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Mundus. Tra paesaggio, memoria e uomo

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Deserto Reza Abad, in Iran (ph. Ceccarini, Rezashateri)

di Gianluca Ceccarini, Nahid Rezashateri

L’uso di far dialogare all’interno dello stesso progetto immagini di repertorio, provenienti perlopiù dagli album personali di famiglia, con scatti originali, anche in stile reportage, è uno dei metodi sempre più spesso usati nella fotografia contemporanea. Il progetto Mundus che noi di Sarab Collective proponiamo in questo numero di Dialoghi Mediterranei è costruito proprio sul dialogo e l’interazione di diversi materiali, in particolare immagini di repertorio da album di famiglia, disegni infantili provenienti sempre da archivi famigliari e foto da noi scattate durante sopralluoghi sul campo.

Abbiamo scelto di intraprendere questa strada perché volevamo raccontare un fatto di cronaca, una problematica ambientale e sociale, da un punto di vista differente, raccontare cioè il rapporto tra paesaggio, memoria e uomo, concependo il paesaggio non come un mero fattore naturale ma come un complesso processo culturale.

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Cisterna abbandonata nel deserto, provincia di Esfahan, in Iran (ph. Ceccarini, Rezashateri)

Il paesaggio antropizzato quindi non come luogo fisico semplice contenitore, ma spazio in continua costruzione, sede di complesse relazioni interne ed esterne. Assumere il paesaggio come processo culturale significa pensarlo come luogo costruito, processo percettivo di rappresentazione, organizzazione e classificazione dello spazio; guardare allo spazio come una modalità per ordinare l’esperienza, contesto riepilogativo dei diversi poli delle relazioni sociali, tra aspettative, potenzialità e dinamiche sociali e culturali, in sintesi identitarie, di una determinata comunità (Libertini 2000). In questa prospettiva l’identità non più, in tutta evidenza, una proprietà sostantiva, quasi naturale, di un gruppo sociale, ma una sorta di “cantiere aperto” costantemente in costruzione (Dei 2004).

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Villaggi abbandonati in Iran (ph. Ceccarini, Rezashateri)

Un simile approccio metodologico si allontana da tutte quelle riflessioni artistico-filosofiche basate in prevalenza su un aspetto percettivo generico e astratto, che definiscono il paesaggio come una realtà esistente solo in quanto osservata dall’uomo con atteggiamento spirituale ed estetico. C.G. Carus definiva il paesaggio come un determinato stato d’animo; secondo J. Ritter il paesaggio è natura che si rivela esteticamente a chi la osserva e la contempla con sentimento. Per G. Simmel il paesaggio si forma in seguito ad un atto di delimitazione ai nostri occhi della natura, un approccio spirituale, una disposizione dello spirito.

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Deserto Reza Abad, in Iran (ph. Ceccarini, Rezashateri)

Nella stessa definizione data dalla Convenzione europea sul paesaggio del 2000 si rintracciano ancora delle ambiguità nel riferimento astratto e generico dell’aspetto percettivo, favorendo ancora una volta rischi «di derive estetiche e psicologiche e di occultamento dei contesti multiformi e delle reti complesse che sottendono scelte, pratiche e rappresentazioni relative alla località da parte di coloro che la costruiscono e la abitano» (Papa 2006:186).

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Interno ed esterno, Iran (ph. Ceccarini,Rezashateri)

Il paesaggio osservato nella sua dimensione antropica – lo spazio concepito non come puro contenitore ma insieme di fattori economici, politici, sociali, emotivi e religiosi – in una parola culturali – che in un determinato ambiente si relazionano – diventa dunque un codice di lettura e di scrittura grazie al quale conoscere una determinata comunità. Il landscape non risulta costituito «da spazi in bianco nei quali gli esseri umani impongono un ordine culturale. Al contrario, questi sono una sinergia di attività e percezioni» (Libertini 2000: 304).

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Antichi pozzi sulla strada per il deserto Mesr, in Iran (ph. Ceccarini, Rezashateri)

Il paesaggio come prodotto di un complesso processo culturale è alla base delle prospettive con cui F. Lai affronta il suo lavoro sull’Antropologia del paesaggio, un’interpretazione del territorio che tiene conto dell’insieme dei fattori simbolici, culturali, economici e politici. Il legame comunità-paesaggio è rapporto esistenziale, il quale mette in gioco fattori emotivi ed affettivi: lo sradicamento da esso comporta spesso un malessere, un “male del ritorno”, un’assenza di luogo che De Martino ha indicato come “angoscia territoriale”. Il male del ritorno colpisce gli individui costretti a lasciare il proprio luogo di nascita, il villaggio, il proprio spazio del vissuto, vivendo così «l’esperienza di una presenza che non si mantiene davanti al mondo, davanti alla storia…» (De Martino 1952: 60).

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Pneumatici abbandonati sulla Via della Seta, in Iran (ph. Ceccarini, Rezashateri)

Nel lavoro fotografico che presentiamo si parla anche di sradicamento, di abbandoni, di perdita di contatto col proprio spazio e quindi crisi della propria memoria.

Nel 2015 l’Iran ha dato il via ai lavori per una delle più imponenti opere idriche del Medio Oriente: un tunnel per deviare l’acqua del Golfo dell’Oman verso le regioni desertiche del Paese per tentare di arginare il problema della siccità. Negli ultimi decenni a causa della desertificazione più di otto mila villaggi sono stati abbandonati dagli agricoltori, mentre altri sopravvivono faticosamente trasformandosi in Nonluoghi destinati all’accoglienza di sporadici turisti e visitatori. Nei prossimi anni, intere regioni del Paese potrebbero trasformarsi in aree quasi completamente inabitabili. Laghi e fiumi stanno morendo e le falde acquifere si stanno esaurendo per via dell’aumento della popolazione e dei bisogni crescenti del settore agricolo. A farne le spese è anche e soprattutto la redditizia industria del pistacchio, “l’oro verde” persiano.

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Sulla strada verso il deserto Mers, in Iran (ph. Ceccarini, Rezashateri)

L’altopiano iraniano, circondato da due enormi catene montuose e soggetto ad un duro clima semi-arido, è coltivato e abitato proprio grazie all’acqua che ogni primavera scende dalle sue montagne allo sciogliersi delle nevi riempiendo cosi le falde e i qanat sotterranei, gli ingegnosi sistemi idrici tradizionali che da millenni permettono di trasportare e immagazzinare acqua nelle zone aride. Adesso le poche piogge non bastano a rigenerare le falde e il Paese sta consumando ormai buona parte delle sue riserve. Sprechi, tecniche di irrigazione datate, inquinamento e surriscaldamento globale del clima concorrono drammaticamente al fenomeno della desertificazione.

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Resti di progetti turistici vicino ad un villaggio abbandonato, in Iran (ph. Ceccarini, Rezashateri)

In estate nell’Iran sudorientale le temperature superano anche i 43 gradi in assenza completa di pioggia. Nel giugno del 2017, Ahvaz, nei pressi del Golfo Persico, ha fatto registrare una delle temperature più alte di sempre: 53,7 gradi Celsius. A maggio si alza ciclicamente il Lavar, un vento caldo, conosciuto come il vento dei 120 giorni, che spazza le pianure semiaride e ricopre l’intero territorio di sabbia, mentre si stanno estinguendo animali come cervi e leopardi.

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Sulla Via della Seta (ph. Ceccarini, Rezashateri)

I laghi Urmia e Bakhtegan sono in buona parte scomparsi e a Isfahan il celebre ponte di Khaju risulta per buona parte dell’anno sospeso nel vuoto per la mancanza di acqua sul letto del fiume Zayandeh.

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Bambini iraniani in un’immagine di repertorio

Il progetto Mundus vuole raccontare tutto questo puntando l’attenzione sul cambiamento vertiginoso del territorio e della sua percezione. Foto di archivio famigliari e disegni infantili raccontano la memoria e la percezione di un paesaggio vissuto e vivo – un lessico famigliare privato in cui il paesaggio si configura come sfondo antropologico e affettivo – in contrasto e dialogo con immagini recenti che testimoniano la desertificazione in atto e un profondo cambiamento che non riguarda solo semplicemente il paesaggio con i suoi fattori climatici e fisici, ma anche e soprattutto la nostra percezione di esso che si fa sempre più distopica.

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La bocca di un antico Quanat in disuso, a Sharood, in Iran (ph. Ceccarini, Rezashateri)

Se il paesaggio, come ci ricordano le scienze sociali, è sempre un luogo antropologico, un contenitore significativo di relazioni, memorie, storia e identità, di fronte ad emergenze ecologiche e a mutamenti così drammatici quella che si vive è prima di tutto un’Apocalisse culturale, la fine di un mondo, la crisi di una presenza che non trova più soluzione e salvezza in nessun meccanismo destorificante simbolico-rituale. Il deserto inabitabile avanza e il vento spazza via i ricordi e le tracce di un mondo che è stato.

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Nei pressi di una fonte nel deserto della provincia diEsfahan, in Iran (ph. Ceccarini, Rezashateri)

«Sulle sabbie del deserto come sulle acque degli oceani non è possibile soggiornare, mettere radici, abitare, vivere stabilmente. Nel deserto come nell’oceano bisogna continuamente muoversi, e così lasciare che il vento, il vero padrone di queste immensità, cancelli ogni traccia del nostro passaggio, renda di nuovo le distese d’acqua o di sabbia, vergini e inviolate» (Alberto Moravia).

 Dialoghi Mediterranei, n. 42, marzo 2020
Riferimenti bibliografici
Clemente P., Mugnaini F., 2001 (a cura di), Oltre il folklore. Tradizioni popolari e antropologia nella società contemporanea, Carocci, Roma.
De Martino E., 1952, “Angoscia territoriale e riscatto culturale nel mito achilpa delle origini”, in SMSR, XXIII, Roma.
Dei F., 2004, Tavola rotonda su Patrie elettive. I segni dell’appartenenza, in I riti del fuoco e dell’acqua, Edup, Roma.
Gallini C., 2002 (a cura di), La fine del mondo – contributo all’analisi delle apocalissi culturali, Einaudi, Torino.
Gallini C., 2003 (a cura di), Patrie elettive. I segni dell’appartenenza, Bollati Boringheri, Torino.
Ingold T., 2001, Ecologia della cultura, Meltemi, Roma.
Lai F., 2000, Antropologia del paesaggio, Carocci, Roma.
Libertini L., 2000, “La nozione di paesaggio (landscape) in arte e in antropologia”, in Lares, n.66.
Papa C., 2006, “Popolazioni e paesaggio nella Convenzione europea sul paesaggio. Osservazioni a margine”, in I riti dell’acqua e della terra, Sette Città, Viterbo.

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Gianluca Ceccarini, laureato in Antropologia presso l’Università la Sapienza di Roma con una tesi sulle dinamiche di identità territoriale dei culti micaelici nei santuari ipogei, nel 2001 è stato socio fondatore dell’ARSDEA Associazione Ricerche e Studi Demo-Etno-Antropologici, tramite la quale svolge diverse attività: ricerche sul territorio, allestimenti museografici, partecipazione e organizzazione di convegni, pubblicazione di articoli. Si occupa di ricerca demo-etno-antropologica, con un particolare interesse rispetto alle tematiche dell’Antropologia del Paesaggio, del Corpo e dell’Etnomusicologia, privilegiando l’uso della fotografia. Con Nahid Rezashateri, fotografa-moviemaker iraniana, nel 2018 ha fondato il collettivo SARAB che si occupa di progetti fotografici, antropologia visuale, cortometraggi e Media Art, con particolare attenzione ai temi dell’identità, della memoria e del paesaggio come processo culturale.
Nahid Rezashateri, ha studiato alla Scuola d’Arte e poi Graphic Design presso l’Università in Iran, dove ha sperimentato le tecniche di ripresa e stampa fotografica analogica. Ha svolto uno stage presso l’Associazione Culturale Kadre Sefid e progettato libri per bambini. Ha lavorato in un giornale iraniano e in una rivista pubblicitaria come graphic designer. È stata direttore di un collettivo artistico dello Sharood Cultural Office attivo nella progettazione di cortometraggi e animazioni: da questa esperienza sono nate le due animazioni “Tanham” e “Adamha va Kalaghka”. Ha partecipato a due mostre collettive con sue opere composte da varie tecniche e materiali come tessuto, pittura, ceramica, grafica. A Theran si è specializzata e ha lavorato nel campo del trucco teatrale e cinematografico. Nel 2012 si è trasferita in Italia dove studia Media Art all’Accademia di Belle Arti e segue corsi di fotografia ed editoria. Con Gianluca Ceccarini nel 2018 ha fondato il collettivo SARAB. Suoi progetti fotografici sono stati pubblicati su riviste nazionali e internazionali di fotografia.

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