e ad avviare un processo di guarigione. Ed è ampiamente dimostrato che in molti casi determinati rituali terapeutici hanno un impatto sul paziente molto più potente di molti strumenti della psichiatria e psicoterapia tradizionale (Paolella 2017).
Questa constatazione acquisisce ancora maggiore rilevanza nel presente, quando un numero sempre maggiore di persone straniere si affaccia ai servizi di salute mentale del nostro Paese, ponendo una richiesta di supporto e di cura a cui il personale psico-sanitario fatica a rispondere con strumenti tradizionali. L’esperienza migratoria unita alle storie di violenza e di tortura che i corpi di queste persone raccontano senza bisogno di ulteriori parole, rende necessario un approccio al disagio psichico che sappia prendere in carico adeguatamente tale sofferenza. Tuttavia questo presuppone un cambio di sguardo sulla sofferenza stessa e la capacità di uscire dal tunnel della ristrettezza epistemologica in cui le nostre ormai note categorie interpretative ci imprigionano, per aprirsi a nuovi strumenti di indagine del malessere psichico. La possibilità della cura si fonda sulla capacità di esplorare diverse rappresentazioni di malattia e guarigione, e di sperimentare strumenti terapeutici nuovi ed integrati.
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