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Mondi (In)significanti. Sulla produzione e sul controllo di soggettività nelle pratiche istituzionali

Posted By Comitato di Redazione On 1 marzo 2019 @ 01:47 In Cultura,Migrazioni | No Comments

copertinadi Filomena Cillo

Il contributo che segue riprende la prima parte di una formazione per operatori dell’accoglienza della città di Bologna impegnati soprattutto in strutture con donne [1]. Lo scopo era fornire strumenti di riflessione su che tipo di soggettività vengono prodotte all’interno del sistema di accoglienza e analizzare le pratiche quotidiane (raccolta delle memorie, rispetto del mandato professionale) come prassi incorporate e per questo spesso inconsapevoli, di controllo sull’altro. La riflessione parte considerando la cornice entro la quale operatori e ospiti si muovono: l’istituzione. Che cos’è l’istituzione?

«L’istituzione è una convenzione che sorge quando tutti i membri hanno un interesse comune all’esistenza di una regola che assicuri la coordinazione, nessuno ha interessi contrari e nessuno devia dalla regola a meno che non cessi la coordinazione desiderata» ( Lewis, 1968) [2].

Con questa definizione Lewis stabilisce, nel 1968, un nesso diretto tra interesse della comunità, intesa come entità omogenea, e le regole, ma nulla dice su come far rispettare in concreto la convenzione. Riprendendo il suo pensiero, Mary Douglas nel suo libro, Come pensano le istituzioni [3], fa un passo indietro nella catena causa-effetto e distingue tra convenzione ed istituzione. Una convenzione, scrive,

«è istituzionalizzata quando, sebbene la prima risposta possa essere formulata per convenienza, la risposta finale alla domanda – perché fate in questo modo – fa riferimento alla posizione dei pianeti nel cielo o al modo in cui le piante, gli animali o gli esseri umani si comportano naturalmente […] Perché una convenzione si trasformi in un’istituzione sociale legittima è necessaria una parallela convenzione cognitiva che la sostenga» (Douglas,1990) [4].

Non basta l’adozione concreta della regola, il fatto che essa venga ripetuta, ma, affinché si radichi nelle menti, occorre un principio stabilizzante che renda la convenzione assolutamente valida e le permetta di essere riconosciuta indipendentemente dall’interesse egoistico per la sua esistenza. Ciò di cui ogni istituzione ha bisogno è una formula che fondi la sua validità, in ultima istanza, sulla natura e sulla ragione: è qui che si cela la fonte di ogni legittimità. Si comprende facilmente quanto la validità di questa legittimità possa essere sostenibile in un contesto di omogeneità, ma cosa accade quando l’istituzione deve confrontarsi con realtà che hanno altri princìpi di legittimità e che chiedono di entrare, di essere accolti dall’istituzione stessa? È questa la situazione che fa da sfondo al sistema di accoglienza.

La realtà dell’altro impone un intervento di problematizzazione delle categorie cognitive naturalizzate internamente. In questa terra di confine lo sguardo sull’istituzione deve esplorare le pratiche di relazione e vita con l’alterità e cosa questo comporti sia su chi viene accolto ma anche su chi accoglie. Gli operatori, quel “noi” troppo spesso lasciato in ombra nello sforzo di traduzione-assimilazione di un “loro” che rimane insondabile, sono il punto di partenza per costruire un mutamento di prospettiva che non si chiede cosa perde di senso nell’altro secondo le categorie che ci sono familiari ma cosa, nella nostra visione del mondo, in quelle convenzioni cognitive che abbiamo incorporato e che traduciamo in pratiche istituzionali, produce non senso nella lettura dell’altro.

1Giungiamo al cuore della nostra analisi: narrazioni, storie e riconoscimento legale sono momenti in cui l’istituzione si concretizza. Il fulcro di un eventuale riconoscimento/disconoscimento è la ricerca di una storia verosimile. Ma cos’altro produce questa indagine sia nelle richiedenti asilo che negli operatori dell’accoglienza? Quali processi di soggettivazione si attivano negli attori coinvolti e quali conflitti essi generano?

La cornice discorsiva entro la quale ci muoveremo è quella di parlare di noi stessi in relazione ai migranti, considerando che la migrazione – così come suggerito da Sayad – ha una funzione specchio che rivela la natura della società di destinazione, riportando ad una dimensione fondativa in cui si esplicita ciò che vale dentro una società e cosa chi, venendo da fuori, deve fare/essere, per entrarci. Alcune premesse sono necessarie:

a) per produzione della soggettività non intendiamo la rivelazione di una interiorità che reagisce secondo logiche proprie agli stimoli esterni ma il prodotto di un potere che crea un dispositivo;

b) il sistema di accoglienza può essere inteso come un dispositivo che produce specifiche soggettività ;

c) non esistono dispositivi universalmente validi poiché essi circolano e anche i gruppi umani, pertanto vanno esplorati gli effetti che essi hanno sulle persone.

La letteratura classica, nella tragedia Le Supplici di Eschilo [5], propone un esempio ancora tristemente attuale che permette di esplicitare sia alcuni modelli di pensiero soggiacenti alle prassi legali, che la specificità del femminile. La tragedia prende avvio quando le Danaidi, appena sbarcate in terra greca, vengono esortate dal padre Danao a raggiungere il recinto sacro, dove i supplici hanno, per antica consuetudine, un diritto di asilo inviolabile. Il re greco ascolta le donne ma è restio ad accoglierle subito: il suo timore è rivolto non tanto al pensiero di una guerra con il re Egitto (ad una dimensione geopolitica), quanto ad un conflitto tra i suoi cittadini. Si chiede cosa potrebbe accadere nella città se le lasciasse entrare? Sarebbe ancora possibile una vita ordinata nella Polis?

Le interrogazioni per la richiesta d’asilo, celano lo stesso cogente timore legato agli eventuali problemi che l’ingresso dei migranti nei confini statali può creare con i cittadini. Essere cittadino è lo spartiacque tra chi supplica e chi riceve la supplica. In questa definizione si gioca la vera questione tra migranti e accoglienti, cioè definire in che rapporto sono le reciproche umanità. Come scrive Dal Lago, si cerca di capire se siano persone intendendo con questo termine «l’insieme degli attributi necessari a fare di un essere umano un uomo tra gli uomini» (Dal Lago, 2004)[6].  Loro, i migranti, vivono in un limbo poiché

«sono vivi, conducono un’esistenza più o meno analoga a quella dei nazionali, ma sono passibili di uscire, contro la loro volontà, dalla condizione di persone. Continueranno a vivere anche dopo, ma non esisteranno più, non solo per la società in cui vivono come “irregolari” o “clandestini”, ma anche per loro stessi, poiché la loro esistenza di fatto finirà e ne inizierà un’altra che comunque non dipenderà dalla loro scelta» [7].
Moni-Ovadia-al-Teatro-Greco-per-la-stagione-Inda

Le Supplici di Moni Ovadia al Teatro Greco per la stagione Inda di Siracusa

Sono le norme relative alla cittadinanza, quindi, che fanno di qualcuno una persona e non viceversa. Solo la legge permette ad un essere umano di essere persona. La tautologia cittadino = persona è emersa esplicitamente dopo il secondo conflitto mondiale quando «un numero sempre maggiore di persone privati dei diritti umani garantiti dalla cittadinanza, si sono ritrovati ad essere la schiuma della terra» (Arendt 1951) [8]. Da una parte c’erano gli apolidi, che non avevano più un governo che li rappresentasse, inizialmente avevano bisogno di accordi internazionali eccezionali per vedere garantiti i loro diritti, poi finirono per diventare delle displaced person. In questa etichetta linguistica trapelava quanto fossero i reietti della terra, poiché sebbene l’intento fosse quello di rimpatriarli, i Paesi d’origine non li volevano e, in questo ping-pong tra Stati, l’unico surrogato di territorio in cui vennero identificati furono i campi di internamento dove furono progressivamente confinati. La loro liminarità si palesò con l’approvazione di leggi che condussero alla snaturalizzazione di massa, facendo svanire la possibilità di una vita normale e creando masse anonime di uomini che nessuno voleva.

«Così i nazisti hanno iniziato a sbarazzarsi degli ebrei: come prima cosa li hanno privati di ogni status giuridico, della cittadinanza, poi li hanno isolati dal mondo dei vivi ammassandoli nei ghetti. Prima di azionare le camere a gas li hanno offerti al mondo constatando con soddisfazione che nessuno li voleva. In altre parole è stata creata una condizione di completa assenza di diritti prima di calpestare il diritto alla vita» [9].

3L’eco di questi eventi diventa tanto più temibile se si esplorano le somiglianti pratiche statali contemporanee agite ai danni di un gruppo di persone che diventano gli indesiderabili.  Indagare il contesto dell’accoglienza ci riporta ai principi fondanti di un processo antropopoietico che crea un tipo specifico di umanità, il cittadino, e di una serie di pratiche culturali che definiscono chi e come può diventarlo. Quali sono i criteri d’ingresso e dove si esplicitano? L’interrogazione è la pratica istituzionale che avvia l’antropopoiesi del tipo di umanità legittimata ad entrare; tutto il sistema di accoglienza si definisce, sotto vari aspetti e in diversi momenti, come culturalmente costruito sulla parola.

In Occidente, il potere e la tradizione legata all’esercizio della parola affondano le loro radici più autorevoli nell’epoca classica. Nello specifico, l’interrogazione, la raccolta della storia rimanda, come nella tragedia di Eschilo, all’istituto della parrèsia, il parlar franco. Questo tipo di interlocuzione poggia su alcuni presupposti che assicurano la produzione di una narrazione vera, poiché a) chi parla dice ciò che ritiene essere vero; b) quello che dice non solo è vero per se stessi ma anche vero in sé, poiché chi parla ha determinate caratteristiche morali per cui ciò che dice è uguale a ciò che professa (Bios= Logos); c) chi parla lo fa rischiando di perdere la sua posizione perché il suo interlocutore è più potente, ma decide di farlo perché sente di dover parlare prima di tutto per un obbligo verso sé stesso e poi perché sa che parlando, qualunque siano le conseguenze, lui stesso starà meglio. Se pensiamo all’interrogazione con i migranti, è chiaro come alcuni elementi strutturali non sono riscontrabili. L’altro è un estraneo di cui non si può garantire la coincidenza tra Bios e Logos poiché al suo altrove geografico corrispondono sistemi culturali e relative convenzioni cognitive differenti; secondariamente, esiste nell’interlocuzione, un forte interesse dell’altro ad essere accolto. In questa incertezza opera il dispositivo di costruzione della soggettività che si realizza nell’intervento sulla narrazione e nella scelta di ciò che deve essere narrato e del come.

4Chi narra?

La richiedente asilo non è mai sola nel narrare la sua storia. Nella raccolta delle memorie è aiutata da un operatore, per rafforzarne la veridicità, spesso intervengono dei saperi specialistici con relative perizie. In caso di diniego, gli avvocati riesaminano la veridicità della storia, altre perizie possono avvalorare il rischio di un rimpatrio, legato a differenti sfere dell’individuo quali salute mentale, orientamenti sessuali, persecuzioni politiche. Quotidianamente gli operatori di struttura sono chiamati ad essere testimoni di una corrispondenza tra l’umanità richiedente della migrante e la necessità di tenerla entro confini sicuri, addirittura possono contribuire attivamente e ufficialmente, su richiesta della commissione, con una relazione educativa. La narrazione prodotta non è mai la sola narrazione della richiedente ma è costellata strutturalmente da un’eteronomia che, passaggio dopo passaggio, viridazione dopo viridazione, costruisce la soggettività che verrà valutata. Tutto questo processo può essere inteso nel senso focaultiano di una aleturgia, cioè come l’insieme di tecniche e procedure con cui si porta alla luce ciò che deve essere inteso come vero in opposizione al falso. Siamo chiaramente nell’esercizio di un potere e non nell’ideale perseguimento della verità.

Partendo dal presupposto che ognuno può sentirsi legittimato dal proprio ethos, il conflitto si genera se gli interlocutori non riconoscono i rispettivi codici e se si considera una relazione non paritaria. La richiedente agisce secondo un vincolo di trasformazione identitaria cercando di avvicinarsi (in questo aiutata dai molteplici attori) al decisore, al suo sistema di valori, in modo che la sua domanda possa essere accettata. Questa trasformazione permette a chi riceve la domanda di accettare la verità del suo interlocutore senza tradire se stesso. Cosa accadrebbe se il migrante non operasse questo lavoro di traduzione narrativa e si presentasse come estraneo o se decidesse di non raccontare?

Recentemente, un’associazione con cui collaboro da anni, ha ricevuto l’invio di S. [10] un ragazzo che viveva una forte condizione di sofferenza legata alla presentazione di alcune integrazioni nella sua memoria. Insieme ad una psicologa, abbiamo effettuato dei colloqui. L’invio, fatto da un’altra associazione fuori dal circuito dell’accoglienza, voleva cercare di dare un ascolto diverso alle angosce che, il rimaneggiamento della storia a fini istituzionali, aveva alimentato nel ragazzo. La richiesta nasceva dopo che S. aveva rifiutato l’assistenza legale dell’ente gestore dell’accoglienza e, nel suo percorso di inserimento, aveva invece incontrato un’altra associazione, e una persona in particolare, a cui aveva deciso di raccontare anche un’altra parte della sua storia. Era stato un combattente di un gruppo di ribelli durante la guerra civile nel suo Paese. Non aveva raccontato nella raccolta delle memorie, questo suo ruolo perché, come ci ha detto «avevo visto che la mia memoria la conoscevano tutti in struttura e non mi trattavano per come ero con loro ma per la mia storia. Quindi ho deciso che non avrei raccontato di quando ho combattuto, perché ho fatto certe cose e non voglio che le persone mi guardino per le cose che ho fatto e come le ho fatte»[11]. Nei nostri incontri S. decide di raccontare questa parte indipendentemente dall’ottenimento del documento, perché – come ci dice – gli premeva sulla testa riportandolo indietro ogni giorno. È stato esplicitato il posizionamento dello spazio terapeutico come esterno ed indipendente dal percorso legale finalizzato all’ottenimento dello status. Così ha raccontato ciò che desiderava. Nei colloqui abbiamo accolto la sua storia, contenutisticamente identica alla memoria completa, come un dono di fiducia al quale ci siamo sentite sottoposte prima di poter conoscere S.

5Abbiamo discusso di questo invio nel gruppo clinico dell’associazione [12] e questo ha aiutato a mettere in luce quanto, la soggettività di richiedente asilo, in cui lui non era perfettamente inquadrato a causa della sua storia legale incompleta, si proiettasse anche su di noi. Ci siamo, ad esempio, chieste se c’era un qualche obbligo ufficioso per cui avremmo dovuto riferire che S. si era rivolto a noi alla struttura di accoglienza. No, abbiamo risposto dopo una discussione che era stata fuorviata dalla condizione politica e territoriale del ragazzo. Solo la domanda fondativa del nostro rapporto con S. – chi vuole la relazione? – ci ha aiutato a riposizionare lo sguardo sulla persona e non sul richiedente asilo. Questo per dire quanto, anche il lavoro terapeutico di un’associazione che è fuori dal circuito di accoglienza, risenta delle soggettività prodotte dall’istituzione.

Sul piano istituzionale il silenzio di S., la sua volontà esplicita di non dire, hanno reso la narrazione illegittima perché prodotta secondo norme che non appartengono al registro di chi ascolta. La storia di S. insieme a quella di tanti altri, ci dice che il migrante partecipa di una finzione sociale, la sua vita è presentata in maniera adeguata per l’interlocutore, affinché egli possa riconoscerla come propria. La veridicità della storia del richiedente è formulata secondo i codici dell’altro, suffragata da prove tecniche prodotte sempre dall’altro per attestare la verità del richiedente. Diversamente dalla concezione classica, non c’è l’idea che la verità, qualunque essa sia, porti ad un miglioramento ma, semmai il racconto è il punto di partenza per la possibilità di un giudizio altrui e l’inizio di un percorso educativo in cui l’altro, ricevuto il permesso di entrare, continua ad essere controllato. S., per continuare a costruire una vita in cui non è più un ribelle, dovrà rimaneggiare la sua storia, adattandola ai codici di chi dovrà concedere la permanenza o meno in Italia.

Un gioco perverso si crea nel circuito della parola. Il migrante da un lato deve presentare una storia personale rispetto alla quale risulta incompetente tanto da necessitare l’aiuto di altre figure; dall’altra, indipendentemente dalle specificità biografiche, questa storia lo inserisce in una categoria, quella di richiedente asilo, che non considera le peculiarità della persona (fondamentali nella produzione della storia credibile, es. etnia, relazioni familiari, orientamento sessuale, posizionamento politico). Tuttavia il gioco perverso risiede nel rapporto tra storia, status e incarnazione dello status. Per ottenere lo status la storia deve essere credibile (ricca di particolari, anche intimi), lo status è assai generico nella sua definizione (tradisce l’intimità e la specificità del racconto), ma il migrante vede la sua soggettività vincolata da quanto raccontato. In altre parole il suo Bios, il comportamento, ciò che attiene alla vita incarnata, deve coincidere con il suo Logos, discorso costruito nelle memorie. Quindi il richiedente sarà assoggettato dal “proprio” discorso che in concreto si definisce come una produzione di sé secondo i canoni accettabili per la società ospitante. La storia, che permetterà un’eventuale accoglienza, insieme alle storie riviste, rimaneggiate, ripresentate, è l’esito di un processo di soggettivazione eteronoma che si istalla su un soggetto che appartiene ad altri dispositivi culturali e di soggettivazione. Questo deve far riflettere sul fatto che l’ottenimento dello status di richiedente asilo, quotidianamente sarà un’ennesima stratificazione e sovrapposizione di piani di soggettivazione eteromoni ed eterogenei che identificano la persona. In queste pratiche narrative e di validazione si ricuce la ferita originaria di chi accoglie: quindi chi protegge e preserva il dispositivo?

Il rimaneggiamento della storia è un meccanismo di controllo sul sospetto che l’altro possa ingannarci, un modo per costringere il suo Bios e il suo Logos a coincidere. Un escamotage che nasce anche dal fatto, intimo, di sapere che l’altro potrebbe usare delle astuzie accedendo alla proliferazione di dati che proprio la società che accoglie produce. La possibilità di costruire una storia verosimile (per chi l’ascolta e la valida) è a portata di mano solo consultando gli archivi dell’UNHCR. Al di là della possibilità reale che questo raggiro avvenga, il clima sospettoso è indicativo del fatto che anche chi raccoglie la storia entra inevitabilmente nel circuito del vero o falso, per cui si cercano nuove garanzie, nuovi punti fermi che assicurino di non cadere nell’imbroglio.

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Foto di Kevin Carter

Mancando la garanzia del narrante, e delle fonti, l’ultimo anello di controllo risiede nella scelta di cosa e come narrare. A tutte le storie viene richiesto di essere il più fedele possibile all’esperienza vissuta. Il corpo e i suoi segni prendono la parola in maniera significativa. Nel caso specifico delle donne, la richiesta di raccontare e descrivere le atrocità subìte (eventualmente validate da perizia di professionisti) – come scrive Fabio Dei – non ha lo scopo di «mostrare la violenza nella genericità delle sue ragioni politiche ma negli effetti sui corpi e sulle soggettività degli attori sociali» (Dei, 2005) [13]. Per questo entrano nella narrazione sezioni su atrocità e tormenti subìti che diventano sigillo, se supportati dall’evidenza corporea, di credibilità. La violenza viene esibita, certificata, scava nell’intimità delle torture indicibili, alla ricerca di una continua conferma di verità di qualcosa di assolutamente estraneo all’occhio di chi guarda.

La domanda rispetto a queste prassi è cos’altro produce in chi le applica e in chi le subìsce? In altre parole, se sono le norme relative alla cittadinanza, che fanno di qualcuno una persona cioè un uomo tra gli uomini, allora cosa produce la narrazione della violenza nella relazione tra chi accoglie e chi chiede accoglienza?

Riprendendo ancora la tragedia greca, il re, appena vede le Supplici, pensa dal loro aspetto (indossavano esotiche fasce) che fossero delle straniere ma non lo frena questo quanto il dubbio di compromettere l’ordine interno della Polis e la consapevolezza che il potere del suo regno risiede nella gente pelasga. Il suo sguardo è sempre volto allo sguardo del cittadino, alla rappresentazione, potremmo dire, che chi viene da fuori chiedendo di entrare può proiettare sugli autoctoni.

In questo senso il discorso violento è una lente, ereditata dal colonialismo attraverso cui si guarda l’altro. Per esigenze di sintesi possiamo qui dire che una serie di attributi deficitarî vengono proiettati nelle rappresentazioni del migrante: quasi sempre povero perché proveniente da un Paese meno progredito, tribale nel senso di primitivo, primordiale in opposizione al pregiudizio di raziocinio occidentale. Queste rappresentazioni permeano il senso comune, costituendo quelle che Dal Lago chiama le retoriche ragionevoli, definendole tali perché sono la fonte delle maggiori difficoltà ed equivoci. Una delle argomentazioni è il passaggio da una non oggettivamente dimostrabile inferiorità biologica ad una evidente e impraticabile diversità (spesso sinonimo di inferiorità) culturale. Come dire, sono un po’ meno umani. Tutte queste costellazioni pregiudizievoli impediscono una reale relazione paritaria. Questa retorica interiorizzata permea il senso comune della società che dovrebbe accogliere e, inevitabilmente, si proietta anche all’interno dei servizi. Lo sguardo verso l’altro è settato per riconoscere un solo tipo di rappresentazione coerente che soddisfi una relazione di minorità [14] con il soggetto osservato e permetta di proporsi come salvatore.

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Josefa al momento del salvataggio

Un esempio concreto di questa distorsione percettiva si ha confrontando due immagini: la foto premio Pulizer del 93 di Kevin Carter), e il salvataggio di Josefa, superstite di uno dei tanti naufragi che avvengono nel Mediterraneo.  La prima scuote le coscienze ma soddisfa anche la coerenza narrativa: è atroce, insopportabile, vera. La seconda ci propone uno sguardo vuoto, assente sembrerebbe vera, ma poi il dubbio: e se fosse falso?  La ricerca spasmodica di un fake, poi, ecco, lo smalto. Allora tutto perde di evidenza: la testimonianza dei soccorritori, lo sguardo di Josefa, il fatto reale di essere sopravvissuta in mare perché lo smalto ci rimanda ad una quotidianità, ad una cura della persona che stride con tutto il resto. Indipendentemente dal fatto che si trattasse di un fake, la risonanza e lo sdegno che questa menzogna mediatica hanno suscitato deve far riflettere sul fatto che essa è stata credibile perché esistono le condizioni storico-politiche e culturali che lo hanno reso possibile.

Scrive Dal Lago che lo straniero come categoria è preventivamente screditata e stigmatizzata dalla Doxa (cioè la mitologia sociale, dal senso comune) e a favorire questo c’è la possibilità legittimata del potere, di effettuare indagini, schedature, censimenti; pratiche di una politica del sospetto usate solo in regime di eccezionalità vengono applicate quotidianamente per un gruppo di persone. L’immigrazione, quindi, diventa un problema non solo economico, sociale, politico ma anche cognitivo, in cui l’altro deve essere pensato come intimamente diverso da noi, o meglio, dobbiamo essere certi di non poter mai e poi mai trovarci ad essere l’altro.

In questo risuonano le parole di Appadurai in merito alla violenza etnica globale. Le guerre moderne – sostiene lo studioso – hanno la particolarità di essere conflitti che disintegrano i rapporti quotidiani: il vicino diventa nemico, proprio quello che era parte del tuo vivere potrebbe essere la tua minaccia. Di qui l’accanimento, la violenza è il mezzo per cercare, nella persona con cui si è condiviso tanto, il segno della sua profonda diversità ed estraneità con me; è lo strumento per estrarre certezza da una situazione angosciosa di incertezza, per dare forzatamente ordine ad una realtà in cui l’anomalia è diventata la regola. La violenza fisica crea certezza nel torturatore, gli assicura che sarà carnefice e mai potrà essere una vittima. Allo stesso modo il discorso solo violento, la richiesta di parlare di ciò che è imponderabile, lo stupro, la violenza, la distruzione del mondo; la costruzione e viridazione di prove per mezzo di saperi specifici, vogliono assicurare che si ha davanti un perseguitato dagli eventi. Viene sancita un’estraneità totale con l’altro. La violenza, narrata secondo le nostre categorie di senso, riscritta in base alle convenzioni cognitive interiorizzate, ci permette di esorcizzarla.

Dietro questo rimaneggiamento di vite, riprodotto quotidianamente a più livelli dell’accoglienza, si nasconde un pregiudizio gerarchico, che riprende lo stigma dell’epoca coloniale, per cui i mondi dell’altro sono sacrificabili e diventano insignificanti.

Dialoghi Mediterranei, n. 39, marzo 2019
Note

[1]  La richiesta di formazione è stata rivolta all’Ass. Diversa/mente http://www.associazionediversamente.org/  e ha coinvolto anche una socia psicologa psicoterapeuta dell’associazione. In questo articolo riporto in sintesi quello che è stata una parte del mio intervento.
[2] Lewis D. , Convention: A Philosophical Study, Cambridge, Mass., Harvard University,1968 cit in Douglas M. , Come pensano le istituzioni, Bologna : Il Mulino, 1998: 81-82
[3] How Institution Think (1986)3, titolo che richiama ironicamente il libro How Natives Think (in italiano, M. Douglas, Come pensano le istituzioni, il Mulino: Bologna 1990) che l’etnologo francese Lucien Lévy-Bruhl pubblicò nel 1926. Per Mary Douglas, Lévy-Bruhl aveva posto in termini sbagliati una domanda interessante. Nell’ottica dell’antropologa britannica, la risposta al quesito «come pensano i “primitivi”?» è fin troppo facile: i “primitivi” pensano esattamente come tutti gli altri esseri umani. La vera domanda che Lévy-Bruhl avrebbe dovuto porsi è: «come pensano gli esseri umani?». La tesi della Douglas è che la risposta non possa essere ricercata limitando l’analisi agli individui singolarmente considerati, ma vada ricostruita spingendo la ricerca al livello delle istituzioni culturali che in ciascuna società strutturano il modo pensare delle persone.
[4]  idem.
[5] Nell’antefatto Danao ed Egitto erano due fratelli gemelli che condividevano la sovranità sul regno d’Egitto. Il primo aveva avuto cinquanta figlie, il secondo altrettanti figli. Egitto aveva tentato di imporre il matrimonio tra i propri figli e le figlie di Danao (chiamate collettivamente Danaidi), ma un oracolo aveva predetto a Danao che un suo nipote l’avrebbe ucciso; per questo il re aveva vietato alle figlie di sposarsi e, alla richiesta di matrimonio dei cugini, queste si erano rifiutate ed erano fuggite ad Argo, in Grecia.
[6] Dal Lago A., Non persone L’esclusione dei migranti in una società globale, Milano: Feltrinelli, 2004: 208
[7] Ivi: 207
[8] Arendt H., Le origini del totalitarismo (1951), trad. it. di A. Guadagnin, Cap.9, Il tramonto dello Stato nazionale e la fine dei diritti umani,  Torino: Edizioni di Comunità, 1999: 372
[9] Ivi: 409 corsivo mio.
[10] Nome di fantasia. Per il rispetto della privacy il nome, così come particolari informazioni specifiche della storia del ragazzo, sono state omesse
[11] Da un colloquio con S.
[12] Si tratta di un gruppo di studio composto da socie che svolgono differenti professioni: psicologi, psicoterapeuti con differenti indirizzi, antropologi, operatori e mediatori interculturali. Mensilmente il gruppo si confronta sia su casi specifici che su aspetti teorici.
[13]  Dei F., Antropologia della Violenza, Meltemi: Roma, 2005, introduzione.
[14] Termine usato secondo l’accezione illuminista come l’incapacità di valersi del proprio intelletto, delle proprie capacità – qui intendiamo in senso esteso – senza una guida.
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Filomena Cillo, laureata in Antropologia Culturale ed Etnologia con un lavoro di ricerca dal titolo: Regole infantili per un’assistenza matura. Un’analisi antropologica in contesto pediatrico, ha conseguito una successiva specializzazione in Cure Palliative Pediatriche presso l’Accademia delle Scienze di Medicina Palliativa di Bologna. Tra i temi di ricerca approfonditi: la salute del migrante con particolare attenzione all’ambito pediatrico e femminile; i processi di costruzione identitaria attraverso l’analisi dei significati assunti dalla manipolazione del corpo nei riti tradizionali e moderni; la dimensione sociale e politica del trauma nelle narrazioni dei richiedenti asilo nonché le dinamiche di appropriazione dello spazio urbano.
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