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Nel corpo a corpo tra l’Islam e la modernità

Posted By Comitato di Redazione On 1 gennaio 2016 @ 00:40 In Cultura,Letture | No Comments

di Antonino Cusumano

copertinaSi sa che chi legge un libro lo riscrive, lo traduce nelle sue esperienze, lo riempie del suo vissuto, dal momento che non è spettatore inerte né passivo recettore di quelle pagine ma soggetto attivo di un intenso e creativo colloquio con l’autore. I libri, nelle mani del lettore, sono corpi vivi, plastici, cangianti, immersi nel fluire eracliteo degli spazi e delle stagioni della vita. Nemmeno quando stanno fermi e allineati sugli scaffali delle biblioteche, sono davvero rigidi e immobili, perennemente eguali nel tempo. A guardar bene, infatti, i libri sono oggetti mobili, non rimangono mai gli stessi, si modificano e si presentificano, perdendo e guadagnando qualcosa, sbiadendo alcuni tratti e altri assumendone, ricevendo nuove luci e nuove risonanze dai mutamenti dei contesti e dalle dinamiche storiche. Possiamo dire dei libri quel che Calvino ha scritto per le parole che «come i cristalli hanno facce e assi di rotazione con proprietà diverse, e la luce si rifrange diversamente a seconda di come questi cristalli-parole sono orientati, a seconda di come le lamine polarizzanti sono tagliate e sovrapposte».

Per questo ogni ristampa è comunque un libro nuovo, ha certamente nuove cose da dire, nuove sollecitazioni da proporre. Secondi le ragioni del mercato, coincida con occasioni celebrative o memorie di anniversari, sia il frutto di emergenti interessi editoriali o intellettuali, il libro ripubblicato è sempre un’epifania, una scoperta, una novità. Avrà occhi nuovi di lettori a cui parlerà con accenti diversi. Gli stessi significanti produrranno significati inediti, gli stessi interrogativi provocheranno altre risposte. Tra il testo e il contesto il legame resta imprescindibile e ineludibile: l’uno rifluisce e transita nell’altro, abitando sempre nel presente di chi lo legge.

Abita più che mai nelle intemperie della nostra attualità il libro appena uscito di Daryush Shayegan, Lo sguardo mutilato (Ariele edizioni 2015), che raccoglie scritti del 1986 e del 1989, per la prima volta editi in Italia. A circa trent’anni di distanza le pagine dello studioso iraniano non solo non sono affatto invecchiate ma sono, al contrario, quanto mai illuminanti nel buio inquietante dentro il quale oggi brancoliamo per tentare di capire ciò che sta accadendo nel nostro rapporto con quel mondo islamico tanto più lacerato e frantumato quanto più minaccioso e violento. Se non vogliamo davvero credere che si stia consumando uno “scontro di civiltà”, come vorrebbero insegnarci i soliti noti e facinorosi maître à pense, è bene decentrare lo sguardo, sporgersi sui confini, imparare che le stesse cose possono avere nomi diversi e che altrove o per altri la stessa cosa non è propria la stessa cosa.

Daryush Shayegan è il virgilio ideale per approssimarci alla conoscenza della civiltà islamica, per gettare luce all’interno di quella antropologia culturale complessa che mischia politica e religione, per decifrare quell’amalgama totalizzante che facciamo fatica a ricondurre alle categorie interpretative occidentali. Figura eminente dell’intellighenzia iraniana tra le più aperte ed eclettiche, Shayegan ha studiato la filosofia presso la Sorbona di Parigi, la letteratura in Svizzera ed è stato professore di studi indiani e di storia comparata nell’Università di Teheran tra il 1968 e il 1979. Oriente e Occidente si incrociano nel suo orizzonte di osservatore e di interprete delle società musulmane, della loro identità politica e civile, della loro evoluzione e della loro decadenza. Di schizofrenia culturale scrive lo studioso a proposito del rapporto di queste società con la cosiddetta modernità, un legame incestuoso e contraddittorio, sempre in bilico tra la fedeltà alla tradizione ortodossa e l’attrazione e seduzione dei modelli tecnologici occidentali. Da qui l’ambivalenza che «mutila lo sguardo e deforma, come in uno specchio rotto, la realtà del mondo e le immagini dello spirito».

Alla luce di questa condizione di strutturale e radicale scissione – non solo cronologica ma anche ontologica – l’autore conduce e argomenta la sua tesi che spiega il profondo e incolmabile iato tra il passato e il presente, tra la lettera del Corano e la storia contemporanea, tra la percezione delle cose e le cose. La doppiezza che attraversa il senso comune dominante in quasi tutte le culture dei Paesi islamici fa convivere con attriti stridenti arcaismi ideologici e tecnologie avanzate, teologie e filosofie, poteri temporali e autorità spirituali. Nel guado di una transizione irrisolta, tra occidentalizzazione e islamizzazione, ovvero tra modernizzazione e regressione verso la mitologia delle origini, si producono le inevitabili distorsioni per effetto della sovrapposizione dei due paradigmi che si respingono e si deformano reciprocamente, «al punto che il mondo che ci si rappresenta è post-hegheliano nella sua infrastruttura filosofica e pre-galileiano nel suo contenuto». Una contraddizione identitaria insanabile, una cicatrice aperta e profonda, una ferita sul corpo di popolazioni che vivono il disagio di essere intrappolati dentro questo assurdo e rovinoso anacronismo.

 Il Corano  copia manoscritta del VII sec.

Il Corano copia manoscritta del VII sec.

Shayegan partecipa a questa sindrome di frustrazione collettiva con la lucida consapevolezza dello studioso di filosofia comparata, e l’amarezza sentimentale dell’uomo, musulmano tra i musulmani. E in una sorta di autobiografia culturale, traccia il percorso delle ragioni storiche e delle radici antropologiche che accompagnano e segnano la condizione di crisi contemporanea delle comunità islamiche. Pur facendo riferimento soprattutto alle vicende dell’Iran nel passaggio dalla Monarchia dello Scià alla Repubblica degli Ayatollah, il quadro analiticamente descritto è rappresentativo di un mondo, di un’epoca, di una civiltà. Nell’ampio breviario che ha il ritmo di un pamphlet e lo stile di un racconto, l’autore, con il contributo bibliografico delle più diverse voci di letterati, scrittori e pubblicisti, sia della cultura occidentale che di quella orientale, passa in rassegna gli snodi cruciali nei rapporti tra il mondo islamico e il pensiero europeo. Osserva che le élite intellettuali e religiose della maggior parte dei Paesi musulmani, sia a maggioranza sciita che sunnita, irretite nella sclerosi scolastica e nella ripetizione manieristica della tradizione, si sono fatte interpreti di una civiltà che non ha conosciuto i tre maggiori avvenimenti della storia europea destinati a forgiare la modernità dei tempi nuovi: l’espansione delle vie marittime, il Rinascimento e soprattutto la Riforma. «Le ultime fasi delle nostre cattedrali di pensiero – scrive Shayegan – coincidono curiosamente con il sorgere della soggettività cartesiana. Si sarebbe quasi tentati di dire, con Hegel, che lo Spirito del Mondo si allontana dalle aree culturali conchiuse per rifugiarsi in qualche parte dell’Occidente. (…) Da più di tre secoli, noi, i discendenti delle civiltà d’Asia e d’Africa, siamo in vacanza nella storia. Dopo aver posto l’ultima pietra delle nostre cattedrali dottrinali in stile gotico, ci siamo messi a contemplarle». E aggiunge: «Da molti secoli abbiamo smesso di danzare a tempo, di metterci in sintonia con le grandi trasformazioni che hanno sconvolto il mondo»

Alla sfasatura temporale e all’inadeguatezza dei modelli di riferimento, anchilosati e ossificati su strutture e dogmi medioevali, va ricondotta la paradossale dipendenza dall’Occidente, sia che lo si insegua nelle scienze e nelle tecniche subite per procura, sia che lo si combatta nella sua filosofia e negli stili di vita, stimati corrotti e depravati. La dialettica manichea tra la acritica demonizzazione di tutto ciò che è esogeno e la difesa retorica di tutto ciò che è endogeno si risolve in pratica nella soggiacente discriminante colonizzatori/colonizzati, egemonia/subalternità. Da qui la definizione dello sguardo mutilato, critico sull’Occidente e cieco su se stessi. Mutili sono anche le traduzioni, a cui Shayegan attribuisce la responsabilità delle distorsioni intellettuali, dal momento che in lingua araba le opere del pensiero e della letteratura europee sono quasi del tutto inaccessibili. In questa sorta di claustrofobia culturale cui è costretta gran parte dell’intellighenzia delle società islamiche si consumano l’alienazione, lo smacco, il risentimento o il rancoroso distacco.

In fondo, a guardar bene, è proprio nella fenomenologia della traduzione, intesa quest’ultima in senso non solo linguistico ma più ampiamente antropologico di transizione e transazione culturale, nella insufficienza e inadeguatezza delle mediazioni e delle interpretazioni dei significati e delle prassi, che vanno ricercate le cause strutturali della reificazione dell’orizzonte conoscitivo e dell’idealizzazione di sé. Posizioni che possiamo per molti aspetti ritrovare sia sul fronte musulmano che su quello occidentale, essendo entrambe correlate – secondo il paradigma geertziano – alla elaborazione critica del sé sotto lo sguardo dell’altro. Alla radice della incomprensione e della conflittualità sono dunque essenzialmente problemi di traduzione, ovvero del rapporto con la distanza dell’altro che si può attraversare – come suggeriva Lèvi-Strauss – solo dopo aver preso distanza da noi.

Le argomentazioni di Shayegan, potenti e persuasive nel loro rigore di indagine e di scavo analitico, valgono in tutta evidenza non soltanto per il caso dell’Iran, dove gli ulema hanno sempre avuto un’enorme influenza, ma per tutti i Paesi dove l’onnipresenza tentacolare della cultura islamica ha finito col curvare il tempo lineare della storia nel tempo ciclico del mito, nell’illusione di bypassare la modernità. Confondendo analogicamente e simbolicamente la realtà e la sua immagine retrospettiva, i musulmani finiscono col vivere nella separatezza di coordinate storiche parallele, dentro una coscienza identitaria lacerata, nella sospensione di una condizione esistenziale in profonda crisi. Anche l’intellettuale libanese Samir Kassir, prima di essere assassinato dalle truppe di occupazione siriane, ebbe a scrivere dell’infelicità araba, che consisterebbe nella loro impotenza a essere dopo essere stati, nel cordoglio di un lutto non elaborato per una grandezza perduta e invano vagheggiata. Va da sé che, pur distinguendo tra arabi e musulmani (i due termini – come è noto – non coincidono), entrambi sono tuttavia immersi nella stessa cultura, essendo la lingua e la religione intimamente connessi.

jL83glMbojmW-mbNei giovani è senza dubbio più sofferta e più nevrotica quella schizofrenia culturale che li espone da un lato alla fascinazione dei media e dei consumi della contemporaneità, e dall’altro ai rischi del ripiegamento panislamico, del ritorno alle fonti della tradizione, del mito della rinascenza musulmana. Accade così – come scrive Shayegan – che «sotto la greve superficie delle forme “islamiche”, che investono letteralmente tutti i molteplici aspetti della vita, palpita il sottosuolo di un’altra vita più intensa, sovversiva, clandestina, tributaria dei modelli culturali dell’Occidente». Ne era fermamente convinta pure Fatema Mernissi, eminente sociologa marocchina scomparsa appena un mese fa, la quale nel suo Islam e democrazia, scriveva della «modernità mutilata» e annotava che la  tecnologia informatica, le TV satellitari indipendenti come al-Jazira, le reti Internet a cui si rivolgono soprattutto i giovani e le donne, «con un occhio alla televisione e l’altro al passaporto», contrastano il monopolio della conoscenza, la propaganda dei nuovi despoti islamici e la disinformazione delle potenze occidentali. E tuttavia paventava gli effetti perversi dell’intreccio di frustrazione economica e dissimulazione religiosa, una miscela esplosiva per tutta l’area mediterranea. «Dobbiamo prepararci – scriveva – a essere schiacciati dalla sua violenza se non mobilitiamo tutte le persone di tutte le nazionalità, per analizzarlo, capirlo e cercare di guarire l’amarezza e il degrado umano che esso cristallizza».

Se la modernità è ridotta a clandestinità, l’ambivalenza può esitare in fondamentalismo, l’islamizzazione può offrirsi come unica via d’uscita alternativa al vittimismo di chi si sente escluso e sconfitto. Laddove le antenne paraboliche sono ritenute “sataniche” e sono perfino proibite, «per milioni di diseredati che lo vivono come il loro unico patrimonio simbolico, l’Islam è chiamato ad avere una parte importante come loro referente identitario, mentre attendono di fare il loro ingresso nel campo del sapere moderno». Le parole della scrittrice Fatema Mernissi giungono a noi, nelle cupe asperità delle cronache del nostro tempo, particolarmente lungimiranti e sembrano incrociare e riprendere quelle dello studioso iraniano Daryush Shayegan, che legge l’incalzante processo di islamizzazione come «l’estremo limite realizzabile cui può arrivare una filosofia d’identità culturale quando, uscendo dai suoi cardini, finisce nell’autoaffermazione sfrenata e nella negazione dell’altro (…), l’attualizzazione di tutte le distorsioni che sono virtualmente presenti nell’immaginario sociale».

La torsione ideologica e politica cui è piegata la religione, portata addosso «come una pelliccia messa al contrario», per usare le parole dello storico algerino Alì Merad, può degenerare – come purtroppo abbiamo già sperimentato – nella violenza terroristica e nella restaurazione di un improbabile Califfato, che non è dunque eruzione irrazionale ed estemporanea di un magmatico incubo dalle origini medioevali, ma è piuttosto lo sciagurato prodotto di un feticismo culturale che educa le nuove generazioni di musulmani al «compito prometeico di rifare il mondo». Che questo delirante disegno suggerisca l’immagine di «un corteo funebre di sogni pietrificati destinati a scomparire nelle sabbie del deserto», come scrive Shayegan, o sia piuttosto «il terzo sogno islamico che si oppone a quello americano», come ha affermato recentemente il filosofo tedesco Peter Sloterduk, resta il fatto che i giovani convertiti a questa paranoia favolistica ed eroica abitano il nostro tempo ma fuggono nel passato del VII secolo, usano internet mentre attraversano il deserto, conoscono le più raffinate tecniche della comunicazione mediatica ma credono nell’utopia del martirio e coltivano la cultura della morte.

Queste contraddizioni sembrano sciogliersi e trovare il loro orizzonte di senso nell’apocalissi della Guerra santa, invocata e dichiarata da Abu Bakr al-Baghdadi, in quella jihad nata sulle macerie del nazionalismo arabo protagonista del secolo scorso. Nell’arcaismo comunitarista islamico e nel folle riscatto affidato al terribile appello del Califfo è paradossalmente possibile che qualcuno ritrovi i significati perduti della grammatica elementare di interpretazione della vita e di comprensione della realtà. È perfino possibile che anche in Occidente una certa gioventù nichilista finisca col partecipare alla medesima narrazione che sull’estetica della morte giustifica lo sterminio degli infedeli e il sacrificio suicida quale eroico passaggio per guadagnare la gloria del paradiso. Aberrazioni e abiezioni, furori parossistici, mostruosità come le decapitazioni e le brutalità ostentate, le rapine e gli stupri delle donne ridotte in schiavitù, le feroci distruzioni dei tesori archeologici e artistici dell’umanità, nulla di tutto questo ha a che fare, tuttavia, con l’Islam, né tanto meno ascrivere questa violenza ad una presunta guerra di religione aiuta in alcun modo a capire quel che sta accadendo.

Distruzione del tempio a Hatra, Iraq

Distruzione del tempio a Hatra, Iraq

Chi si adopera per stigmatizzare i musulmani in quanto tali, di fatto, oggettivamente, alimenta quel corto- circuito che promuove la loro radicalizzazione identitaria. Se nessuna guerra di religione ha le sue cause nella religione stessa, sarebbe più proficuo ragionare ribaltando i termini del binomio: non di una guerra di religione si tratta, ma di una religione della guerra, tanto più potente quanto oscura e ambigua. D’altra parte, nessuno scontro di civiltà è ipotizzabile dal momento che le culture sono astrazioni e, al limite, invenzioni, sono significanti di significati interpretati e incarnati dagli uomini in carne e ossa, che possono essere più o meno tolleranti, più o meno intransigenti o violenti. Etnicizzare i conflitti, come è sempre più pratica diffusa, equivale a naturalizzare le culture, a essenzializzarle, a reificarle. La verità è che se noi non capiamo questo miliardo e mezzo di uomini e donne che si riconoscono nell’identità musulmana, loro non capiscono noi che ci diciamo cristiani o semplicemente occidentali. E noi e loro, pur vivendo e abitando accanto, restiamo chiusi e prigionieri dentro recinti invalicati e non comunicanti, confermati e condannati nella reciproca incomprensione.

Ecco perché per approssimarci alle ragioni storiche e culturali e alle complesse questioni poste oggi dal terrorismo cosiddetto islamico, il ricorso all’impiego di categorie eminentemente antropologiche è non solo utile ma necessario. Si pensi al ruolo esercitato da temi e concetti quali identità, mito, utopia, sacrificio, rito, carisma, messianesimo etc. In questo senso, la riflessione che su queste materie offre il volume di Daryush Shayegan è un contributo quanto mai prezioso e attuale, anche perché è una voce che viene dall’interno profondo di quel mondo travagliato e lacerato. Restano, a questo proposito, profetiche non tanto le parole rabbiose e xenofobe di Oriana Fallaci – oggi strumentalmente tornate alla ribalta dei media – contro gli immigrati arabi che sporcano con la loro presenza le nostre città d’arte, quanto quelle del grande filosofo e storico inglese Arnold J. Toybee, autore nel 1947 di un classico della storia comparata, Civiltà al paragone, in cui nel paragrafo dedicato all’Islam, l’Occidente e il futuro, si legge: «Il Pan-islamismo dorme e tuttavia noi dobbiamo tener conto della possibilità che il dormiente possa svegliarsi, nel caso che il proletariato cosmopolita di un mondo occidentalizzato si ribelli contro la dominazione occidentale e invochi una guida anti-occidentale». Absit omen.

Dialoghi Mediterranei, n.17, gennaio 2016

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 Antonino Cusumano, ha insegnato nel corso di laurea in Beni Demoetnoantropologici presso l’Università degli Studi di Palermo. La sua pubblicazione, Il ritorno infelice, edita da Sellerio nel 1976, rappresenta la prima indagine condotta in Sicilia sull’immigrazione straniera. Sullo stesso argomento ha scritto un rapporto edito dal Cresm nel 2000, Cittadini senza cittadinanza, nonché numerosi altri saggi e articoli su riviste specializzate e volumi collettanei. Ha dedicato particolare attenzione anche ai temi dell’arte popolare, della cultura materiale e della museografia.

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