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Michele dal sorriso argentino

copertina di  Nino Giaramidaro

Sì, Michele, Michele Argentino, dava del lei all’Analisi matematica. Non aveva cuore di aggrovigliarsi fra derivate e integrali, e il calcolo differenziale gli provocava lo stesso dolore di quello renale. Marchingegni. Estranei a una personalità affascinata dal bello, dalla semplicità del dire anche senza prudenza, a volte con tutta la perfidia che provoca l’impossibile rinunzia alla verità.

Da ragazzo mancava del “lato oscuro” che un po’ tutti offuschiamo, e da grande, saltellando fra il suo lavoro di amministrazione di un Dipartimento universitario e quello di professore affascinante, non era riuscito a conquistarselo. Forse gli sarebbe servito, ma lui, Michele, come un uomo senza ombra, andava avanti, anche nelle tane dei lupi, intemerato e sorridente: di quel suo sorriso di allegria da partecipare, che “accelerava” quando si mischiava all’autoironia degli intelligenti.

È difficile parlare di Michele, più grato ricordarselo: lungo la via Maqueda con un malloppo di libri Feltrinelli nel sacchetto, la sigaretta in bocca, e il suo andare fra rapido e bighellone; in salita nella via del Parlamento con la camicia di seta indossata nel negozio dell’acquisto, verso «Mommino, cuoco sopraffino, servizio a puntino, prezzi a mercatino».

Verso i suoi cinquant’anni – e i miei di più – decidemmo di frequentare mostre, conferenze, convegni e “installazioni”. Ci provammo con caparbietà. Ma non riuscivamo mai ad avvicinarci ad una sola tartina, un tramezzino di quelli lasciati. L’unico conforto allo scoramento subìto era un mezzo bicchiere di vino rosso, nel bicchiere di plastica, che, a stomaco vuoto, ci survoltava pericolosamente. Scappavamo per evitare di imbatterci in discussioni profumate di tannino.

1Michele ArgentinoCi rifugiavamo al bar Spinnato per una “scorsonera” oppure un Campari soda. Noi, quasi antichi titolari delle sedie del bar Sardo – piazza Mokarta di Mazara – con don Vito che, dopo il clangore della chiusura che proveniva da Pino “Bombolone” verso le due di notte, frettoloso ci diceva: «Picciotti, mi raccumannu li seggi».

Era leggero, sì, Michele metteva a dura prova il suo “lato chiaro”: quando rompeva con una ragazza, restava suo amico, contraccambiato. Con mia meraviglia: per elaborare la separazione io ci mettevo mesi e mesi torbidi, sino a perdere di vista la ex fiamma che mi aveva scottato. Credo che lui smorfiasse “La vita è sogno” con la vita è gioco, rendendo sorridente anche Calderon de la Barca. Non ho mai avuto notizia di un suo litigio. Riusciva con una battuta affilata a disarmare chiunque. Così come disarmava se stesso.

Un suo parente sacerdote portò lui ragazzo a pranzo in un ristorante. Alla frutta scelsero le pesche, allora pregiate, si vedevano col binocolo. Il prete tentò senza prudenza di colpire di coltello il frutto, ma la pesca schizzò dal piatto e rotolò a terra. Michele si girò per seguirne l’andazzo, ma quando tornò a guardare nel suo piatto lo vide vuoto, guardò il parente e si sentì dire: «Michele, con garbo, vedi cosa succede quando si è precipitosi?». Morale di Michele: scherzo da prete. Raccontava l’episodio sorridendo e con la convinzione che fosse stato giusto che l’anziano sacerdote avesse fatto ricadere la brutta figura su di lui, che era un ragazzo.

Si affollano i ricordi, gli uni sopra gli altri, madidi di un sentimento di angoscia puntuta: la mancanza di qualcosa di personale, dei ragionamenti alla cui fine avevo sempre l’impressione di avere rubato un altro pezzettino al me stesso pigro; il piacere di pensare in direzioni molteplici senza avvertire il greve senso del tempo perduto.

 Michele Argentino (foto E.Scaccio)

Michele Argentino (foto E.Scaccio)

Provo – ho sempre provato – un senso di malessere fisico alla fine di conversazioni inutili, mi atterrisce il dialogo con proprietari del luogo comune, delle idee dominanti, con coloro che sono muniti di tutti i grimaldelli per sfondare porte aperte. Posso solo ringraziarli di farmi ricordare Michele, darmi la percezione di una sua presenza esoterica che mi dà la forza di dire basta, di allontanarmi dalle voci inutili, dalle idiozie da bar, dagli idiomi inafferrabili e senza grammatica. Un prezioso regalo fattomi da questo amico di decenni, tedoforo della parola salvata, sempre in possesso di qualche idea, sempre stimolante, faticosa, bella, pure se riguardava una scelta minima.

Insieme ci arrampicavamo sulle montagne alla ricerca di testimonianze arabo-normanne, scorrazzavamo per librerie, ci infangavamo sino ai malleoli per trovare verdure e i funghi dei quali lui era pericoloso conoscitore. Sedevamo al primo banco di aule universitarie perché c’erano lezioni divertenti, come quelle di matematica del professore Miranda che risolveva i misteri delle rette e dell’infinito dicendo che «così il marchingegno ha voluto».

Sin da ragazzo, Michele aveva una possibilità illimitata di amicizia: tra i pescatori di Mazara del Vallo, fra gli accademici, sino ad Ettore Sottsass, con gli studenti greci degli anni Settanta, incurante che in mezzo a loro ci fossero diversi “ascoltatori” per conto dei colonnelli. Ma la sua natura fatta di timidezza e coraggio lo avventurava in qualsiasi ambiente con qualunque persona. E credo che a chiunque lasciasse un po’ del suo stile, l’eleganza del sapere e dell’intelligenza.

3. Michele Argentino e Philippe Daverio

Michele Argentino e Philippe Daverio

Capitavano riunioni di asciutti lavoratori silenziosi, esperti custodi della cultura materiale con le mani che si muovevano in arabeschi, mirabili torsioni e movimenti come di balletti, raffinati utilizzatori della parola, usufruttuari di delicate vite segnate, scettici melanconici, fuori di testa, partigiani al limite delle idee. Guazzabugli di età trasversale che trovavano in lui, il Michele dal sorriso argentino, un minimo comune denominatore che trasformava tutte quelle fazioni in equivalenze umane e solidali.

Tante amicizie, a lui dovute, continuano in un moto perpetuo senza l’aggressione dello scopo, dell’interesse: nude e crude, belle, probabilmente indistruttibili. Così come perdura l’affetto delle tante generazioni di studenti, siciliani, italiani, americani, mediorientali ai quali il “professore” non ha insegnato soltanto a disegnare il comò.

Forse, tra le millanta adagi e detti e parabole che aleggiano su di noi da voci lontane e sempre più flebili, qualche piccola verità la troviamo: «Dimmi con chi vai e ti dirò chi sei». Sì, insieme ci si scambia qualcosa, una corrente di particelle, gocce di se stessi che fanno zoppicare se l’amico è zoppo.

Ora, rimane l’affetto per Mariella e per i quattro figli. Tutti diversi dal padre, e tutti diversi fra di loro. Ma quando sorridono, sembra di rivedere Michele che si infila dentro un’altra briciola di futuro.

Dialoghi Mediterranei, n.12, marzo 2015

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Nino Giaramidaro, giornalista prima a L’Ora poi al Giornale di Sicilia – nel quale, per oltre dieci anni, ha fatto il capocronista, ha scritto i corsivi e curato le terze pagine – è anche un attento fotografo documentarista. Ha pubblicato diversi libri fotografici ed è responsabile della Galleria visuale della Libreria del Mare di Palermo. Recentemente ha esposto una selezione delle sue fotografie degli anni sessanta in una mostra dal titolo “Alla rinfusa”.

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5 risposte a Michele dal sorriso argentino

  1. emanuele scrive:

    splendido sorriso
    splendida persona
    fortunato di averlo incontrato, frequentato e conosciuto
    a michele

  2. Rita scrive:

    Grande uomo inimitabile professore. Capace di vedere oltre, semplice, concreto, sorridente. Grata e felice di averlo conosciuto ed essere stata sua allieva. Un grande maestro.

  3. Mario Tumbiolo scrive:

    un vero amico, una vera persona. un vero architetto

  4. Giuseppe scrive:

    Oggi mi hai fatto un bel regalo.. mi hai fatto rivedere il mio maestro e amico Michele! Bravo e Grazie Nino, di cuore

  5. nuccio caro' scrive:

    le parole non servono a ricordare una persona eccezionale che per me era un punto di riferimento incolmabile.

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