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Nonluoghi. Percorsi di visioni #1
Posted By Comitato di Redazione On 1 marzo 2021 @ 02:35 In Cultura,Immagini | No Comments
di Michele Di Donato e Fabiola Di Maggio
La percezione, la conoscenza e i processi di significazione connessi allo spazio sono per l’antropologia spunti di riflessione incessante. La fenomenologia dello spazio contemporaneo presuppone la conoscenza del concetto di luogo – e di tutto ciò che di questo mostri un’alterazione per le più svariate ragioni (politiche, economiche, gestionali, razziali). Quello del luogo è un concetto, e ancor prima, un’immaginazione, che appartiene alla storia evolutiva dell’uomo, al suo farsi spazio nel mondo, al suo essere nel mondo. Ebbene, l’immaginazione culturale del luogo necessita di un grado di sensibilità e attenzione da parte del singolo individuo, delle collettività e (tanto più) degli studiosi che ne propongono un’analisi, soprattutto se il loro sguardo si rivolge al presente. Ogni spazio, naturalmente e storicamente, diviene luogo, in quanto forma (come tutte le forme materiali e concettuali che sostanziano le culture del mondo), necessità antropologica, che caratterizza da sempre l’esistenza e l’esperienza di Homo sapiens nel suo essere nello spazio, anonimo o no.
A fronte del cambiamento storico-socio-culturale che ha trasposto la società occidentale dalla modernità alla postmodernità alla surmodernità, anche la percezione, l’idea, l’esperienza, la conoscenza e l’immaginazione dello spazio sono inevitabilmente mutate. Uno dei primi studiosi ad avere interpretato, queste “metamorfosi topologico-culturali”, fondando di fatto un’antropologia degli spazi surmoderni, è stato, nel 1992, Marc Augé con il suo Nonlieux [1]. L’antropologo francese sostiene che i nonluoghi sono tutti quegli spazi che non presentano (o mostrano a bassa intensità) le caratteristiche che, antropologicamente e socialmente, si sa, rendono uno spazio un luogo: identità, storicità, relazionalità. Si tratta di quei luoghi di transito, non nati, ma intensificatisi segnatamente negli anni in cui Augé propone la sua riflessione (mezzi di trasporto, centri commerciali, aeroporti, metrò, rovine, borghi deserti, nuovi media), che per le loro caratteristiche si contrappongono ai luoghi comunemente intesi.
Trovatosi più volte a interrogare la natura dei luoghi/nonluoghi, Augé, nel descrivere un certo tipo di luoghi surmoderni, non ha mai pensato che il nonluogo fosse o potesse divenire una categoria kantiana piuttosto che un modello precostituito o un’etichetta da appiccicare laddove provasse una certa accidia o pusillanimità critica, politica e intellettuale, né ha mai pensato che il prefisso “non” sancisse un’opposizione irreversibile o un dogma da accettare per fede senza porsi domande, arginando ogni altro ragionamento che contemplasse la decodifica delle dinamiche esperienziali e relazionali (proprio lui che di etnografia ne ha fatta davvero tanta!). Tornato più volte a riflettere sul concetto di nonluogo, Augé sostiene, invece, che vi sia una dialettica, un’osmosi tra luoghi e nonluoghi (la cui immagine potrebbe accostarsi al Tao cinese) non ben compresa, approfondita o conosciuta da chi, preso dai fumi dell’ideologia, si ferma a un approccio superficiale, a fronte, invece, dell’ampia letteratura sull’argomento prodotta dallo studioso soprattutto nell’ultimo ventennio [2] (in tempi di Covid-19 e di quarantene sarebbe bene che i disconoscenti facessero una doppia dose di vaccino dei testi di Augé), sostiene che il concetto di nonluogo sia un danno concettuale, una targhetta trendy, illusoria e ingannevole: un mascheramento della realtà, dello spazio. Di questa interazione, come dicevamo, Augé tiene perfettamente conto. La sua etnografia dello spazio non è una “guerra dei mondi”, né una contesa insoluta tra pratiche e non-pratiche spaziali, ma un assetto dinamico dove nel tempo e nello spazio luoghi e nonluoghi si scambiano le qualità, si attraversano l’un l’altro, nascono, muoiono, si perdono, si scoprono, si immaginano, contestualizzando sempre e comunque lo spazio di vita degli uomini per-nel-del senso / non-senso con cui lo investono.
Con la consapevolezza che le metamorfosi dello spazio generano pensiero ed esperienza e viceversa, abbiamo deciso di dare vita al volume fotografico Nonluoghi [3] che, richiamando in causa il concetto antropologico di nonluogo prova a fotografarlo mettendo in luce le sue caratteristiche attuali, le possibilità, le dinamicità, i transiti, le immaginazioni, senza la pretesa, né l’intento fanatico, di marchiare a fuoco, con scarsa cura o ricerca, certi spazi e pratiche che, si è appurato, senza illusione alcuna, esprimono dei tratti peculiari del nonluogo pensato e ripensato da Augé. Nonluoghi è il primo dei volumi realizzati all’interno di una masterclass di narrazione fotografica, a cura di Michele Di Donato, per il format “Percorsi di Visioni”. Il corso prevede che i fotografi declinino (ognuno secondo il proprio stile e la propria poetica) un tema o un concetto sul quale sono chiamati a riflettere. Trattandosi di un’attività seminariale e laboratoriale, i fotografi acquisiscono delle competenze che, oltre a comprendere la realizzazione di un portfolio fotografico [4], include anche la messa a punto di uno statement che ne parli. Per queste ragioni, dato che si tratta di una pubblicazione di fine corso, il volume è composto dal testo introduttivo del curatore, da un testo critico di Fabiola Di Maggio, e dai ventidue portfolio, ognuno dei quali è appunto preceduto da un’argomentazione dell’autore sul lavoro realizzato, la quale non intende convalidare l’autorevolezza delle fotografie, ma dare spazio alla parola come pratica riflessiva di introduzione al portfolio per qualunque tipo di contest (concorso, rivista, mostra, libro, catalogo).
A proposito di fotografia, occorre fare le dovute e analitiche precisazioni. Il volume, benché collettaneo, non è certamente composto, come invece qualcuno ha recentemente sostenuto, da diversi “progetti-reportage-narrazioni”, cioè da un pot-pourri che farebbe indigestione tanto a Gerard Genette [5] quanto a Jerome Bruner [6]. È proprio sulle teorie di questi studiosi che si fonda, infatti, anche la moderna narratologia fotografica. Allora chiariamo. Un progetto parte da una narrazione per strutturarsi in un racconto la cui forma dipende dal medium utilizzato. Un reportage è solo una delle innumerevoli forme in cui si modella uno storytelling. La narrazione, oltre ad essere, letteralmente “l’atto del narrare preso in se stesso”, è anche l’affermazione del punto di vista del mittente che veicola il suo messaggio modellando la sua storia. Fatte le giuste premesse, dunque, il volume è composto da ventidue narrazioni diverse di uno stesso tema, declinate ciascuna secondo lo stile fotografico del proprio autore (storytelling) e scaturite da ventidue progetti diversi posti in essere dopo ricerche, studio delle fonti, centinaia di storyboard e schizzi preparatori. Il tutto analizzato, discusso e finalizzato in quattro mesi di studio e lezioni. Nessuno dei fotografi coinvolti ha mai pensato di inventare nulla. Ciascuno di loro, invece, ha dato la propria lettura, esplicativa, argomentativa, concettuale o strutturale del tema proposto. Qualcuno è addirittura riuscito, nell’ambito dello stesso racconto visivo, ad inserire contemporaneamente un racconto primario ed uno secondario, strutturando così una storia a due livelli narrativi: diegetico ed extradiegetico, dove riusciamo a vedere la mise en scene contemporanea di un racconto a focalizzazione interna ed esterna. Sono state cioè create delle storie in cui gli scarti tra i diversi livelli della diegesi diventano il soggetto stesso della narrazione; quelle che Genette, appunto, ha definito «metalessi» [7].
Nonluoghi raccoglie i portfolio di ventidue fotografi: Mario Benenati (Villaggio Jungi), Pinuccia Botta (World Wide Connected), Valentina Brancaforte (Cio’ che resta del fuoco), Raffaele Di Raimondo (Floating figures), Domenico Fabiano, (I need my beauty rest), Samuele Formichetti (Blended), Roberto Gabriele (Q4-Q5), Cristiano La Mantia (In her mind), Carmen Garcia Llorens (Miraggio in blu), Roberto Manfredi (C’era una volta il mare), Maurizio Marchese (Il mondo di Hanna), Cristina Marchisio (Forlanini), Ornella Massa (#savebussana), Silvia Narducci (Corviale), Anna Nosari (Comete), Simona Ottolenghi (MetroJam Tokyo), Giovanni Polizzi (Transit), Massimo Privitera (Reality), Luciana Santioli (S.A.E.), Maurizio Sapienza (Lo spazio e il suo tempo), Lia Taddei (Linee metafisiche), Tonino Trovato (Dove abiterà il futuro?). Attraverso diverse scelte tecniche ed espressive, che, come si evince anche solo dai titoli, hanno prodotto narrazioni eterogenee ma accomunate dalla stessa volontà esplorativa, i fotografi hanno compiuto un’indagine sul concetto, sull’interpretazione e sull’immaginazione del nonluogo in Sicilia, in Italia e all’estero. Sono stati così presi in considerazione i riverberi architettonici di un forum avveniristico, dei centri commerciali, un quartiere dormitorio, il vuoto di un lago disseccato, un sanatorio derelitto, una piazza smisurata, un paese abbandonato, gli schermi agiti di smartphone e tablet, le dinamiche dei metrò, il ricordo di una casa andata in fiamme, l’arte in un sobborgo popolare, la vita degli homeless, i corpi dimora di malattie e le soluzioni abitative in emergenza. Ognuno di questi percorsi fotografici contribuisce a creare con la propria visione una rete dove spaziano vecchi e nuovi immaginari di senso sui nonluoghi e, senza scarti, sui luoghi.
Ad un’attenta lettura, infatti, il fil rouge che cementa i portfolio fino a farne un unicum visuale è, proprio il rimando, la contiguità tra luoghi e nonluoghi. Un limbo dentro il quale ci muoviamo tutti ogni giorno; un territorio di nessuno che è una sorta di Paese delle Meraviglie, dove vale tutto e il contrario di tutto. Possono esserci delle relazioni, oppure no. Ci si possono mettere radici, oppure decidere di passare senza lasciare traccia. Si può decidere di costruire casa, oppure andar via il più velocemente possibile. Gli scatti raccolti nel volume, con il potere bionico che la fotografia possiede, intrecciano, dunque, diversi livelli spazio-temporali e narrativo-visuali, richiamando alla mente (come tutte le buone immagini) ciò che non è ritratto ma che pure sappiamo esistere o essere esistito in quello spazio: storie di vita e di morte, di dolore e di speranza, di memorie e di oblii, di solitudini e di alleanze. Storie di uomini, ovunque. Come sempre.
Posto che, senza scoprire l’acqua calda, l’uomo si ambienta ovunque e comunque, è innegabile che le costruzioni e le rappresentazioni di certi luoghi più di altri (agglomerati abbandonati e dimenticati, paesi fantasmatici, quartieri dormitorio, sobborghi popolari, ghetti, soluzioni abitative in emergenza, luoghi di attraversamento, frontiere, cyberspazi e social network) – esito di giochi di potere, di squallidi profitti economici, di corruzioni, di guaste gestioni politico-amministrative, delle disparità tra classi e delle discriminazioni razziali – ci portino a riflettere sulla loro manifesta alterità. Alterità, si badi bene, non di coloro che ci vivono o sono costretti a risiedervi, che ci lavorano o vi transitano abitualmente. Diversità dello spazio che, per le suddette ragioni, si presenta iniquo, terrificante, illegale, discontinuo, decadente, abbagliante, simulato. Ma certamente vero.
A tal riguardo, quindi, ci chiediamo: è fuori luogo, o, per assurdo, discriminatorio, constatare che un ghetto o una frontiera siano delle discontinuità nella percezione di uno spazio socio-culturale, economico e politico che si vorrebbe (e dovrebbe essere) libero e paritario? È illusorio e fallace parlare di narrazione virtuale se, ovunque siamo, una volta staccata la connessione al dispositivo di turno che ci ha assicurato la compagnia nel mare magnum dei social, ci si ritrova dentro la concreta narrazione del reale? È solo romantica nostalgia o mascheramento dello spazio osservare che il bene “principe” nella giungla delle cose ci governa consumandoci di consumi? E ancora, fotografare un certo tipo di spazi o un certo tipo di legami e pratiche con e nello spazio, provare a farne venire fuori le criticità (strutturali, fisiche, psicologiche) attraverso il linguaggio fotografico, significa non sapere, non capire o non considerare che ogni singola identità è una vita di storie (abitate, immaginate, attese, agite, parlate, ascoltate, scritte, lette, postate, trasposte, sospese, rinnegate, ghettizzate, esiliate, tediate, estromesse) e che tante vite formano una comunità più o meno allargata, fino ad essere globale, di storie? Infine, con buona pace di certe grottesche paturnie, è mai possibile credere che proprio la fotografia, tra le varie arti della cultura visuale e dell’immaginario umano moderno, non dica, o peggio, non immagini, proprio nei meandri delle sue narrazioni, di fare luogo laddove questo evidentemente si sottrae?
A tutte queste domande e a chi improvvisa critiche per posizione politica, dimostrando, di fatto, di non utilizzare minimamente le coordinate per muoversi nei luoghi di ricerca (pratica e teorica) della fotografia, della cultura visuale e della stessa antropologia (utili per commentare questo prodotto editoriale composito), rispondiamo fermamente di no. E Nonluoghi non dice né mette in luce il contrario.
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