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Minori stranieri e scuola: quale inte(g)razione? (*)

Posted By Comitato di Redazione On 1 gennaio 2016 @ 00:38 In Migrazioni,Società | No Comments

COPERTINA di Gabriella D’Agostino

Le “Linee guida per l’accoglienza e l’integrazione degli alunni stranieri”, emanate nel febbraio del 2014 a cura del Ministero dell’Istruzione, dell’Università, della Ricerca, pongono l’educazione interculturale come: «lo sfondo da cui prende avvio la specificità di percorsi formativi rivolti ad alunni stranieri, nel contesto di attività che devono connotare l’azione educativa nei confronti di tutti. La scuola – recita il documento – è infatti un luogo centrale per la costruzione e condivisione di regole comuni, in quanto può agire attivando una pratica di vita quotidiana che si richiami al rispetto delle forme democratiche di convivenza e, soprattutto, può trasmettere i saperi indispensabili alla formazione della cittadinanza attiva». Scrive ancora il documento: «l’educazione interculturale rifiuta sia la logica dell’assimilazione, sia quella di una convivenza tra comunità etniche chiuse ed è orientata a favorire il confronto, il dialogo, il reciproco riconoscimento e arricchimento delle persone nel rispetto delle diverse identità e appartenenze e delle pluralità di esperienze spesso multidimensionali di ciascuno, italiano e non».

Il dizionario Garzanti della lingua italiana, alla voce “integrare”, al punto 1, recita: «completare aggiungendo ciò che manca o che serve a migliorare o ad arricchire»; al punto 2 si legge: «inserire una persona o una cosa in un ambiente o in una struttura in modo che cooperi all’attività complessiva» (l’esempio che il dizionario propone recita: integrare gli handicappati nel mondo del lavoro).

Alla voce “integrazione”, lo stesso dizionario, recita: 1. «disponibilità degli individui di una società a coordinare le proprie azioni mantenendo a un livello tollerabile i conflitti»; 2. «annessione di un territorio da parte di uno Stato che ne diventa sovrano». Alla voce “integrato”, il primo significato recita: «nei significati del verbo», portando come esempio esercito integrato. Nella forma sostantivata, al punto 2, infine, la voce recita: «persona che si è inserita perfettamente in un ambiente di cui prima non faceva o non voleva fare parte»; poi, nel significato spregiativo, “integrato” fa riferimento a «persona che aderisce in modo totale a un ambiente sociale, che si identifica in modo passivo con un modello culturale, un comportamento e simili».

Generalmente il significato 1 del verbo («completare aggiungendo ciò che manca o che serve a migliorare o ad arricchire»), alla base probabilmente dell’idea di integrazione che tutti più o meno condividiamo, tuttavia non credo sia il significato prevalente e di dominio comune. L’idea di integrazione, piuttosto, mi pare che sottenda quella di un “tutto”, di un “insieme” compatto, solidale, autonomo, cui viene inserito “qualcosa” dall’esterno, lasciandosi guidare da una “filosofia”, o se preferite da una “logica”, tale per cui questo “qualcosa” deve trovar posto senza scomporre, o dis-ordinare, l’ordine su cui quel “tutto” si fonda e di cui si sostanzia.

Nell’idea di inte(g)razione che invece vorrei suggerire, il processo è immaginato come caratterizzato da uno scambio continuo tra un tutto e le parti di cui esso si compone, anche quelle che vi devono essere “integrate”, una relazione tale per cui il tutto non trova mai un assetto stabile e definitivo ma è continuamente modificato dalle parti che interagiscono appunto tra loro. L’interazione, invece della integrazione, vuole rimandare, pertanto, a un processo, dinamico, che trova proprio in questa dimensione dinamica il proprio equilibrio instabile, spingendo gli attori sociali implicati a stare sempre all’erta. Credo che di questa accezione si debba tener conto in modo particolare quando abbiamo a che fare con questioni che riguardano la scuola e l’istruzione.

In prima battuta, non credo si possa non essere d’accordo con quanto espresso nel brano tratto dalle Linee guida ministeriali letto in apertura. Tuttavia, mi chiedo perché l’educazione interculturale debba essere «lo sfondo da cui prende avvio la specificità di percorsi formativi rivolti ad alunni stranieri»? Perché, cioè, essa non deve essere lo sfondo per l’azione e la dimensione educative tout court? Perché deve essere pensata come specificità di percorsi formativi rivolti ad alunni stranieri, e non piuttosto lo sfondo per mettere in prospettiva saperi, dunque enfatizzando un aspetto essenziale della formazione, quello di addestrare, oltre che a contenuti disciplinari, anche (o soprattutto) all’esercizio del dialogo, della capacità di ascolto, dello spirito critico, che possono essere coltivati solo se i saperi non vengono somministrati in forma dogmatica ma mettendoli in prospettiva appunto, insegnando a cercare risposte diverse a problemi comuni? Chiarirò tra breve meglio il mio pensiero.

FOTO1Lo stesso documento prima citato, poco dopo fa riferimento alle Indicazioni nazionali per il curricolo della scuola dell’infanzia e del primo ciclo d’istruzione, del novembre del 2012, in cui la scelta dell’educazione interculturale è confermata. Qui si legge: «Una molteplicità di lingue e culture sono entrate nella scuola (sic!). L’intercultura è già oggi il modello che permette a tutti i bambini e ragazzi il riconoscimento reciproco e dell’identità di ciascuno. A centocinquanta anni dall’Unità, l’Italiano è diventata la lingua comune di chi nasce e cresce in Italia…». La questione della lingua la lascio ai linguisti. Per parte mia, mi limito a rilevare che ci sarebbe quanto meno da sollevare il problema della cittadinanza almeno per quelle persone che nascono in Italia, ma questo ci porterebbe lontano. La questione invece su cui voglio insistere riguarda il fatto che considerare i bambini o i ragazzi (e le bambine e le ragazze) che non hanno la cittadinanza italiana come rappresentanti di determinate culture, al punto che a entrare nelle scuole è stata, come recita il documento, «una molteplicità di lingue e culture», non è solo un artificio retorico che si serve di espressioni metaforiche, di cui è chiaro il senso, ma piuttosto l’espressione di come talvolta è stata intesa proprio quanto chiamiamo ‘intercultura’. Significa cioè correre il rischio di reificare, ipostatizzare una dimensione, certo essenziale, dell’esserci nel mondo, che tuttavia è dinamica, relazionale, situazionale.

In altri termini, la cultura non è una cosa, nessuno di noi è di cultura italiana, francese o ivoriana finché qualcun altro non ce lo segnala. Intendo dire che è nella concreta prassi che può essere rilevante stabilire la cosiddetta “cultura d’appartenenza”, ma se diventa rilevante stabilirlo allora bisogna indagare con attenzione le ragioni per cui si ritiene rilevante. Ed è al livello ideologico che si originano eventualmente le ragioni di questo cosiddetto “tratto identitario”. Si tratta cioè di una delle possibili declinazioni del processo di categorizzazione sociale, che proprio perché sociale non è mai neutro.

Detto più chiaramente: io non credo che fare ‘intercultura’ significhi fare riferimento a fiabe, costumi, tradizioni, credenze, usi alimentari “esotici”, “stranieri” perché in aula c’è un “rappresentante” “esotico” o “straniero”. Da insegnante ritengo di avere il dovere di mostrare che esistono altre visioni e concezioni del mondo e della vita, prima e a prescindere dalla presenza di presunti rappresentanti in carne e ossa di queste diverse visioni e concezioni del mondo e della vita. Solo così possiamo andare nella direzione di un’idea di cittadinanza attiva, del perseguimento dei valori democratici, del confronto, del dialogo, del «reciproco riconoscimento e arricchimento delle persone nel rispetto delle diverse identità e appartenenze e delle pluralità di esperienze» da cui ogni individuo è caratterizzato, straniero o non straniero.

Pur con le migliori motivazioni possibili, invece, a quel tipo di attitudine di cui dicevo prima, è sottesa una visione del mondo “a mosaico”, in cui ogni tessera rappresenta appunto una cultura diversa, salvo poi ad adoperarsi per far passare l’idea che un antidoto al razzismo (anche nella forma più blanda dell’etnocentrismo) consista nel dire che “siamo tutti uguali”. Perché questa forma di ecumenismo, o non aiuta a comprendere la realtà perché non è vero che siamo tutti uguali (e non è una questione di essere stranieri o italiani, ma è una questione che riguarda l’individualità delle persone in quanto tali), oppure tende a legittimare l’altro solo perché è simile a noi (e anche in questo caso non fa un buon servizio per la comprensione della realtà nelle sue concrete dinamiche).

Foto 2Marco Aime, in un agile e interessante libretto dal titolo Eccessi di culture, che dovrebbe entrare nei programmi di formazione degli insegnanti delle scuole di ogni ordine e grado, racconta un aneddoto. Si tratta di un fatto accaduto a Torino nel quartiere di San Salvario, caratterizzato da una forte presenza di immigrati. In una scuola materna di questo quartiere, frequentata da molti bambini ‘maghrebini’, le maestre un giorno hanno deciso di preparare il couscous. Hanno cercato la ricetta “originale” per cucinarlo secondo la “tradizione” (ho messo le virgolette a “maghrebini”, “originale”, “tradizione”, vedremo tra un attimo perché). I bambini erano contenti e hanno mangiato il couscous preparato dalle maestre. Poi una maestra ha chiesto a uno dei bambini figlio di genitori marocchini: “Ti piace”, – “Sì”; “È come quello che fa la tua mamma?”, – “No, quello che fa la mia mamma è più buono” “Perché? Come lo fa?”, – “La mia mamma ci mette uno strato di couscous e uno strato di tortellini, uno strato di couscous e uno di tortellini…” (Aime 2004: 136). Questo esempio mi sembra efficace per comunicare il contributo che, da antropologa, posso dare al tema di oggi, perché la risposta del bambino è una bellissima metafora di cosa si debba intendere con cultura.

Altri due esempi, tratti da Aime, mi aiuteranno, più di tanta teoria, ad arrivare a comunicare in modo più diretto il mio pensiero. Il primo si riferisce alle parole di un leader di un gruppo politico della Nuova Caledonia (Oceania), il suo nome è Jean-Marie Tjibaou. Ha scritto: «Il ritorno alla tradizione è un mito […]. Nessun popolo lo ha mai vissuto. Per me – scrive Tjibaou – la ricerca d’identità e del modello è davanti, e mai dietro. E direi che la nostra lotta attuale è finalizzata a poter mettere il maggior numero possibile di elementi appartenenti al nostro passato, alla nostra cultura, nella nostra costruzione del modello d’uomo e di società che vogliamo per la costruzione della nostra polis. La nostra identità è davanti a noi» (Aime 2004: 135). Gli fa eco, in un certo senso, un poeta africano, Amadou Hampaté Ba, che scrive: «La tradizione è come un albero, c’è il tronco ma ci sono anche i rami. Un albero senza rami non può dare ombra. È per questo che occorre che le tradizioni stesse sfrondino i rami che muoiono. Io sono contro la conservazione cieca delle tradizioni come sono contro la loro negazione totale» (ibidem).

Le culture dunque sono organismi viventi e in quanto tali cambiano, si modificano, si adattano, si ambientano. Non sono pietre ma come le pietre, ci ricorda Aime, non fanno male finché non vengono scagliate contro qualcuno. Scrive ancora Marco Aime: «A incontrarsi e scontrarsi non sono culture, ma persone. Se pensate come un dato assoluto, le culture divengono un recinto invalicabile, che alimenta nuove forme di razzismo. Ogni identità è fatta di memoria e oblio. Più che nel passato va cercata nel suo costante divenire».

Mara Benadusi ha pubblicato nel 2012 un bel lavoro su Governance dell’accoglienza e pratiche locali di integrazione educativa, risultato di una ricerca di etnografia dell’educazione condotta, una decina d’anni prima, presso una scuola di Roma, durata un anno, seguendo l’attività di alcune classi, partecipando agli organi collegiali, parlando con gli insegnanti, con gli alunni, partecipando a ogni tipo di attività connessa al tema della sua ricerca. Suggerirei la lettura di questo lavoro agli insegnanti, in servizio e in formazione.

È l’interazione tra diverse individualità che la scuola dovrebbe perseguire, con percorsi attenti alle diverse sensibilità, potenzialità, competenze che caratterizzano ciascun soggetto. Ognuno di noi avrà fatto esperienza diretta o indiretta della refrattarietà mostrata a volte dai bambini o dai ragazzi a lasciarsi incanalare in un percorso di cosiddetta educazione interculturale (o di “socializzazione all’intercultura”) di tipo canonico. Soprattutto proprio da parte di quei bambini a partire da cui il percorso viene avviato e intorno a cui si incentra (c’è in classe un bambino “cinese”, parliamo della “cultura cinese”!). Alcuni esempi, che traggo dal libro di Benadusi, vanno appunto nella direzione che stiamo discutendo.

FOTO3Benadusi racconta, a un certo punto, che una delle maestre, la maestra Elvira, un giorno aveva dedicato la sua lezione alla traduzione di alcune parole italiane nelle lingue parlate dagli alunni stranieri (spagnolo per un bambino colombiano, albanese, francese, romanì). Conclusa l’ora, era entrata in classe la maestra di matematica che aveva trovato i bambini molto “su di giri”; continuavano a fare battute e a inventare parole, chiedendo poi in coro “che lingua è?” e scoppiando a ridere. Tra questi il più divertito era Mikich, un bambino di un campo rom, che continuava ad andare tra i banchi dicendo: “Va biiine, va biiine”. La maestra di matematica, incuriosita, non capisce che Mikich sta giocando, si fa ripetere la frase e chiede a Mikich cosa significhi. Mikich risponde: “nella mia lingua si dice così”, e aggiunge “in rumeno si dice in un altro modo”, inventa una parola e poi scoppia a ridere. A questo punto, la maestra si rende conto della situazione e chiede a Mikich: “ma tu che hai nel cervello?”. E Mikich risponde pronto: “Che vado a giocare a pallone con Marco e Mattia, che riempio Claudia di bacetti, mille bacetti ogni dieci minuti”.

Un altro esempio, tratto da questa stessa ricerca, riguarda una bambina arrivata dal Bangladesh. Il comportamento schivo e taciturno veniva spiegato dalle insegnanti in modo diverso: una faceva riferimento alla discontinuità linguistica («la bambina non parla perché essendo straniera, non conosce l’italiano»); un’altra maestra faceva riferimento alle dinamiche comunicative («la bambina non parla perché il contesto comunicativo della classe – così diverso da quello familiare di provenienza – le è estraneo»); un’altra ancora dava una spiegazione di tipo culturale («la bambina non parla perché proviene da una cultura dove si apprezzano qualità caratteriali quali la riservatezza, il pudore, il distacco»). In tutti e tre i casi, tuttavia, viene chiamata in causa, in primo luogo, la sua condizione di “straniera”, dunque la sua “cultura di appartenenza” (lingua, contesto-classe, educazione).

C’è anche il caso di Pauline, figlia di madre filippina e di padre egiziano, arrivata in Italia a cinque anni dopo un breve soggiorno in Libia. La piccola alunna in III elementare sembrava mostrare difficoltà riguardo alle attività didattiche, ma non ne aveva in situazioni di gioco e di socialità informale con le compagne. Ignazio, uno dei maestri di Pauline, insegnava storia e geografia e prediligeva volentieri una chiave interculturale. Aveva lasciato ai bambini come compito per casa di raccontare la storia della loro vita, con l’aiuto dei genitori che avrebbero dovuto dare ai bambini le informazioni per organizzare la narrazione. Il compito non aveva dato gli esiti sperati dal maestro. Ecco come Benadusi descrive il momento in cui il maestro Ignazio chiede ai bambini di raccontare la loro vita in classe. In particolare, rivolgendosi a Pauline, le chiede: “com’eri da piccola?”. Pauline sembra spaesata – commenta Benadusi – come se cercasse di capire qual è la risposta migliore da dare, quella giusta insomma. Il maestro le chiede: “Non ti è successo niente di importante in questi anni?”, “Quando sei arrivata in Italia?”. Pauline balbetta qualcosa e il maestro: “Non inventare, se non ti ricordi puoi dirlo”. “Mamma ti ha detto quando hai cominciato a camminare?”, “Sì, a cinque anni”, risponde la bambina. “A cinque anni? Hai cominciato a camminare quando sei arrivata in Italia?”. La bambina risponde affermativamente e continua a dire sì anche quando un suo compagno le fa notare che è una cosa assurda. Pauline allora comincia a inventare, a dire di non sapere ancora camminare bene, di non saper fare le scale. E il maestro: “Ma quando andiamo a mensa, le scale le fai! O no?”, poi aggiunge che i bambini con qualche malattia non sanno camminare a cinque, e le chiede: “Hai avuto qualche malattia tu?”. Pauline dice di sì ma ha un’espressione furbetta, di chi ha deciso di difendere fino alla fine la sua prima risposta. “Hai cominciato a camminare a cinque anni?”. “Sì, perché ho fatto una festa in Libia, abbiamo mangiato dei dolci e mi hanno regalato un trenino”. A questo punto, scrive Benadusi, «il maestro mette fine al dialogo, dicendo: Va bene, bambini, come vedete, le fonti orali possono a volte non essere attendibili» (Benadusi 2012: 197-198).

FOTO4In un altro studio etnografico condotto nella provincia di Cremona (2007), citato da Benadusi, l’autrice, Francesca Galloni descrive così il desiderio degli studenti di origine straniera di essere considerati “come tutti gli altri”. Questo desiderio induce nei giovani sikh studiati da Galloni atteggiamenti di vergogna quando sono chiamati a far riferimento alle proprie origini a scuola. Imparando a conoscere la nuova realtà scolastica attraverso gli occhi dei compagni italiani, i ragazzi sikh finiscono per adottare strategie di mimetizzazione che permettono loro di confondersi nel gruppo classe. Imparano così, se necessario, anche a sdrammatizzare, a fare ironia rispetto alla “cultura di appartenenza” o anche a scegliere l’insulto scherzoso verso il paese da cui provengono, come strategia di occultamento. Scrive la Galloni: «Il rifiuto di passare sopra le proprie origini (o solo di farle intuire), il difendersi davanti alle curiosità altrui con dei ‘non so’» non è tanto una questione che ha a che fare con l’insicurezza circa le proprie origini. Forse, in quella situazione, la cosa che conta è essere considerati appunto come gli altri, ragazzi e basta.

Che dire, in conclusione, lasciando aperte tutta una serie di questioni? Solo un avvertimento: prendere in considerazione la possibilità che la com-presenza di “culture diverse” a scuola potrebbe non essere affatto un problema, e piuttosto considerare la possibilità che il problema sia costituito dalla cultura (questa volta sì!) che considera certe situazioni come problematiche. Sarebbe forse il caso, in altri termini, di far scrivere a coloro che sono i destinatari dei nostri insegnamenti, le linee guida per l’accoglienza e l’inte(g)razione, non solo degli alunni stranieri, ma degli alunni tout court, o di osservare (in modo antropologicamente pertinente) come gli alunni mettono in atto strategie e comportamenti riconducibili all’accoglienza e alla interazione. D’altro canto, quel documento che abbiamo letto all’inizio di questo mio intervento, a pag. 1 recita: «i minori stranieri, come quelli italiani, sono innanzitutto persone, e in quanto tali, titolari di diritti e doveri che prescindono dalla loro origine nazionale». Allora ripartiamo da qui.

Dialoghi Mediterranei, n.17, gennaio 2016
 (*) Questo testo è stato letto in occasione della giornata di studi sul tema “Il diritto all’istruzione del minore straniero. Un percorso tra aspetti socio-culturali e giuridici” organizzata a Palermo (Palazzo delle Aquile, 13 maggio 2014), nell’ambito dell’Attività di formazione promossa dalla rete “Verso una scuola amica dell’Unicef” (aa.ss. 2012/13, 2013/14).
Riferimenti bibliografici
M. Aime, Eccessi di culture, Torino, Einaudi 2004.
M. Benadusi, Il segreto di Cybernella. Governance dell’accoglienza e pratiche locali di integrazione educativa, Enna, Euno Edizioni, 2012.

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 Gabriella D’Agostino, docente di Antropologia culturale nell’Università di Palermo, è direttore responsabile del semestrale di scienze umane, Archivio Antropologico Mediterraneo, e direttore scientifico della rassegna cinematografica, Sole Luna. Un ponte tra le culture. Ha pubblicato con Sellerio, Da vicino e da lontano. Uomini e cose di Sicilia (2002), con Flaccovio, Forme del tempo. Introduzione a un immaginario popolare (2008). Tra i suoi lavori più recenti: Histories de vie, témoignages, autobiographies de terrain, con M. Kilani e S. Montes (Lit Verlag, 2010), la curatela dell’edizione italiana del libro di T. Todorov, Una vita da passatore. Conversazione con C. Portevin (Sellerio 2010), Altre storie. Memoria dell’Italia in Eritrea (Archetipolibri 2012). Ha curato, con Vincenzo Matera, l’edizione italiana di R. H. Robbins, Antropologia. Un approccio per problemi (Utet Università 2009, II ed. rivista 2015).
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