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Narrazione e resilienza
Posted By Comitato di Redazione On 1 luglio 2018 @ 01:07 In Letture,Migrazioni | 1 Comment
«resiliènza s. f. [der. di resiliente]. – 1. Nella tecnologia dei materiali, la resistenza a rottura per sollecitazione dinamica, determinata con apposita prova d’urto: prova di r.; valore di r., il cui inverso è l’indice di fragilità. 2. Nella tecnologia dei filati e dei tessuti, l’attitudine di questi a riprendere, dopo una deformazione, l’aspetto originale. 3. In psicologia, la capacità di reagire di fronte a traumi, difficoltà, ecc» [1].
Della voce lessicale riportata il nostro interesse è diretto al terzo significato del lemma, come capacità tipicamente umana di proteggersi, di preservarsi a fronte di un danno e al contempo di ricostituire positivamente la propria condizione nonostante la perdita subìta. Dato il significante, la parola, ed il significato potremmo ricostituire il triangolo semiotico e individuare il referente, ovvero l’oggetto extratestuale a cui il segno rimanda, ad una specifica categoria: quella dei migranti. Chi più dei migranti ha tale straordinaria capacità? Chi più di loro se ne avvale nell’iniziare una nuova vita a dispetto delle perdite? Di quanto patìto, subìto, lasciato dietro di sé? Chi nonostante le violenze, gli orrori, la guerra, la fame, la morte, avrebbe la capacità di ricominciare?
Il sito dell’Alto Commissario delle Nazioni Unite per i Rifugiati (UNHCR) raccoglie in una sezione specifica le storie di vita dei rifugiati: «Non solo numeri. Storie di donne, uomini, bambini e famiglie costrette ad abbandonare la propria casa e a cercare protezione altrove. Storie di guerra e persecuzioni, ma anche di coraggio, rinascita e resilienza» [2], una scelta per contrastare da una parte quel processo di reificazione ovvero di spersonificazione vanificante la singolarità, e dall’altro il racconto delle vite migranti diviene strumento per combattere pregiudizi e disinnescare stereotipi. Melissa Fleming, capo delle comunicazioni dell’ UNCHR, lavorando come portavoce dell’agenzia visita le zone di guerra e i campi profughi, restituendo la voce a chi non può narrare. È così che inaspettatamente si è trovata davanti Doaa, una giovane profuga siriana e con essa la sua incredibile storia:
Data l’eccezionalità dimostrata nel percorso migratorio, la storia di Doaa diviene un libro Più profondo del mare (Piemme, 2017 trad. it di A. Carena), un caso editoriale tradotto in dieci lingue e atteso in tutto il mondo a seguito della TED Talks scritta nel 2015, il cui video fu visualizzato un milione e mezzo di volte, e scelto da Spielberg per trarne un film [3]:
Conosciamo così Doaa Al Zamel, una ragazza o meglio ancora una bambina «estremamente timida» con una «particolare dolcezza» in grado di attrarre quanti la incontrano e che «fin dall’inizio, […] avrebbe portato fortuna alla famiglia» a detta della madre. Doaa vive a Daraa, una città particolarmente popolata ubicata nella zona sud-occidentale della Siria. È il 2011 e Bashar al-Assad è asceso al governo sostituendo il tirannico padre Hafiz al-Assad, tiranno che tanto crudelmente aveva stretto in una asfittica morsa il popolo siriano depredandolo da ogni libertà di espressione, da ogni diritto alla libertà individuale. Ma il 2011 è anche l’anno del cambiamento, l’anno di quel vento scomposto che impollina l’arido deserto dei territori posti sull’altra sponda del Mediterraneo, vento di vita, vento di Primavera. È l’anno della Primavera araba, di quelle rivoluzioni frutto di simultanei processi di maturazione culturale e di rivolgimenti sociali che hanno seguito percorsi differenti per incontrarsi in un preciso momento storico: Tunisia ed Egitto riescono a liberarsi dalle zanne della dittatura, mentre per la Siria inizierà quell’incubo che ad oggi, dopo sette anni e milioni di morti non trova fine.
Melissa Fleming segue la biografia di Doaa, espone i fatti, i dubbi, le scelte che portarono la ragazza e la sua famiglia a spostarsi in Egitto e successivamente ad intraprendere, insieme al fidanzato Bassem, la decisione più critica, quella di affidarsi ai passeur, di imbarcarsi e affrontare quella distesa d’acqua che tanto la inquietava per raggiungere l’Europa. Ma qui l’orrore, lo spezzarsi dei sogni, il naufragio, la morte, eliche che amputano e disarticolano corpi, cinquecento persone boccheggianti, chi si lascia andare e va giù, e lei avvinghiata ad un salvagente, ma non per salvarsi, non aveva più alcun motivo per farlo, ma per salvare, due bimbe, Malak, Masa, la speranza, forse, ancora.
Il romanzo è quindi la narrazione di una storia vera, di vita vissuta, racconto di migrazione, il romanzo è una biografia: un testo che ricostruisce la vita di un soggetto e viene scritto da una terza persona. Sappiamo che questo tipo di messa in forma può tendere verso il polo della scrittura saggistica o quella del romanzo, verso il vero, con un taglio ed un lessico scientifico, o verso il verosimile, romanzando alcuni dettagli che verosimilmente potrebbero essere accaduti ed utilizzando in questo caso un linguaggio più prossimo alla scrittura narrativa. Il libro della Fleming costituisce un caso particolare, seppur presentato come romanzo biografico sembra avere dei legami con la sfera saggistica.
Se sul piano del contenuto la lettura può fuorviare il giudizio del lettore, facendo credere che si tratti di materia romanzesca, a causa di alcuni elementi quali l’eccezionalità della vicenda narrata o la notevole forza d’animo che la giovane Doaa dimostra in situazioni limite, tanto da sembrare la vicenda quasi surreale tanto quanto irreale l’eroina, sul piano della forma la scrittura è prossima alla cronaca. Il registro utilizzato è semplice, diretto, scevro da ogni virtuosismo o particolari artifici retorici nella restituzione degli eventi, dei pensieri, delle emozioni, è un scrittura intenta a far comprendere più che narrare, volta a presentare Doaa, a rappresentare la sua storia e ad informare piuttosto che esercizio stilistico mirato al mettere in luce le capacità autoriali. Si ha come l’impressione che l’autrice voglia comparire il meno possibile nel testo, e nonostante l’uso della terza persona le parole sembrano essere una superficie trasparente, invisibile, permettono di vedere la realtà al di là di esse, parole che cedono il posto alla protagonista, mentre l’autore limita fortemente il proprio io all’interno del racconto.
Tale modo di procedere, tenendo basso il profilo autoriale in favore dell’emersione di una seconda soggettività rende il testo simile ad una storia di vita: interpretazione indirizzata dalla possibilità che offre la trasparenza del testo: è possibile desumere attraverso la narrazione non semplicemente informazioni effimere e aneddoti riflettenti visioni di luoghi altri, lontani, esotici, quanto potenzialmente lascia intravedere uno dei possibili modi in cui una soggettività si sviluppa e viene alimentata dal sistema culturale entro cui si embrica. Vengono in mente a tal proposito le parole di Clemente (2013: 155-156): « le storie di vita ci fanno assistere allo spettacolo meraviglioso [...], di una cultura vista dall’interno di una vita, e di una vita vista dall’interno di una cultura».
Ed è così che nel tempo in cui Doaa svela i propri desideri, le passioni, le difficoltà, le sofferenze, contestualmente noi assistiamo al prendere forma della sua identità, del suo costituirsi donna, del suo voler essere qualcosa di più, osserviamo come Doaa venga plasmata da un momento critico della storia siriana, come lei venga attraversata dal vento del cambiamento e come sotto a quel vento sbocci un fiore volitivo, niente affatto contenta di essere e rimanere una tradizionale ragazza musulmana, ma aspirante ad aprire la propria corolla verso cieli più lontani. Vedremo come la Storia si insinua nella storia, come gli eventi politici si intersecano con il vissuto personale, spezzino la linearità del quotidiano e trasformino la ragazza prima in migrante e poi in profuga. Infine vedremo Doa arrancare, distrutta, la osserveremo cercare nuovi significati, nuovi scopi da attribuire alla sua vita.
La sua storia simile a tante altre è fortemente significativa, una trama che affiora come modello ricorrente tra coloro che scappano da determinati contesti, è infatti possibile cogliere negli accadimenti individuali ed intimi della vicenda di Doaa quelle tracce di un modo di vivere, ma anche di sentire comune a quanti sperimentano la condizione migratoria, come la nostalgia provata per la propria patria, il sentirsi sempre e costantemente fuori luogo, lo spaesamento, l’alienazione dal proprio corpo, il tentativo e il bisogno di ricostituire un ordine, di dare una parvenza di normalità alla propria vita e quindi la voglia di raggiungere l’Europa, ma con lo sguardo rivolto sempre al passato, con il desiderio fisso di tornare in Siria. Emergono dal racconto quelli che sono le mitologie personali, quei modi di rappresentazione dell’io e della propria storia, ravvisabili già dalle prime pagine del racconto, come quel presentarsi, attraverso le parole della madre Hanaa, come una bambina la cui eccezionalità è connaturata, già presente al suo venire al mondo, Doaa infatti è «davvero una preghiera mandata da Dio», capace di sanare quei conflitti e quelle tensioni familiari che nascono spesso in seno alle famiglie tradizionali e patrilineari. Nel corso della narrazione è interessante notare come questo modo di presentare la protagonista vada a sovrapporsi e a coincidere in ultima analisi con l’autorappresentazione che Doaa avrà di se stessa, e che si tradurrà nell’obiettivo futuro, nello scopo ultimo della sua vita: quello di aiutare i profughi con la sua storia.
Potremmo tentare di capire come questo processo di identificazione sia stato possibile se osserviamo il romanzo attraverso una particolare lente che è quella del metodo biografico ed autobiografico. Per far questo dobbiamo considerare quanto la Fleming precisa all’interno delle note finali contenute nel romanzo. Nell’assoluta trasparenza la scrittrice inserisce non solo i ringraziamenti a quanti hanno collaborato e co-partecipato alla stesura del libro, ma chiarisce la metodologia seguita per ricostruire la vita di Doaa. Il metodo sembra essere quello biografico utilizzato dalle discipline sociali, un metodo che si avvale di una serie di strumenti che spaziano dalla raccolta di varie tipologie di dati alle interviste narrative:
Il primo passo è la raccolta del materiale: «Le mie colleghe della comunicazione ad Atene – Ketty Kehayioylou, Stella Nanou e Katerina Kitidi – organizzarono la mia visita e recuperarono e tradussero tutto il materiale pubblicato dalla stampa greca per fornirmi una documentazione. Quegli articoli, insieme alle foto e ad altri resoconti, si sarebbero rilevati utili in seguito per il libro, malgrado alcune inesattezze giornalistiche che emersero dopo un controllo incrociato delle fonti». Leggiamo soprattutto di diversi passaggi in cui sono le interviste narrative ad essere privilegiate, non solo rivolte a Doaa ma estese all’intero gruppo familiare:
I colloqui vengono richiesti alla famiglia egiziana ospitante, ai sopravvissuti della tragedia, ai medici che in carcere si erano presi cura di Doaa e Bassem, all’équipe della nave che ha recuperato in mare Doaa e le bambine; tutto questo è sintomatico di un accurato lavoro, quasi scientifico, dietro la storia di Doaa. A supporto è bene precisare, laddove la Fleming non poteva essere presente ai colloqui, come questi siano stati svolti da un professionista coadiuvata da un traduttrice:
Se la metodologia utilizzata è quella biografica i risultati attesi non si limitano al semplice piano referenziale ma implicano alcuni risvolti psicologici che sono tipici del metodo autobiografico applicato in un contesto terapeutico. Doaa è chiaramente una persona che ha subìto un forte trauma, «Mi sento morta anch’io, sebbene sia viva», una persona che lottava contro i ricordi e la depressione:
L’autrice era pienamente conscia del fatto che affrontare i ricordi sarebbe stata una situazione dolorosa: «Rivelare una parte delle sua storia [...] era già stato un grosso passo per Doaa, ma mettere a nudo ogni dettaglio della sua vita per un libro era una prospettiva traumatizzante». Ma contrariamente alla prospettiva immaginata la realtà è stata altra: « [...] Eravamo le uniche persone con cui lei avesse parlato dell’accaduto con un simile dettaglio, e la cosa sembrava aiutarla». Questo perché la narrazione oltre ad essere una forma di comunicazione, dona significato all’esperienza, la narrazione tesse la trama che tiene uniti tutti gli episodi di una vita, dal momento che raccontare la propria storia a qualcuno ha una funzione catartica e terapeutica (cfr. Demetrio 1995). Narrare il proprio vissuto significa fare un’operazione di riconoscimento: «Narrarsi è disporsi alla comprensione della propria vita. Si tratta di ri-conoscersi, conoscere di nuovo ciò che si è conosciuto vivendo» (Jedlowski 2000:110).
L’applicazione del metodo autobiografico nel contesto educativo e di cura comporta una serie di esiti psicologici di natura positiva, Duccio Demetrio (1999) così li chiama: effetti di eterostima, di autosima e di esostima. Il primo, effetto di eterostima, posto a monte del processo educativo, avviene nel momento dell’incontro tra l’educatore-ascoltatore e il narratore. L’interesse che l’ascoltatore nutre per la storia, l’attenzione che egli dimostra, la disponibilità all’ascolto, il clima di serenità che tenta di offrire al narratore procurano un immediato senso di gratificazione che genera il senso di etorostima. Scrive Paolo Jedlowski « [...] Il primo oggetto del desiderio che anima il narratore è dunque quello di veder riconosciuta la propria esistenza da parte del destinatario del suo racconto» (2000:108). Chi ascolta prima ancora che negoziare il senso della narrazione assolve ad un preciso compito, rispetta una certa «dimensione morale» (2000:109) che è quella del riconoscere l’identità dell’ interlocutore, dove riconoscere significa attribuire dignità all’altro che ho innanzi.
Il secondo effetto è quello di autostima e si verifica nel momento in cui il narratore prende coscienza delle proprie potenzialità, capacità, e comprende il valore della propria storia. È in questa fase che l’educatore/ascoltatore lo guida alla riscoperta del proprio sé, della propria soggettività, vi è una riappropriazione della propria persona, che si traduce nell’utilizzo della prima persona durante la narrazione. L’effetto di esostima avviene infine al termine degli incontri, nel momento conclusivo del percorso, sancito dalla restituzione della storia e dal riconoscimento del narratore nella storia riproposta dall’educatore. In modo simile, seppur con le dovute cautele, dal momento in cui il romanzo non è autobiografico, probabilmente l’attenzione dimostrata alla soggettività di Doaa da parte dell’autrice e di quanti si sono occupati delle sue interviste, i plurimi incontri per le registrazione, la pazienza e l’interesse dimostrato hanno innescato un processo di risignificazione per la propria storia unitamente ad una riappropriazione della propria soggettività. La verità è che la narrazione ha dato il via ad un progettualità futura: Doaa vuole raccontare la sua storia, vuole studiare, diventare avvocato, Doaa sembra davvero trasformarsi e prendere possesso di quella rappresentazione, la «preghiera mandata da Dio» per testimoniare al mondo la sofferenza dei profughi.
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