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Moby Dick è anche mio

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I primi libri ricevuti in dono dall’autore, 1955

di Ninni Ravazza

Avrei voluto intitolare questo contributo Il mio Moby Dick ma ci aveva già pensato William Humphrey. E pure col Il Vecchio e il mare c’è chi mi ha preceduto. Pazienza, mi metto in fila e approfitto degli spunti fornitimi dagli illustri predecessori…

Ho scritto tante volte che il Mare proietta i suoi frequentatori in un tempo senza tempo, dove ogni gesto, parola, emozione, ricalca l’esperienza di chi li ha vissuti prima di noi, stratificando saperi e conoscenze senza perdere nulla di quanto acquisito nei millenni. Come l’Oceano pensante di Solaris, il Mare ci restituisce memorie nostre e di intere generazioni passate. Già in “Tonnara, il luogo del mito” (Dialoghi Mediterranei n. 36 del marzo 2019) avevo ricostruito il filo comune che unisce il mondo della tonnara alla letteratura classica, da Omero ad Apollonio Rodio, in un unicum che abbraccia uomini, dei, barche e pesci.

Continuando ad andar per mare, ogni giorno mi ha riservato nuove avventure, esaltanti esperienze, intriganti incontri che ancora una volta si sono intrecciati indissolubilmente con le pagine dei volumi che nel corso degli anni ho “navigato” con gli occhi e con la mente, fin dal lontano 1955 quando – io appena treenne – mio padre mi regalò il primo libro di mare della mia vita, La crociera del Saetta di Jack London.

Mi piace qui raccontare una recente giornata trascorsa sul mare, dentro il mare, assieme al mare, assaporata istante per istante, vissuta con la passione e la consapevolezza che soltanto la mediazione della letteratura mi ha saputo regalare. Mentre vivevo questa avventura dentro di me rivedevo i protagonisti dei tanti libri che mi hanno fatto compagnia negli anni, immedesimandomi in essi fino a sentirmi io stesso parte del loro mondo, un po’ reale e un po’ fantastico …

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Il “Rae” esce dal porto di San Vito Lo Capo (ph. N. Ravazza)

Il primo sabato di ottobre vissuto da pensionato ho incontrato il mio Moby Dick. Magari ce ne saranno altri, ma questo è il primo e merita di essere consegnato alla memoria.

Previsioni ottime, mare calmissimo, caldo, onda lunga e bassa, siamo all’inizio della stagione buona per la traina d’altura: Lampughe, Aguglie imperiali marlin di casa nostra, tonnetti Alletterati, Pescispada e Tonni rossi, Alalunghe … si può trovare di tutto. Vado. Da solo, come sempre. Dopo essermi lussata la spalla a 9 miglia da terra ferrando una grossa lampuga ed essermi infilato due volte l’amo nella mano finendo al Pronto Soccorso con il minnow che pendeva dal dito, ho perduto un po’ di sicumera, ma continuo ad andare da solo. Difficile trovare un compagno adatto al mio caratteraccio. In realtà non sono proprio solo, con me c’è Rae, la mia barca fidatissima, la mia compagna adorata, un amore al femminile secondo solo agli affetti in carne e ossa.

«Il libro di bordo portava, quel giorno, la data del 4 settembre 1952, ed eravamo già al nostro ottantacinquesimo giorno di navigazione da Singapore. Ho detto “nostro”, perché eravamo effettivamente in due: “Marie-Thérese” ed io. In realtà, eravamo diventati una sola cosa, come una sola cosa sono il corpo e lo spirito che vi abita. La stretta unione dell’uomo con la barca si era stabilita progressivamente, per gradi…» [Moitessier, Un vagabondo dei Mari del sud].

Da sempre avevo desiderato possedere un “Calafuria”, la barca simbolo dei pescatori veri, spartana e affidabile, poca raffinatezza e tanta robustezza, essenziale nelle linee, elegante nella sua semplicità. Il cantiere toscano che per anni l’ha costruita alla fine ha chiuso l’attività, mortificato dai cafonauti che cercano velocità e falsi luccichii per prendere il sole a cento metri dalla spiaggia. Io la mia Rae l’avevo finalmente trovata in un’isola del Canale di Sicilia dove il proprietario la impiegava per la pesca e affrontava traversate da cento miglia per portare il pescato sui mercati di terraferma, ancorché tale possa dirsi la nostra isola. Uno straordinario senso di potenza e sicurezza mi accompagnava lasciando di poppa la banchina del porto …

 «Mi sembra opportuno parlare ora del sogno che accompagnò Bashur per tutta la vita e che non poté vedere mai realizzato. Fu una costante del suo destino, ostinata come nessun’altra e, per i suoi amici, la più commovente. Si trattava della sua incessante ricerca in tutti i porti della terra della nave da carico ideale, il cui profilo, stazza e motore, Abdul aveva sempre presente. Su di essa voleva passare il resto dei suoi giorni …» [Mutis, Abdul Bashur, sognatore di navi].

Mollate le cime, Rae prende dolcemente la via accompagnata dai gabbiani più giovani che ancora non si sono avventurati in mare aperto. La statua di San Vito con ai piedi i mansueti cani sfila a sinistra, i pescatori da riva ci guardano invidiosi, loro insidiano smagriti cefali, solo la fortuna gli potrà regalare una inesperta spigola. Io inseguo il Leviatano.

«La nave uscì dal porto tra i saluti, / Allegramente scivolammo via / Sotto la chiesa e la collina, / Sotto la punta del faro / Il sole sorgeva a sinistra, / Veniva fuori dal mare …»[ Coleridge, La ballata del vecchio marinaio].
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La costa di San Vito Lo Capo distante 12 miglia (ph. N. Ravazza)

Appena fuori dal porto calo le lenze e vado. Non è prestissimo, la giornata è ancora lunga e me la posso prender comoda. Le ore migliori, poi, per me son sempre state quelle del primo pomeriggio. A poppa di Rae filano le lenze morbide, una corta a mano per le lampughe – ma non sono loro che mi interessano – e due lunghe sulle canne, con i minnow pesciolini traditori armati di ami e ancorette per … quello che viene, purché sia grosso. Tre lenze quando sei solo sono tante, rischi di imbrogliarle tutte, ma voglio allettare i pesci col menù più composito possibile.

Sulla mia barca sono il capitano, il “secondo”, il direttore di macchina, il nostromo e pure il “giovane” di cabina … raro esempio di equipaggio che non litiga mai. Una figura, la mia, di pescatore solitario oggetto di sagge e vane raccomandazioni ma anche di virile rispetto: non siamo in molti a lasciarci la terra alle spalle per inseguire un tonno, una nuvola, un pescespada, un’onda, senza una compagnia a bordo. «Mi sembri un personaggio di Hemingway» mi disse un giorno di tanti anni fa il futuro avvocato già in giacca e cravatta che mi incrociò sulle banchine del porto di Trapani. Io indossavo un paio di jeans sdruciti e puzzavo di pesce. Credo sia il più bel complimento che mi abbiano mai fatto. Comunque per tale lo presi, e ne sono ancora fiero …

Prua a nord, 4 nodi la velocità di traina, poco più di 7 chilometri se fossimo a terra; diversi amici preferiscono velocità maggiori, fino a 5,5/6 nodi, ma l’esperienza personale mi consiglia di tenere bassa l’andatura. Quando le tre lenze sono in pesca spengo uno dei due motori del mio “Calafuria 24”, e vado.

Attraverso la Secca del Faro che spesso mi regala belle sorprese come Aluzzi, Alletterati e una volta anche un Dentice salito in superficie chissà come mai. Nulla. Vado avanti. Non ho una meta stabilita, non una rotta precisa. Vado, l’orizzonte è l’isola che raggiungerò un giorno, forse. Non oggi.

«S’annuncia col profumo, come una cortigiana / l’Isola Non-Trovata … / Ma se il pilota avanza, / rapida si dilegua come parvenza vana, / si tinge dell’azzurro color di lontananza…» [Gozzano, La più bella]; ma anche: «Il re di Spagna fece vela / cercando l’isola incantata, / però quell’isola non c’era / e mai nessuno l’ha trovata: / svanì di prua dalla galea / come un’idea, /come una splendida utopia, /è andata via e non tornerà / mai più …» [Guccini, L’isola non trovata]; e, perché no? «Seconda stella a destra / questo è il cammino / e poi dritto, fino al mattino / poi la strada la trovi da te / porta all’isola che non c’è …» [Bennato, L’isola che non c’è].
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La canna da traina puntata verso il cielo (ph. N. Ravazza)

Il mare è calmissimo e solo il po’ di onda lunga retaggio della grecalata del giorno precedente provoca un minimo di beccheggio. Accendo la radio e ascolto distrattamente le cronache della giornata, poi cerco una stazione che trasmetta buona musica. Non è facile trovarla, ma sono tranquillo perché in barca ho sempre una scorta di CD e un Mp3 che mi garantiscono gli ascolti più graditi.

Incontro i primi cannizzi che i pescatori ancorano al fondale per creare le zone d’ombra sotto le quali si fermano tonnetti e caponi che poi catturano con la rete da circuizione; siamo a 3 miglia da terra, ma quest’anno sembra che i pesci si trovino molto più fuori. Non mi preoccupo più di tanto, non sono loro che cerco. Se ne trovo, bene, sennò …

A 4 miglia i primi caponi attaccano il polpetto bianco con piume, i due ami colorati di rosso funzionano, un paio di bei pesci vengono a bordo e qui vomitano a decine le microscopiche sardelle di cui si erano riempiti le pance. Ne troverò più di una incrostate tra i capelli quando la sera a casa farò finalmente la doccia. Abboccano alla lenza corta, non ho nemmeno bisogno di levare dall’acqua le altre; l’elastico a cui l’ho attaccata si stende ammortizzando la ferrata e denunciando la cattura, metto il motore al minimo, recupero velocemente a mano e quando arrivo al terminale alzo il pesce con uno scatto. Ogni tanto qualcuno si libera proprio in questa fase e ricade a mare, un attimo di smarrimento poi sparisce veloce nel blu intenso. Va bene anche così, è una gara alla pari la nostra, non c’è un vincitore predestinato.

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Affresco, Il pescatore di Thera con i caponi (lampuga, coripahena hippurus)

È un bellissimo pesce, il Capone, che nel resto del Paese si chiama Lampuga e negli oceani Dorado. Oppiano di Cilicia lo appellava Ippuro e questo è rimasto il suo nome scientifico, Coriphaena hippurus. Ha mille colori che vanno dal giallo a blu senza dimenticare alcuna sfumatura intermedia. Forte, veloce, rapace, furbo. Oggi passa per pesce povero, ma quattromila anni fa era una preda nobile, cibo da Re. A Thera, capitale della civiltà minoica, gli dedicarono un affresco che è sopravvissuto all’esplosione del vulcano dell’isola. Oggi quell’isola si chiama Santorini ed è sede di turismo raffinato. Nessuno ci va a pescare il pesce dei Re. Eppure su questo pesce che vive in tutti i mari temperati del mondo ci sarebbe da scrivere un romanzo giallo. Dove va a finire quando, a dicembre, scompare da sotto i cannizzi e non si rivede fino al successivo settembre?

Ma no che arrivano i grandi e i piccoli, quelli dell’anno prima e quelli di quest’anno, no, arrivano solo i giovanissimi da cento grammi, tutti uguali, tutti a crescere insieme. È vero, ogni tanto se ne cattura uno da sette, otto chili, anche di più, ma uno su centomila. E gli altri? Che fine hanno fatto? I novelli Ippuri a settembre pesano quanto i tonnetti, sono nati insieme, a maggio, giugno, i primi nei mari lontani, i secondi davanti alla costa dove le cabbane di tonni venivano a figliare e incappavano nelle tonnare (ora dalle parti nostre non ce ne sono più). Ma le cabbane di Caponi dove sono? Chi le ha mai viste? È un mistero, questo, uno dei tanti del mare. Arrivano a settembre, crescono, non figliano perché a Natale gli ultimi catturati non hanno uova né lattume, poi spariscono. Per sempre. Dove se ne vanno? Muoiono? E quelli che arrivano a quindici chili cosa sono, highlander o sopravvissuti per caso? E poi, i pesci come muoiono se non sono pescati o predati? In tanti anni di subacquea non ho mai visto una cernia morta di vecchiaia, e neppure un dentice. C’è un cimitero dei pesci, un luogo segreto dove vanno a concludere la esistenza al riparo da occhi profani?

«Le fere vecchie, vicine a essere trentenarie, si conoscevano. Un certo giorno, come fosse un giorno destinato, quello e non un altro, si isolavano: si staccavano dall’affollamento di mare. Dal traccheggio della popolosa vita, uscivano dalla famiglia, dal branco, dalla colonia, e si aggregavano alle altre vecchiarde, concentrate qua e là, in certe zone di mare fuorimano, verso Rasocolmo, tanto per dire, dove stavano come in quarantena, sinché non scomparivano … Non lasciavano traccia né sentore. Ma che specie di morte era quella, per cui sparivano tutt’intieramente … » [Stefano D’Arrigo, Horcynus Orca].
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Caponi al mercato (ph. N. Ravazza)

Vado avanti. Il mare si mantiene bellissimo e non è una sorpresa, ormai i siti web migliori ti danno tutte le informazioni necessarie per la navigazione: velocità del vento, altezza e direzione delle onde, evoluzione del tempo. E non sbagliano. Quel sabato il vento non avrebbe superato i 4 knots … 7 chilometri e mezzo, ben poco. I gabbiani esperti dall’alto scrutano il mare cercando i branchi di piccoli pesci da predare. Le candide nuvole del buon tempo si riflettono sulla superficie immobile. Posso andare avanti.

 «Era una limpida giornata di un azzurro acciaio. I firmamenti dell’aria e del mare erano appena separabili in quell’azzurro che tutto penetrava; soltanto, l’aria pensosa era di una trasparenza pura e morbida, con un’apparenza di donna, mentre il mare, robusto e virile, si sollevava con ondate lunghe, forti e lente, come il petto di Sansone nel sonno. Di qua e di là, in alto, trascorrevano le ali nivee di piccoli uccelli immacolati: erano questi i gentili pensieri dell’aria femminina: ma avanti e indietro, negli abissi, giù, nell’azzurro senza fondo, correvano precipiti possenti Leviatani, pescespada e squali …» [Melville, Moby Dick].

Passo distratto accanto ai cannizzi ma non indugio, se qui vicino nuota qualche grosso predatore a caccia dei caponi sarà lui a inseguire i miei pesciolini traditori. Fino a otto miglia non incontro più pesci piccoli né grandi. Le lenze scorrono flessuose, nemmeno un attacco. Forse è meglio cambiare esca.

Sostituisco i minnow sulle canne con altri di diverso colore; il polpetto bianco che ha già pescato lo lascio sulla scia della barca. Proseguo ma la situazione non cambia. Passo accanto ai cannizzi, cerco con lo sguardo il salto dei grandi pesci che inseguono la preda, ma incontro solo pigre tartarughe marine che si godono il sole nuotando lente.

Arrivato a 10 miglia da terra cambio ancora esche, e queste nuove hanno ami che non temono i mostri marini. Vado avanti.

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Una tartaruga marina caretta caretta (ph. N. Ravazza)

La radio gracchia solo canzoni stupide, attacco l’Mp3. Paolo Conte racconta del suo naufragio “onda su onda”. Sono digiuno ed è quasi l’una del giorno. Non mangio, nelle mie “giornate al mare” capita spesso … sono così rapito dalla grande bellezza che mi circonda da non sentirne il bisogno. Mi nutro di mare e cielo. La rarissime volte che capita, guardo con commiserazione gli amici che mi fanno compagnia portarsi appresso arancine e panini imbottiti, olive e pecorino. In questo paradiso tra nuvole evanescenti e piccole onde spumose mi appare cosa volgare.

 «Ma anche quando era consentito il rifornimento di ortaggi, il rancio a bordo continuava ad esser deplorevole, perché costituito essenzialmente di galletta e di carne di porco salata … Che altro c’era, oltre la galletta e il porco? C’era il formaggio; ma il formaggio, per quanto ben confezionato, era suscettibile di subire curiose trasformazioni intestine sotto i raggi del sole …» [Van Loon, Storia della navigazione]

Undici miglia da terra, gli Abba cantano “Fernando”. Il sole è caldissimo, sono in costume già da quando ho acceso i motori in porto. Lontano a ponente, un puntino bianco segue una rotta parallela alla mia, sono Salvo e Franca col loro comodissimo Orion; erano usciti prima di me ma si erano attardati attorno a dei cannizzi ricchi di caponi, ora siamo alla stessa altezza. Ci eravamo sentiti per telefono e mi avevano narrato le prime catture. Qui la linea del cellulare va e viene, difficile terminare un discorso, sappiamo però che siamo vicini, ci controlleremo con lo sguardo. Dietro di me, almeno 4 miglia distante, un puntino scuro denuncia la presenza di un altro pescatore a caccia di caponi, sta seguendo la mia stessa rotta, chissà se è stato fortunato.

Alle 14 sono a dodici miglia, nessuna novità, meglio tornare, ci vogliono almeno tre ore per arrivare a terra e se incontro qualche pesce farò ancora più tardi, stasera sono a cena da mamma e non voglio arrivare col buio.

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A dieci miglia da terra il cielo si riflette sulla superficie immobile (ph. N. Ravazza)

Mi fermo un attimo per gustare tutta la bellezza di quell’istante. La terra è lontana, appena una striscia indistinta che emerge dal blu. Le cime del Monte Monaco e di Passo del Lupo spiccano nel cielo, anch’esso blu come il mare. Rae è solo un puntino candido in tutto quel blu. Io sono un puntino nella vastità del mare. La solitudine regala serenità ma anche inquietudine. La barca è un’enclave effimera della terra. Un tappo che galleggia nel nulla, sospeso sulla frontiera che separa il mare dal cielo. E io ci sono sopra, assecondo i suoi movimenti che imitano il moto delle onde. È come se fossi a terra, ma non lo sono. In questo istante io e Rae siamo il tramite fra due mondi che si sfiorano senza riuscire a intersecarsi, il Mare e il Cielo. Ma in realtà non apparteniamo a nessuno di essi. Basterebbe una via d’acqua, una falla oppure una presa che salta, per farci sparire, ingoiati dal mare e rapiti al cielo. Saremmo ancora tutta una cosa, io e la mia barca. Se ci stai sopra non ti passa per la mente, l’essere un tutt’uno comporta anche la condivisione dello status, ma a volte ti fermi a pensarci e allora ti rendi conto che questo è estremamente precario. Meglio non pensarci, qui a venti chilometri dalla terra più vicina.

 «Di navi nessuna traccia; intorno a noi nulla galleggiava che rivelasse esserci al mondo altri uomini. Tutto il mare era nostro. Tutte le porte dell’orizzonte erano spalancate, e dal firmamento, come rugiada, scendevano pace e libertà. Ci pareva che gli effluvi salsi e la nettezza dell’aria dovessero lavarci e purificarci anima e corpo …» [Heyerdahl, Kon Tiki].
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“Rae” in pesca (ph. N. Ravazza)

Inverto la prua di 180 gradi, decido di ripercorrere la stessa traccia. Le condizioni di luce sono cambiate, magari cambiano anche i comportamenti predatori dei pesci. Per intanto, cambio ancora le esche e provo con un minnow a due ancorette che in passato ha dimostrato di essere molto appetito anche se tende a perdere la preda, forse proprio per il numero ridotto di ancore. Nuota bene un po’ più fondo degli altri, questione di centimetri. I Bee Gees cantano “Massacchusset” e siccome mi piace molto e mi ricorda gli anni del Liceo aumento il volume. Io, Rae e una delle mie canzoni preferite. Ci fossero anche i pesci …

Navigo verso terra. Undici miglia, dieci … niente. Anche Salvo e Franca hanno invertito la rotta. Ripasso accanto ai cannizzi già sfiorati all’andata. Nulla prima, nulla ora. Madonna canta “Don’t cry for me Argentina”, adoro questo brano. Metto la musica a palla, tanto non disturbo nessuno. Mi giro annoiato a poppa … e la canna con la lenza più lunga parte. Si curva. Si piega. Il filo esce velocissimo. Il mulinello canta la sua canzone più bella col cicalino che urla. A settanta braccia dalla barca qualcosa ha attaccato il minnow blu che nuota sotto la superficie e ora fugge con le ancore infilate in bocca. Speriamo che abbia abboccato a tutte e due.

È un istante magico questo, da solo vale mille uscite a vuoto. La canna inerte si anima all’improvviso, vibra, come un dito prima rivolto al cielo ora si abbassa sul mare e indica la preda inseguita e desiderata. Tutto d’un tratto. Niente lo aveva anticipato. Dalla calma cosmica al caos della cattura. Un flash. Il cuore sembra voler uscire dalla gabbia toracica. Impossibile descriverlo se non si vive.

Il pesce è grosso, non avevo mai visto la canna piegarsi così. Porto il motore al minimo, lascio il timone, vado a poppa, afferro la canna e do una ferrata violenta per fare penetrare ancora meglio gli ami. Mamma mia, quanto è grosso! Sento il suo peso dall’altra parte del filo. Ripongo la canna nel suo alloggio e tiro a bordo le altre due lenze, non posso recuperare il pesce con loro sulla scia, le recupero più veloce che posso e intanto con la coda dell’occhio guardo la canna, è ancora piegata, il pesce non si è liberato. In tutta questa fase ogni pensiero è scomparso, ogni nervo, ogni muscolo è impegnato a liberare il mare dai fili ingombranti. Non sento più né la musica né il borbottio del motore. È l’ora in cui la mattina cede il passo al pomeriggio, il sole corre verso ponente, la luce cambia, fa caldo, comincio a sudare. Cosa ci sarà là in fondo al filo della lenza?

«La faccia era senza espressione, pareva che tutte le sue facoltà sensorie si fossero concentrate nel braccio teso a metà che teneva la lenza. Improvvisamente la vidi tendersi … Poi afferrò la lenza a due mani, e si chinò fino a toccare il ponte con le nocche … Muscoli e tendini sporgevano lungo le vertebre che parevano ciottoli messi in fila e uniti da stringhe. Poi, di colpo, fu costretto a cedere, allentando la presa a scatti brevi, e la lenza, strisciando rapida contro il legno del parapetto, fumava e sibilava nell’attrito. Fu questione di non più di due secondi; poi la riprese e la frenò. Una sosta. Il gioco sfibrante si ripeté un paio di volte. Riuscì a tenerla saldamente. Lo squalo aveva terminato la sua marcia a vuoto iniziale verso la libertà» [Travis, Pescicani da vendere].
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Un uccellino sfugge ai gabbiani posandosi su “Rae” (ph. N. Ravazza)

 Non ci sono più impedimenti a mare, posso dedicarmi al recupero. Non è facile! Da solo devo anche manovrare il motore e il timone che stanno nella cabina a metà barca. Con il solo motore di sinistra avanti Rae tende a girare sulla destra per avvitarsi su se stessa … il filo perderebbe tensione e io perderei il mio pesce. Ora fuori dal mulinello ci sono oltre cento braccia di filo, e il pesce continua a tirare, sia pure con minore foga. Me ne sto in piedi a poppa, la canna in mano, guardo il filo che fugge veloce dal mulinello e mi chiedo se sarà sufficiente o la bobina si svuoterà prima che sia riuscito a stancare la mia preda. Seguo con lo sguardo il nylon che si infila in mare a una ventina di metri dalla barca, un raggio di sole lo attraversa e per un attimo brilla. Secondo gli arabi fu proprio un raggio di sole che attraversando una goccia di pioggia creò il corallo.

Stiamo lottando strenuamente, io e il mio Moby Dick, lui vuole fuggire e riprendersi la libertà, io voglio portarlo a me. Non mi pongo il problema di cosa fare dopo. È una lotta onesta, leale, vediamo chi è più bravo.

Il pesce fugge in direzione opposta al procedere della barca e il filo del mulinello si sta esaurendo, voglio fermare Rae, sono costretto a sgranare l’elica ma non ci riesco subito. Devo entrare in cabina tenendo con una mano la canna piegata in due, e con l’altra portare a “fermo” la leva del motore. Nemmeno due anni fa proprio da queste parti mi sono lussato completamente la spalla sinistra nel tentativo di ferrare un grosso pesce, e anche quella volta ero solo; il danno fu tanto grande che mi dovetti operare. Tento, riprovo, finalmente riesco a fermare il motore.

«Sempre avanti, si deve andare sempre avanti quando si prende un pesce» mi diceva il grande rais Mommo Solina che era pure un ottimo pescatore di traina. Ripenso alle sue parole, ma da solo non posso fare altro, se lascio il motore avanti Rae se ne va per rotte sbagliate. La radio ora canta a squarciagola “YMCA” dei Village People, chissà se lo sentono anche Salvo e Franca.

Io e la mia barca, siamo parte di una cosa sola. Il pesce là lontano, centotrenta braccia a nord. Sono tornato a poppa con la canna in mano, non ho cintura di combattimento e faccio fulcro nell’inguine. Alla fine sarà tutto un livido. La lenza continua a uscire dal mulinello, ma ora con minore velocità, la frizione lo sta stancando. “Lui” sta tirando verso il basso. È grosso, molto grosso, posso sentirne il corpo pesante sulla canna. La velocità di fuga diminuisce, stringo la frizione, il pesce si ferma. Comincio a recuperare. Alzo la canna, la abbasso veloce e giro la leva, guadagno pochi centimetri, il pesce fa sempre una grande forza e il mulinello slitta. Per la prima volta da quando è avvenuta la ferrata mi fermo a pensare.

«L’animale è ancora lontano, quasi del tutto immerso o appena affiorante, difficilmente visibile anche con un buon binocolo 20×60. È ancora confuso con l’oceano, incorporato in esso …» [Rossi, Le balene muoiono con la testa rivolta al sole]
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Un motoscafo di altura passa vicino a “Rae” (ph. N. Ravazza)

Quasi certamente si tratta di un tonno, i rostrati si comportano in maniera differente. L’Aguglia imperiale compie salti altissimi fuori dall’acqua e corre a zig zag a volte sopravanzando la barca; il Pescespada dopo una fuga veloce tende a fermarsi e spesso combatte in superficie cercando di tagliare la lenza con la spada. Li avrei visti. Alletterati e Alelunghe combattono bene ed effettuano lunghe fughe, ma si tratta di pesci al massimo di dieci, dodici chili, lo senti sulla lenza che sono grandi ma non così tanto quanto Lui.

Se è davvero un tonno, che fare? La quota di catture della pesca sportiva per quest’anno è esaurita e non dovrei portarlo a terra; resta il “catch and release”, cattura e rilascio. Non mi va di pensarci ora, quando sarà il momento deciderò.

Sono a oltre 9 miglia da terra ed è il primo pomeriggio, ho tempo, ora la tensione del filo si allenta, riesco a recuperare una decina di metri, piano piano, con grande fatica. Sento chiaramente sulla canna le testate del pesce che cerca di liberarsi. Comincio ad avvertire la stanchezza e il braccio destro che uso per fare leva sulla canna mi fa male. Guardo il mare calmo e trasparente come uno specchio, Moby Dick è ancora a cento braccia da me. Ci unisce un filo sottile e invisibile. Chi è davvero la preda? Chi ha catturato l’altro?

Fa molto caldo in questa parentesi estiva d’autunno, il sole brucia, gli occhi bruciano a forza di inseguire il filo che si perde nel mare che più blu non si può. Con la barca ferma il pesce tende ad affondare, non va bene, dovrei tenerlo in superficie, così è più facile combattere. Tenendo la canna con la mano sinistra vado lentamente indietro … il pesce è fermo … dalla porta della cabina riesco a mettere il motore avanti piano, speriamo che la barca vada dritta. La tensione spaventa la preda che parte per una nuova, lunghissima fuga. Il filo esce nuovamente veloce dal mulinello, ancora una volta temo che finirà tutta la bobina, stringo un po’ la frizione per rallentare la corsa. La canna è flessa all’inverosimile ma regge bene, comincio a vedere il metallo del tamburo, se continua a fuggire il filo finirà e non ci sarà alternativa: o si rompe il filo o si spezza la canna. Anche stavolta mi va bene, il pesce rallenta, si ferma nuovamente, stavolta deve essere quasi in superficie, lo intuisco dalla direzione della forza. Non posso andare ancora avanti, devo recuperare filo. I minuti scorrono lentissimi, non ho idea del tempo che è passato dalla ferrata. Sono tutto sudato, stanco e dolorante, le braccia e l’inguine dove appoggio la canna gridano aiuto.

È strano come in questi frangenti non si pensi ad altro che a quello che sta accadendo. Tutti i sensi sono allertati per evitare di farti male (a me è capitato, so che può succedere), per non rompere gli attrezzi, per non perdere la preda, ogni altro pensiero è scomparso. La solitudine per la prima volta mi fa male, vorrei avere un compagno col quale avvicendarmi, con cui condividere l’adrenalina che ha invaso corpo e cervello. Invece ci siamo solo noi, io, Rae, Moby Dick e il mare. Il cielo terso è solo una comparsa, oggi i protagonisti stanno tutti sotto di lui.

Il sole è abbacinante, questo ottobre assomiglia tanto ad agosto. Là in fondo, in linea con la poppa della barca, il pesce è stanco almeno quanto me. Fermo nuovamente il motore, ricomincio a pompare sulla canna … in alto tirando lentamente per non romperla, poi giù velocemente per recuperare il filo in bando, centimetro dopo centimetro, metro dopo metro, la preda si avvicina. Ogni tanto scuote la testa e la canna mi balla tra le mani, ma ha il muso rivolto a me, viene … quanta lenza si era portata dietro? Ce la farò a recuperare tutto questo filo? Sono davvero sfinito, mai mi era accaduto prima. Alza, abbassa, recupera … vediamo chi è più forte.

Il mare ora è immobile, mi dispiace che non ci sia il mio Mozzo, la compagna di tante navigazioni, è impegnata con una traduzione e non è potuta venire, chissà cosa direbbe di questa lotta tra pari. Sono certo che sarebbe orgogliosa di me, ma tiferebbe per il pesce. A questo punto non mi importa tantissimo quale sarà l’epilogo, comunque la mia giornata al mare resterà indimenticabile.

 «Una giornata al mare / solo e con mille lire / sono venuto a vedere quest’acqua e la gente che c’è / il sole che splende più forte …» [Conte, Una giornata al mare]
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Una grossa aguglia imperiale catturata a traina (ph. N. Ravazza)

So benissimo che da un momento all’altro le due ancorette del minnow possono mollare la presa, o il filo si può rompere in uno dei tanti punti di debolezza: all’attacco della girella, nel cappio del terminale o nella congiunzione che ho fatto a circa 40 braccia dal terminale. A proposito, ecco che esce dall’acqua il nodino che unisce i due spezzoni di filo, finalmente so quanto mi separa dalla mia preda, quaranta braccia più un metro e mezzo di terminale. Ho recuperato almeno centodieci braccia di lenza, forse di più. Il pesce ora è quasi vicino, e improvvisamente mi sovviene che i tonni – ormai ne sono quasi sicuro, di questo si tratta – sono molto spaventati dal rumore. Sulla barca non si sente nemmeno il motore che gira, tanto forte è la musica. Per il tonno è un motivo in più per spaventarsi e cercare la fuga. Ricordo benissimo quando in tonnara era momento di mattanza e il rais Solina ordinava di non far rumore per non spaventare i pesci; la tonnara di Punta Raisi finì di pescare proprio per il rombo degli aerei che passavano sulle loro teste. Rae vibra sotto le note della canzone. Devo spegnere la radio. Non è facile con un bestione attaccato al braccio sinistro e sono costretto a provarci tre o quattro volte prima di arrivare sulla porta della cabina e raggiungere con la mano destra il pulsante di spegnimento. Quando la musica tace mi complimento con me stesso, non è stato semplice, la vivo come una piccola vittoria.

«Corro verso la mia cabina. Devo spicciarmi a sistemare tutto! Rolleremo. Corro, salto, scoppio di felicità. Terranova, l’immenso mare dei ricordi, i velieri di miseria e d’orgoglio; Terranova, le balene e i pesci rossi, i merluzzi giganti. Terranova!» [Conti, La dama del mare].

Ora eccoci qui in silenzio nuovamente. Il nodino entra nel mulinello. Sono convinto di aver vinto ma non è così. Il pesce deve aver visto la barca o sentito il rumore del motore, e scappa nuovamente. La frizione canta ancora la sua canzone, la canna si curva, però stavolta la fuga è più breve. Il sottile filo da 0,50 fa il suo dovere, non si spezza e ci tiene legati ancora. Io e il “mio” Moby Dick.

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Qualcosa accade

Combatto in piedi appoggiando le ginocchia al bordo di Rae, e immagino la scena che si svolge qualche decina di metri più in là. Sotto la superficie un tonno grosso, non so quanto ma grosso abbastanza, si sente tirare da qualcosa che non vede, cerca di resistere ma ogni volta è inutile, l’istinto gli dice di correre ma non ci riesce, dopo qualche metro deve cedere. So benissimo però che si batterà strenuamente fino all’ultimo. Nemmeno io sono disposto ad arrendermi, anche se la stanchezza è tanta. Mi chiedo nuovamente da quanto ci siamo ingaggiati, ma non ne ho idea. Potrebbe essere mezz’ora, un’ora, due … il sudore allaga gli occhi e confonde l’orizzonte, lo asciugo col dorso della mano. Mi guardo attorno, Orion naviga inconsapevole verso terra quattro miglia a ponente, non vedo più la barca che seguiva la mia stessa rotta. Come vorrei che Salvo e Franca fossero qui vicini a me … o forse no, questa è la “mia” avventura, devo viverla tutta da solo. Mi piacerà raccontargliela quando ci ritroveremo a terra, con le barche ormeggiate fianco a fianco. Un grosso yacht da crociera passa poche centinaia di metri a nord di Rae, lo seguivo con la coda dell’occhio da tempo temendo di essere proprio sulla sua rotta. In questa situazione avrei dovuto tagliare tutto per sfuggire alla sua prua veloce ignara delle barchette. Leggo il nome scritto sulle alte fiancate. Non è italiano.

 «Il vapore inglese passa silenziosamente sul fiordo. La musica echeggia più vicina» [Ibsen, La donna del mare].

«Sempre avanti» diceva il rais, ma io non posso, devo tenere il motore fermo per non fare girare Rae. Spesso è lei che va verso il pesce, lui la tira a sé. Con la barca ferma Moby Dick può immergersi, cercare il fondo, se andassi avanti invece il combattimento avverrebbe quasi in superficie. Non è una buona cosa. Recupero ancora, ma vedo il filo che si infila nel mare sempre più vicino alla barca mentre prima correva all’aria per metri. Il pesce sta affondando, cerca la libertà in profondità. Me ne rendo conto, so che così rischio di perderlo ma non posso farci nulla, se prima col filo parallelo alla superficie potevo cercare di arrivare ai comandi, ora non posso più. Il nodino è dentro il mulinello, ci sono meno di 40 braccia di lenza fuori, ma Lui è arrivato quasi in perpendicolare sotto la barca, devo tenere la canna in orizzontale per sfruttare la sua elasticità.

Ora siamo fermi tutti e due. Io non riesco a recuperare nemmeno un centimetro, Lui sta sotto di me, fermo, non cerca di fuggire, semplicemente sta fermo. Prendiamo fiato entrambi.

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La canna spezzata dal tonno (ph. N. Ravazza)

Il tempo si è preso una pausa. Poggio la canna sul bordo della barca pronto ad aprire la frizione se il pesce tenta una nuova fuga. Mi siedo a poppa. Siamo in una situazione di stallo. Bloccati entrambi. Ne approfitto per guardarmi attorno … niente, non ci sono cannizzi vicini, sotto questo aspetto posso stare tranquillo. Il pesce è stanco, lo so, sta opponendo una resistenza passiva. Non scende e non sale. Che devo fare? Ci fosse un compagno gli direi di andare avanti piano, la trazione lo porterebbe nuovamente a galla. Ma sono solo, come sempre. Devo trovare una soluzione, non posso aspettare il buio così. Provo a forzare sul pesce, vediamo come reagisce. Tiro, la canna si piega, ma Lui se ne sta fermo, non si muove. È pesante, molto pesante. Viene su di qualche centimetro, non faccio in tempo a recuperare che si aggrava sul mulinello, impossibile averne ragione in questa maniera. Forzo la pompata, alzo la canna, abbasso rapido e recupero, in una decina di minuti levo a

Moby Dick sì e no un metro di acqua … forzo ancora, alzo la canna … e sento uno schiocco secco e crudele, beffardo nella sua semplicità. La canna si è spezzata netta a 15 centimetri dalla punta.

Avete mai sentito una canna spezzarsi? Fa un rumore come del fulmine che si abbatte su un albero e lo scaglia al suolo. Crashhhh. Non ci credo. Spezzata. Non mi era mai capitato. Moby Dick mi ha distrutto la canna semplicemente stando fermo. Ora davvero non so che fare. Ho in mano uno spezzone di canna, senza flessibilità, un mezzo bastone con un filo che sprofonda davanti alla poppa della barca. Il tonno è ancora lì, chissà se ha sentito lo schiocco della canna che si spezzava. Cosa avrà provato? Avrà immaginato la libertà?

Mi siedo, appoggio il moncherino di canna al bordo di Rae, meno male che Lui se ne sta buono buono a riprendere fiato. Ora sì, mi sento davvero Santiago, il Vecchio di Hemingway col suo Marlin fuori bordo. Non ho perso (ancora), non ho vinto (se mai accadrà). Che facciamo? Minuti lunghi come ore … riprendo fiato … cerco di penetrare il mare con gli occhi, ma non lo vedo. So che è sotto di me, trenta, venticinque metri, non molto di più. La lenza si immerge perpendicolare. Ora lui può sentire il battito del motore. Se sapesse discernere, sentirebbe anche il battito del mio cuore. Sono fermo, impietrito, ora la battaglia è davvero difficile. Senza la complicità della canna che ammortizza le forze, diventa un confronto impari. Il primo set l’ha vinto Lui.

«“Pesce” disse il vecchio. “Pesce, dovrai pur morire in ogni caso. Vuoi uccidere anche me?” Così non si combina niente, pensò. Aveva la bocca troppo asciutta per parlare, ma ora non riusciva ad arrivare a prendere la bottiglia dell’acqua. Devo farlo venir vicino questa volta, pensò. Non ce la farò con molte altre svolte. Si, ce la farai, disse a se stesso. Ce la farai sempre. Alla prossima svolta l’aveva quasi preso. Ma di nuovo il pesce si rizzò e si allontanò lentamente. Mi stai uccidendo, pesce, pensò il vecchio. Ma hai il diritto di farlo. Non ho mai visto nulla di grande e bello e calmo e nobile come te, fratello. Vieni a uccidermi. Non m’importa, chi sarà a uccidere l’altro» [Hemingway, Il vecchio e il mare].
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In navigazione verso terra (ph. N. Ravazza)

Non c’è molto filo a mare, devo provare. Mi rimetto in piedi, e mi costa non poco, non ho più forze quasi. Piano piano alzo ciò che resta della canna e recupero il filo. Moby Dick è stanco, quanto e più di me. Non fugge, oppone solo passività, sa che mettendosi a muso in giù avrò mille difficoltà a recuperarlo. L’ottanta per cento del suo peso è concentrato nella metà anteriore del corpo, glielo dice l’istinto, è così che può vincere la sfida.

Un aereo diretto a Punta Raisi si abbassa sul mare screziandolo con la sua ombra, seduto a poppa con quel che resta della canna tra le mani ora ricordo che quando ho spento la musica per non spaventare il tonno stavo ascoltando il mio cantautore preferito.

 «Ma poco più lontano, un pensionato / ed un vecchio cane / Guardavano un aeroplano che lento / andava macchiando il mare …» [Guccini, Piazza Alimonda].

Un uccellino inseguito dai gabbiani si ferma su Rae, qui troverà la salvezza. Vita e morte in pochi metri, il girotondo della natura. Recupero centimetro dopo centimetro. Il mulinello Penn è una macchina perfetta, non perde un colpo. Lento, ma inesorabile. Guardo sotto di me, cerco di penetrare il mare, ma no, non vedo niente, però so che Lui sta salendo, ormai il filo è quasi tutto dentro il tamburo. Mi fermo ancora, le ancorette reggono, le sento bene infilate nel muso duro del Tonno …

Sono distrutto dalla stanchezza. So che anche Lui lo è. Il filo scende dritto sotto la barca. La situazione peggiore. Mi fermo una volta, e un’altra ancora, e poi nuovamente. Impegnando al massimo i miei muscoli da pensionato ho recuperato cinque metri di filo. Non di più. Sono spossato. Seduto a poppa appoggio la mezza canna sul bordo e “ascolto” il pesce. Cosa mi direbbe se parlassimo lo stesso linguaggio? Sono certo che anche Lui cerca di ascoltarmi. Col muso in giù, gli occhi rivolti al fondo distante mille metri, la coda che spinge piano ma costante verso il basso. Il filo lo blocca, è una prova di forza questa. Vogliamo vincere entrambi.

Mi piacerebbe vederlo, anche da quassù, scorgere il suo guizzo trafitto dai raggi del sole, ma è ancora troppo fondo. Seguo il filo infilarsi in mare e poi perdersi nel blu. Non voglio rompere la lenza, lasciargli l’esca in bocca e venti metri di filo dietro sarebbe una sconfitta per tutti e due. Cerco di recuperare un po’ di forze, poi mi metto in piedi e ricomincio a tirarlo a me.

La mezza canna compie il suo lavoro, il mulinello pure, piano piano lo porto su … ora lo vedo, sarà a quindici metri di profondità, il suo addome argentato buca il blu del mare quando si gira sul fianco. È un bel tonno, ne ero certo. Ci fermiamo ancora, stavolta non posso appoggiare la canna al bordo di Rae perché Lui compie giri concentrici nel tentativo di liberarsi delle ancorette e devo evitare che il filo finisca fra i timoni o le eliche.

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Orion in rotta per il porto (ph. N. Ravazza)

Piano piano sale ancora, ora è a dieci metri di profondità. Vede bene la barca e ha paura. Non riesce più a puntare verso il fondo ma gira, gira mettendosi di fianco e mostrando la pancia che riflette i raggi del sole d’ottobre. È così che i tonnaroti ne indovinano la presenza fra le reti nei mesi primaverili. “Surrìa”, mostra la surra, la pancia candida agli occhi dei pescatori. Solo che a maggio lo fa per regalare vita al mare nel rito della riproduzione, oggi lo fa per non morire. Non lo so più se voglio davvero catturarlo. Se si liberasse ora dalle ancorette avrei comunque vissuto la mia avventura più bella. In piedi assecondo le sue evoluzioni per far passare il filo a destra e sinistra della poppa di Rae, quando si ferma un attimo stremato ne approfitto per tirarlo ancora a me. Centimetro dopo centimetro il pesce sale. Non so come, ma sale. Stento a crederci, ma la canna spuntata funziona ancora. Ora il tonno è a tre, quattro metri di profondità. Non ha quasi più forze, cerca di fuggire all’ombra della barca ma è sempre più debole. È mio.

Mi fanno male le spalle, le braccia, la schiena. Da quanto tempo siamo qui, legati da un filo invisibile e sottile? Ora lo vedo benissimo, è appena sotto la superficie. Vedo il suo occhio terrorizzato che guarda la barca. Chissà se vede anche me, dall’altra parte dello specchio. Cosa starà pensando? È possibile che un pesce pensi? O è solo istinto, il suo? Passa da sinistra a destra della poppa e lo assecondo allontanando il più possibile il filo dalla barca. È girato sul fianco sinistro e ora scorgo chiaramente il pesciolino che lo ha tradito, il minnow blu con le due ancorette. Lo vedo tutto, vuol dire che ha abboccato all’amo di coda, o che le ancore si sono conficcate sull’esterno della guancia dove la carne è dura come una corazza.

 «D’un tratto il pesce virò e ne conobbi la regale bellezza quando, emergendo per gioco o per sfida dall’onda, il suo dorso scintillante vibrò d’un lampo azzurro e verde, favoloso come la traccia di una stella cadente nella notte estiva» [Gianoli, La pesca del pesce spada].
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Tramonto sul mare (ph. N. Ravazza)

a testa è fuori dall’acqua, afferro con la mano sinistra il terminale lungo poco più di un metro. È l’epilogo del combattimento, ora devo decidere cosa fare. Tirarlo a bordo o ridargli la libertà. In un attimo devo decidere la sorte del re dei mari. Tiro a me il terminale della lenza e appoggio la mano destra sul raffio. Lo sfioro ma non lo afferro. Il tonno sa che forse sta per morire, lo leggo nel suo occhio enorme. Compie un ultimo sforzo rabbioso, scuote la testa, apre la bocca, afferra la lenza e con le mascelle possenti la taglia. La canna tra le mani diventa un bastone inutile. Nel mare blu a nove miglia da terra una saetta abbandona la superficie e sprofonda nell’abisso. Porta con sé il pesciolino traditore che gli stava costando la vita. Rimango impietrito a guardare il mare, ma non posso dire di essere disperato per la perdita della preda. Forse era ciò che in realtà desideravo.

Ora torno a sentire il pulsare regolare del motore. Il tempo ricomincia a scorrere, per più di due ore si era fermato. Sono esausto, devo coricarmi sulla coperta di Rae perché non ho più forze. Socchiudo gli occhi. Accarezzo la canna spezzata appoggiata alla poppa. Penso a Lui che è tornato nel suo abisso, chissà se avrei avuto la forza di issarlo a bordo. Chissà se ne avrei avuto il coraggio. Il sole ha iniziato la discesa verso ponente. Mi alzo lentamente e mi guardo attorno, con gli occhi velati dal sudore vedo un puntino lontano, è l’Orion di Salvo e Franca che naviga verso casa. Metto il motore avanti, ritorno anche io.

 «Giunto all’apice del salto, diede un gran colpo di coda, spruzzando un pulviscolo d’acqua tutt’attorno; nella luce solare le gocce scintillavano al pari delle macchie della livrea. Era come se un razzo fosse esploso, disperdendo nell’aria le scintille. Un’altra corsa sfrenata, poi un altro salto, al cui confronto i due precedenti erano stati salti di riscaldamento. Doveva certamente avere una goccia di sangue di salmone nelle vene! … Incastonato nell’aureola dei suoi colori che scaturivano in fasce da lui, scosse un’ultima volta la testa, spezzando il finale con facilità insolente, fece una giravolta, e si immerse con un tonfo che mosse la superficie dell’acqua formando onde che continuarono a lungo a battermi contro le gambe tremanti e prive di forza. “Che scemo!” gridò il ragazzo dalla riva. “L’avevi preso e te lo sei fatto scappare”» [Humphrey, My Moby Dick].

No, non è stata soltanto una giornata di pesca quella narrata. È stato molto di più. Piuttosto una navigazione nei ricordi, una crociera tra i libri che mi hanno accompagnato dall’infanzia facendomi conoscere e amare il mare e le sue creature, un’immersione tra le note delle canzoni più care, il ripetersi di un rito iniziatico che ogni volta mi mette a confronto con me stesso e mi aiuta a crescere. O forse a restare il fanciullo che a tre anni ricevette in dono dal papà il primo libro che raccontava di barche, oceani, libertà.

Dialoghi Mediterranei, n. 41, gennaio 2020
 I testi che mi hanno fatto compagnia nella navigazione del primo sabato da pensionato
Bennato Edoardo, L’isola che non c’è (1980); Coleridge Samuel Taylor, La ballata del vecchio marinaio (The rime of the Ancient Mariner, 1797) qui nella edizione Oscar Mondadori, Milano, 1987; Conte Paolo, Onda su onda (1974), Una giornata al mare (1985); Conti Anita, La dama del mare (Racleurs d’Océans, 1995) qui nella edizione Magenes, Milano, 2004; D’Arrigo Stefano, Horcynus Orca, Rizzoli, Milano, 2003; Gianoli Luigi, La pesca del pesce spada in I piaceri della pesca, Rizzoli, Milano, 1964; Gozzano Guido, La più bella, dalla silloge Poesie sparse, 1912/1913; Guccini Francesco, L’isola non trovata (1970), Piazza Alimonda (2004); Heyerdhal Thor, Kon Tiki. 4000 miglia su una zattera attraverso il Pacifico (Kon-Tiki ekspedisjones, 1948), qui nella edizione Aldo Martello Editore, Milano, 1962; Hemingway Ernest, Il vecchio e il mare, qui nella edizione Mondadori, Milano, 1996 (trad. F. Pivano); Humphrey William, My Moby Dick, Elliot, Roma, 2010; Ibsen Henrik, La donna del mare, Einaudi, Torino, 1959; Melville Herman, Moby Dick, qui nella edizione Oscar Classici Mondadori, Milano, 1986; Moitessier Bernard, Un vagabondo dei mari del sud (Un vagabond des Mers du sud, 1960) qui nella edizione Mursia, Milano, 1971; Mutis Alvaro, Abdul Bashur, sognatore di navi, Einaudi, Torino, 1996; Oppiano (di Cilicia) , “Halieutica”: Della pesca e della caccia, qui nella traduzione di Anton Maria Salvini (1728), ristampa anastatica della edizione Daelli e C. Editori (Milano, 1864), Bologna, Arnaldo Forni Editore, 1975; Rossi Vittorio Giuseppe, Le balene muoiono con la testa rivolta al sole in I piaceri della pesca cit.; Tarkovskij Andrej, Solaris, film del 1972; Travis William, Pescicani da vendere (Shark for sale, 1961) qui nella edizione Magenes, Milano, 2008; Van Loon Hendrik Willem, Storia della navigazione, Bompiani, Verona, 1939.

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Ninni Ravazza, giornalista e scrittore, è stato sommozzatore delle tonnare siciliane e corallaro. Ha organizzato convegni e mostre fotografiche sulla cultura del mare e i suoi protagonisti. Autore di saggi e libri sulla vita dei pescatori di tonni e di corallo, per l’Editore Magenes ha scritto: Corallari (2004); Diario di tonnara (2005 e 2019); Il sale e il sangue. Storie di uomini e tonni (2007); Il mare e lo specchio. San Vito lo Capo, memorie dal Mediterraneo (2009); Sirene di Sicilia (2010; finalista al “Premio Sanremo Mare” 2011); Il mare era bellissimo. Di uomini, barche, pesci e altre cose (2013); Il Signore delle tonnare. Nino Castiglione (2014); San Vito lo Capo e la sua Tonnara. I Diari del Secco, una lunga storia d’amore (2017); Storie di Corallari (2019). Dal libro “Diario di tonnara” è stato tratto l’omonimo film diretto da Giovanni Zoppeddu, prodotto dall’Istituto Luce Cinecittà, in selezione ufficiale alla Festa del Cinema di Roma 2018, di cui l’Autore è protagonista e voce narrante. È autore di numerosi altri studi dedicati al mare, per i quali ha vinto premi nazionali e internazionali.

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