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Miti e storie dell’Isola dei nuraghi
Posted By Comitato di Redazione On 1 settembre 2023 @ 02:01 In Cultura,Letture | No Comments
di Tatiana Cossu
Se c’è un’impresa che uno studioso, per di più se è uno storico contemporaneista, tende a rifuggire è quella di avventurarsi in un lavoro di sintesi generale della storia di una regione, di un Paese, di un’area geografica e delle genti che l’hanno abitata, inoltrandosi da solo in periodi e terreni di indagine molto lontani da quelli propri e in ambiti disciplinari, come quelli delle scienze archeologiche, in cui si adottano strumenti metodologici e di analisi in buona parte differenti. Se c’è un’impresa che un accademico considera ardita è quella di proporre una narrazione storica destinata ad un largo pubblico, una «storia popolare», che racconti le vicende di una grande isola come la Sardegna, nota per avere un passato millenario e il cui paesaggio attuale mantiene visibile l’impronta lasciata dalla preistoria e dalla protostoria (per usare due termini convenzionali introdotti dalle scienze storiche ancorate alle fonti scritte, intrisi di pregiudizi evoluzionistici e tendenzialmente evitati dall’Autore).
Ad imbarcarsi in questa impresa è Luciano Marrocu che, dopo aver raccontato la storia recente degli italiani in La sonnambula. L’Italia nel Novecento, pubblicata nel 2019 per i tipi di Laterza, si è voluto cimentare in una prova ancora più ardua, Storia popolare dei sardi e della Sardegna (Laterza, 2021): esporre, mediante uno sguardo di lungo periodo e un approccio storiografico e critico, i modi in cui nel corso del tempo le genti che hanno abitato la Sardegna, e specifici gruppi sociali, si sono rapportarti col passato elaborando in forme diverse una percezione di sé e della propria storia. Tale percezione oggi nell’immaginario collettivo dei sardi appare caratterizzarsi per «una spiccata e per certi versi irrimediabile alterità»[1].
L’autore affronta la questione unitamente all’analisi dei nessi che legano le vicende della Sardegna a quelle delle genti mediterranee e anche europee, nessi che smentiscono l’esistenza di irriducibili lontananze e di una permanente condizione di perifericità dell’Isola. Aggiornati studi sul suo passato lontano e recente contribuiscono a restituire la complessità dei fenomeni storici, sociali e culturali, consentendo di sfuggire allo schema ideologico e riduzionistico della storia di una Sardegna costantemente resistente e terra di conquista, e alle forme più o meno accentuate di determinismi, da quello ecologico a quello tecnologico [2].
L’agevole volume sulla Storia popolare dei sardi e della Sardegna si caratterizza per una scrittura scorrevole e chiara, dalla quale traspare da un lato l’abilità dell’autore nel tracciare a grandi linee i processi storici e le vicende che coinvolgono la società, dalle «élites locali» al «popolo minuto», dall’altro la sua capacità di delineare in uno sguardo da vicino il profilo e la personalità di singoli protagonisti.
Nello scandire in ordine cronologico le varie età preistoriche e storiche dell’Isola, Marrocu si sofferma soprattutto sugli ultimi cinquecento anni, cioè sull’età moderna e contemporanea. Nei primi tre capitoli, invece, racchiude un ampio arco temporale che parte dalla accertata presenza di gruppi umani lungo le coste sul finire del X millennio a.C. ‒ senza trascurare le flebili tracce di una ipotetica e discussa presenza umana in tempi più lontani ‒ fino a giungere all’età medievale, cioè al tempo dei Giudicati e della loro fine con la conquista catalano-aragonese della Sardegna nel XIV-inizi XV secolo d.C. Questa strutturazione del racconto storico è dovuta in particolare alla scelta dell’autore di mettere a fuoco criticamente soprattutto la «visione in chiave nazionale della storia sarda» e i processi di costruzione dell’identità, scelta che comporta il dispiegarsi della narrazione intorno ad alcuni periodi e temi chiave e l’incrociarsi del racconto storico con l’elaborazione nella «memoria collettiva delle vicende dell’Isola». Storia, costruzione di sensi di appartenenza e produzione di miti culturali danno luce alle varie epoche e agli sguardi contemporanei sul passato, anche quello più lontano. È questo intreccio di prospettive che, a mio parere, rende interessante e stimolante la lettura di questo lavoro.
Nei tre capitoli iniziali Marrocu concentra la sua attenzione in particolare su due periodi, l’età dei nuraghi e quella dei Giudicati, che nell’immaginario collettivo dei sardi hanno acquisito una posizione centrale, svolgendo un ruolo fondante dei quadri di riferimento del presente e di costruzione dell’identità di “popolo”.
L’età medievale dei Giudicati, infatti, sin dall’Ottocento è stata oggetto di un processo mitopoietico, che ha portato alla monumentalizzazione della figura di Eleonora, giudicessa d’Arborèa immaginata come bellissima, guerriera e saggia legislatrice, che diede ai sardi la Carta de Logu e difese con le armi la libertà della Sardegna contro gli aragonesi, fino ad assurgere «a simbolo della nazione sarda» [3]. Dobbiamo, invece, all’operazione culturale e politica compiuta nel corso del Novecento dall’archeologo Giovanni Lilliu (1914-2012), intellettuale sardo e Accademico dei Lincei, se l’età nuragica, che egli considerava come la massima rappresentazione di un tempo di libertà e di autodeterminazione, è diventata il nuovo mito delle origini della comunità sarda e l’espressione di una diversità etico-etnica della cultura sarda che sarebbe continuata fino ai giorni nostri [4].
La visione contrappresentistica [5], insita nel fare dell’età dei nuraghi una sorta di età dell’oro dell’identità dei sardi rispetto ai periodi successivi e soprattutto al presente, aiuta a comprendere alcune modalità di rielaborare la storia oggi in Sardegna, alle quali non sono del tutto aliene anche certe forme di valorizzazione del patrimonio culturale. Se, infatti, l’importante complesso nuragico di Su Nuraxi di Barumini, scavato da Lilliu, è entrato nel 1997 nella lista del Patrimonio Mondiale dell’Unesco, diventando «una delle icone più popolari dell’identità sarda», in questo terzo millennio a giocare un ruolo rilevante nell’immaginario storiografico e patrimoniale dei sardi sono i cosiddetti “Giganti di Mont’e Prama” [6]. Si tratta di alcune decine di grandi sculture in calcare, che rappresentano giovani arcieri, guerrieri e pugilatori, rinvenute in frammenti in una necropoli tardo nuragica della penisola del Sinis presso Cabras. Dopo il loro accurato restauro che ha favorito la diffusione della loro conoscenza al largo pubblico, sono divenute il luogo per eccellenza di rivendicazione di primati nella grande storia del Mediterraneo, e hanno iniziato il loro tour come “ambasciatori” della Sardegna nel mondo. Intorno a questi oggetti culturali si stanno riplasmando i modi di dare senso al passato in quest’isola, si agglutinano sentimenti identitari e di riscatto, si veicolano progetti politici e si perseguono interessi economici [7].
Si sposa felicemente con questa visione contrappresentistica dell’età dei nuraghi anche quell’ottica che Gino Satta (2021) definisce “illusione nuragica”: l’idea che tutto ciò che è sardo, per essere tale, lo debba essere fin dall’antichità più remota, o anche la diffusa credenza di una continuità di tradizioni, usi e valori dall’età nuragica ai giorni nostri. Le due prospettive sono in fondo due facce della stessa medaglia, due modi già presenti, a ben vedere, nella stessa formulazione di Lilliu della costante resistenziale e di una immaginaria diversità etico-etnica mantenuta dai sardi nel corso dei millenni. Le statue di Mont’e Prama, dopo una fase conflittuale iniziale intorno alla loro denominazione, sono state chiamate “Giganti”: un brand e una narrazione da offrire ai turisti e ai sardi, in cui la Sardegna tutta diventa l’Isola dei Giganti [8], rivelandoci le strategie di ridefinizione dell’identità entro i processi economici globali e locali [9].
Se questo è uno dei modi contemporanei dei sardi di costruire la propria identità, è possibile delineare almeno in parte la percezione che avevano i Nuragici di sé stessi? Una domanda, a dire il vero, molto semplicistica e foriera di fraintendimenti, perché con il termine civiltà nuragica oggi si indica un periodo di circa mille anni (XVIII-VIII sec. a.C.), caratterizzato da notevoli trasformazioni e cambiamenti dei modi di vivere delle genti che popolavano la Sardegna, che si distinse per le migliaia di possenti costruzioni turrite in pietra, i nuraghi, con i quali le comunità esercitavano il controllo del territorio e delle sue risorse. Le più recenti ricerche archeologiche confermano che si trattava di una civiltà dinamica con relazioni e scambi, talora anche stretti, con le opposte sponde del Mediterraneo e al di là di esso, dalle lontane coste atlantiche della Penisola Iberica fino al Levante.
A partire dal XII-XI secolo a.C. avvengono dei mutamenti significativi: non si costruiscono più nuovi nuraghi, e quelli esistenti sono in parte collassati, abbandonati o trasformati in luoghi di culto e di immagazzinamento di derrate. In questa fase tardo nuragica, pervasa da forti tensioni sociali, si avviò una riorganizzazione dei sistemi territoriali, e a svolgere una funzione catalizzatrice furono i santuari; è in questa fase che l’età dei costruttori dei nuraghi diviene storia fondante dell’identità dei gruppi e strumento di legittimazione delle élites, come si evince in particolare dalla riproduzione del nuraghe in numerosi modelli in pietra e in bronzo di varie dimensioni, in vasche-altari, su oggetti cerimoniali, navicelle e persino bottoni o amuleti [10].
Attraverso questa rappresentazione dei nuraghi si celebra l’epopea dei monumenti turriti e dei suoi costruttori, «nella quale – scrive Mauro Perra (2018) – si riconoscono come discendenti diretti degli antenati, mitici o realmente esistiti, i protagonisti dei rituali celebrati nei centri cerimoniali e nelle sale del consiglio dei villaggi». Le élites della fine dell’Età del Bronzo e della prima Età del Ferro, dunque, usavano il passato per agire nell’agone sociale e politico, per realizzare attraverso simboli condivisi una nuova coesione delle comunità, per celebrare l’appartenenza ad un alto lignaggio e rafforzarsi come gruppo egemone. Ma la riproduzione dei nuraghi sotto forma di modelli ci svela al contempo la distanza della società tardo-nuragica da quella dei grandi costruttori, mostra l’organizzazione della memoria culturale intorno ad un passato divenuto ormai “altro” e in quanto tale proiettato in una dimensione eroico-mitica. E presumibilmente proprio per tentare di celare i cambiamenti sociali e politici del presente che le nuove élites ebbero la necessità di legittimarsi mediante la rappresentazione di una continuità culturale con l’epopea dei costruttori di nuraghi.
A questa proiezione verso una dimensione epico-mitica ci rimandano anche «le oggi celebratissime statue di Mont’e Prama», come le definisce Marrocu, rinvenute insieme a diversi modelli di nuraghi in pietra di grandi dimensioni con i quali formavano un complesso scultoreo monumentale nell’area funeraria [11]. Forma di autorappresentazione di una élite e della sua rivendicata identità culturale in un periodo della civiltà nuragica instabile e attraversato da trasformazioni profonde, le statue, assurte in questo terzo millennio a “Giganti”, ci rivelano un curioso gioco di rispecchiamenti che tanto ha ancora da raccontarci e da farci riflettere riguardo ai modi di stare e di percepirsi in quest’Isola nel lontano passato e nel nostro presente.
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