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Nani sulle spalle dei Maestri
Posted By Comitato di Redazione On 1 settembre 2022 @ 00:53 In Cultura,Letture | No Comments
Quando, nel primo canto dell’Inferno, Dante, spaesato e terrorizzato, credendo di aver perso la bussola, incontra Virgilio e si accerta di avere di fronte il grande poeta Latino, dice Tu se’ lo mio maestro e ‘l mio autore. Il riferimento dantesco non sembri inappropriato nel presentare Eredità dissipate, il libro di Francesco Virga (Casa Editrice Diogene Multimedia, Bologna, 2022), che fa riferimento a tre grandi maestri del ‘900: Gramsci, Pasolini e Sciascia, autentici auctores, maestri, guide scomode nel labirinto della storia e delle idee.
Come mai allora, se i tre autori sono assimilabili, secondo il principio di auctoritas del canone medievale, a tre imprescindibili maestri Francesco Virga intitola il suo acuto, analitico e originale, saggio, Eredità dissipate? L’autore ce ne dà una interpretazione che potrebbe apparire pessimistica nella Avvertenza iniziale. Ma in un tempo come il nostro, in cui si parla sempre più spesso di fine della storia e dove la storia sembra davvero uscita dai suoi antichi cardini, sono tanti a pensare che non ci sia più posto per Gramsci, Pasolini e Sciascia.
E tuttavia fin dall’esergo del primo saggio, dedicato con grande attenzione e accuratezza agli scritti giovanili di Antonio Gramsci, emerge attraverso la citazione di un famoso passo tratto dai Quaderni quello spirito indomito dualistico che si innerva sul contrasto tra pessimismo e ottimismo che, pure in presenza del pessimismo della Ragione, non rinuncia a una lotta aperta titanica e intelligente. «Occorre creare uomini sobri, pazienti, che non disperino di fronte alle difficoltà e non si esaltino ad ogni sciocchezza. Pessimismo dell’intelligenza, ottimismo della volontà».
Un piccolo preliminare suggerimento metodologico. Non so se Virga, redigendo il suo saggio, abbia pensato a una famosa conferenza tenuta da Michel Foucault il 22 febbraio 1969 che diede poi origine a un famosissimo saggio, Che cos’è un autore? Tra le tante cose inserite in quel denso saggio il filosofo francese attribuiva alla funzione autore – non in tutti i casi ovviamente, ma nei grandi autori, nei grandi riferimenti, nei maestri, si potrebbe dire – una funzione di installatori di discorsività e, in questa categoria, inseriva Marx e Freud, oltreché Omero, Aristotele e i padri della Chiesa. Cioè autori a partire dai quali si sviluppa una riflessione, autori nei quali sono presenti dei segni, diremmo delle chiavi di lettura, per cui è possibile in contesti, campi e momenti storici diversi, ritornare alla loro auctoritas per apprendere nuove possibilità di discussione, di ermeneutica, di interazione tra epoche e contesti diversi.
In ogni caso il testo di Virga sembra muoversi su questa linea interpretativa quando propone questi tre modelli nella loro diversità – riconducibili comunque a un filo unitario che è quello di una visione autonoma eretica, conflittuale, dialettica della storia – in cui certamente, il primo dei tre, Gramsci, svolge una funzione importante per avere tracciato un solco, un campo di discorsività nuovo nella storia della cultura italiana e non solo italiana.
Gramsci
Intanto va osservato, come è stato ricordato da uno storico di valore, Eric Hobsbawm, citato da Virga, che il pensiero di Gramsci è sopravvissuto alla caduta del comunismo e che anzi fuori dall’Italia, e pure fuori dall’Europa, si assiste ad una diffusione sempre maggiore del pensiero dell’autore dei Quaderni, infatti fioriscono studi e saggi sul piccolo grande sardo.
Ma come orientarsi all’interno delle migliaia di pagine scritte da Gramsci? Con acribia filologica Franco Virga ripercorre fin dall’inizio, fin dagli scritti giovanili, l’elaborazione di un percorso e di un processo di formazione che appaiono assolutamente autonomi ed eretici rispetto all’idealismo o al neoidealismo imperante all’inizio del ‘900 con Croce e Gentile ma anche rispetto alla tradizione di Marx. Ne è testimonianza uno scritto del 1916, Socialismo e Cultura, in cui il giovane Gramsci elogia pienamente l’Illuminismo e considera le elaborazioni culturali dei philosophes non intellettualistiche, ma come la base su cui poi si è innervata la Rivoluzione francese, auspicando l’avvenire di una Rivoluzione socialista che possa ugualmente trovare un terreno comune a cultura e idee di progresso. Non siamo ancora alla formulazione di concetti come intellettuale organico e egemonia culturale ma il giovane Gramsci vede nella Rivoluzione francese un modello da seguire, in chiaro contrasto con l’idealismo e il neoidealismo, ma anche in netta antitesi con Marx:
Ma c’è di più: il giovane Gramsci legge la Rivoluzione bolscevica in un’ottica anti marxista e anzi reputa che il Capitale di Marx in Russia sia appannaggio della classe borghese ma non dei proletari. La Rivoluzione d’ottobre è La rivoluzione contro il Capitale come si intitola un famoso editoriale apparso su L’Avanti il 24 novembre 1917:
Un altro elemento centrale dell’opera giovanile, che poi diventerà una base della formazione anche del pensiero maturo, riguarda l’educazione: il proletariato si deve affrancare dagli intellettuali di professione non rimanendo emarginato all’interno di una cultura proletaria, ma seguendo gli stessi percorsi di formazione della classe dirigente, in maniera autonoma. D’altronde, mentre redige le pagine della rivista Ordine Nuovo, Gramsci pensa che anche i bolscevichi siano degli educatori. Diventato segretario del Partito comunista d’Italia, nel 1926, di fronte alle aspre lotte interne alla Partito comunista sovietico, Gramsci invia una lettera che ha un sapore profetico. Ma la lettera indirizzata come tramite a Togliatti che era il rappresentante italiano presso l’Internazionale comunista non verrà mai presentata a Mosca. Uno dei passi fondamentali di questa lettera con quasi profetica premonizione dichiara «Voi state distruggendo l’opera vostra».
Gramsci legge la storia in maniera dialettica, certamente non acconsentendo alla retorica borghese e nazionalista dell’Italia post unitaria: leggere ancora oggi a distanza anche più di cento anni alcune delle sue pagine che hanno un senso di freschezza, una intelligenza e un coinvolgimento empatico con il lettore, è cosa di straordinario interesse, uno dei tanti meriti di questo testo che ripercorre, dando la parola agli autori, gran parte del loro modo di pensare, autenticamente, senza forzature e ipotesi precostituite.
È dialettica e antiborghese la sua formazione in quanto comunista e lo è a maggior ragione in quanto meridionalista. Gramsci osserva che col processo unitario le discrepanze tra nord e sud hanno continuato ad esistere, anzi si sono incrementate, peggio ancora, è nata una ideologia che intende legittimare le differenze e in maniera discriminatoria e razzista accusare i meridionali di colpe che non sono loro. Virga analizza con attenzione – e ne traccia una mappatura interessante e fondamentale per chi voglia approfondire studi su questo argomento – il meridionalismo critico di Antonio Gramsci, mettendo insieme per esempio articoli apparsi su L’Ordine nuovo nel 1920 e saggi successivi.
D’altronde il Risorgimento, nella lettura gramsciana, è un fenomeno in cui la borghesia commerciale e industriale cittadina sopravanza il mondo rurale, che era soprattutto il mondo del sud, senza una partecipazione popolare o, escludendo o, peggio ancora reprimendo manu militari quelle eventuali rivoluzionarie svolte popolari. Un fatto di dominio borghese e reazionario che ha creato un’Italia borghese e reazionaria in cui l’industrializzazione del nord ha colonizzato il sud.
Pasolini
È Gramsci che svela a Pasolini la strada da seguire. «Le idee di Gramsci coincidevano con le mie; mi conquistarono immediatamente, e la sua fu un’influenza formativa fondamentale per me». Da Gramsci Pasolini apprende che la ricerca verso la verità non è riconducibile a un unico perimetro d’azione ma che bisogna costruire ponti, non demonizzare gli avversari ma dialogare e comprendere le loro ragioni. Da qui comincia un percorso, del laico Pasolini, ricco di attenzioni nei confronti del mondo cristiano. Per esempio il suo film, il Vangelo secondo Matteo, è un atto di riconoscimento di verità nei confronti di Giovanni XXIII:
Gramsciana è anche l’accusa che Pasolini formula agli intellettuali italiani di essere cortigiani e chiusi dentro il Palazzo, la felice immagine usata dallo scrittore friulano per indicare il luogo del potere, quello che una volta era la Corte. Della corruzione degli intellettuali della società italiana è chiaro segnale il linguaggio del potere, un linguaggio tecnologico e incomprensibile, frutto della nuova linea capitalistica imposta nel Paese.
Pasolini individuava nella tv il nuovo strumento di omologazione di massa, la nuova epifania di un potere apparentemente più bonario ma che creava una sorta di unitarismo indiscusso e indiscutibile che noi oggi definiremmo ‘politicamente corretto’, una nuova forma di fascismo, deteriorando irrevocabilmente l’identità e la coscienza dei cittadini e realizzando la cosiddetta mutazione antropologica, attraverso il ricorso anche ad un linguaggio apparentemente più vicino alla realtà ma proprio per questo portatore di nuovi rischi, di nuove forme di dogmatismo, di nuove forme di catechismo.
Attraverso il consumismo, la concezione fascista del potere capitalistico, a giudizio di Pasolini, ha mutato l’antropologia, il modo di essere, anche di vestirsi, degli Italiani e, in cambio di una maggiore libertà in termini di diritti (vedi per esempio il divorzio), ha guastato e corrotto, degradato moralmente l’intera nazione: tutti allineati lungo lo stesso modello e la stessa concezione della visione del mondo. Osservazioni queste che crearono non poche polemiche a sinistra perché in definitiva la riflessione di Pasolini postulava un circolo vizioso: il potere appariva inequivocabilmente fascista sia quando negava i diritti sia quando, dopo aspre lotte contro il conservatorismo, li concedeva o, per meglio dire, era costretto a cederli.
La conquista – altro che concessione – dei diritti a una massa di persone, il miglioramento sociale, il progresso economico, diciamolo pure la trasformazione di un proletariato privo di tutto in una classe piccolo borghese, proprietaria di case – anche di seconde case –, con la facoltà di effettuare le vacanze, non sono ovviamente la stessa cosa della privazione di tutti questi beni e di tutte queste risorse: non appare né corretto sotto il profilo metodologico né onesto sul piano intellettuale dire che tutto e il contrario di tutto sono la stessa cosa. C’è un rischio, questo sì grave di una pericolosa omologazione, pur di effettuare una critica a tutti i costi del potere, senza discernimento storico delle evoluzioni e delle situazioni: tanto più che quei miglioramenti avvennero grazie alle aspre lotte dei sindacati e dei partiti di massa di sinistra. E pertanto anche a sinistra Pasolini fu attaccato, a volte anche vergognosamente. Ma chiarisce giustamente Virga che, al di là del merito delle riflessioni del friulano, quello che va tenuto in considerazione è il carattere volutamente provocatorio antifrastico dialettico del suo pensiero. «L’originalità sta tutta nella radicalità della critica allo “sviluppo” e nella affermazione eretica – dal punto di vista marxista – secondo cui lo sviluppo economico e l’industrializzazione, di per sé, non sono portatrici di Progresso.
Chissà che non gli sia costata la vita questo famoso articolo, Il Processo, pubblicato il 24 agosto 1975 in cui Pasolini criticava la corruzione e il tradimento del regime democristiano:
La problematicità delle questioni poste da Pasolini viene molto ben evidenziata nel saggio di Virga col riferimento a un episodio meno noto sul quale viene focalizzata un’attenzione notevole. Una delle ultime cose effettuate da Pasolini fu la docenza in un corso di aggiornamento per insegnanti presso un liceo di Lecce, sulla questione della lingua, intitolato Volgar eloquio, con titolo dantesco appositamente scelto dallo scrittore. Pasolini non tenne nessuna relazione, volle sconvolgere l’uditorio dicendo di non essere in grado di insegnare nulla a nessuno, invitando a passare direttamente al dibattito. Pasolini non solo ribadì la sua fedeltà e lealtà ai problemi posti da Gramsci, per esempio sull’identità culturale, ma affermò un principio che ancora oggi è oggetto di discussione e cioè il problema della identità attraverso la lingua.
Un problema che gli intellettuali progressisti sfiorano con un certo imbarazzo perché parlare di identità attraverso la cultura della lingua sembra quasi un terreno favorevole alle riflessioni nazionaliste e di destra. E invece la difesa della identità della lingua materna che come scriveva Dante nel De vulgari eloquentia, il bambino apprende assieme al latte materno, è una difesa trasversale della propria identità, non è una rivendicazione nazionalista, è una rivendicazione di umanità, una mappa, un punto di riferimento che rimanda al senso laico e progressista del principio di auctoritas: senza una mappatura precisa non è possibile sviluppare una identità precisa e si è più vulnerabili.
Sciascia
Per leggere il maestro di Racalmuto, Virga si serve di questa chiave di lettura, un lapidario ma acuto giudizio critico:
D’altronde l’autore cita una preziosa, quanto rarissima, testimonianza in copia ciclostilata: si tratta degli atti di un convegno tenuto a Palma di Montechiaro nell’aprile del 1960. Un convegno nella città del Gattopardo a cui parteciparono tra gli altri Danilo Dolci e Leonardo Sciascia, che tra di loro non ebbero mai rapporti particolarmente amichevoli o significativi.
Virga in questo suo saggio mette insieme e tesse la sua rete, intrecciando fili di autori e opere che gli sono cari, da Gramsci a Pasolini a Sciascia, passando attraverso le interpretazioni e le correlazioni, in primo luogo, con Franco Fortini, Danilo Dolci e Giuseppe Fiori.
È di lunga data la frequentazione attenta dell’autore nei confronti dell’opera di Sciascia. E di questa acuta analisi è testimonianza la rivista Dialoghi Mediterranei sulla quale Virga ha più volte scritto proprio a proposito del maestro di Racalmuto. E risultano particolarmente interessanti le annotazioni che Virga pone sia a proposito della mafia – ovviamente un capitolo indispensabile di studio dal punto di vista storico e sociologico per chi voglia affrontare l’opera dell’autore de Il giorno della civetta – sia anche relativamente alle contaminazioni culturali e alla presenza di una Sicilia araba. Ecco due passi illuminanti in questo senso: il primo è tratto dal saggio La mafia, un saggio del 1957 inserito in Pirandello e la Sicilia, il secondo invece è un’intervista di Sciascia a Lotta continua del 1979:
Conclusioni
Lasciamo l’ultima parola all’autore.
Eredità dissipate dunque nella concezione pessimista che Francesco Virga evidenzia in questo suo saggio. E il verbo dissipare certamente ha a che vedere anche con lo scialacquare, lo sperperare. Dissipare, in senso attivo, rimanda ad un’altra accezione che speriamo questo bel saggio di Virga possa realizzare: dissipare le tenebre dell’ignoranza, per esempio, si dice quando si disperde cacciando qualcosa di pregiudizievolmente negativo. E non ci resta che leggere e ripartire da qui, dalle eredità dissipate, per evitare di dissipare il nostro patrimonio culturale.
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