A Tonara non tutti si sono dimenticati di Maria Patta, pur essendo trascorsi più di quarant’anni da quando nel 1979 Clara Gallini l’ha intervistata. Nel settembre 2020 una sua figlioccia, dialogando in un Pubblic Group di Facebook (Tonara e Tonaresos), ha postato alcuni ricordi affettuosi: «Intervista a Maria, l’ho riletto da poco. Maria per me era nonna Patta, la mia madrina di battesimo. La mia seconda mamma. Leggendo il libro, sento le sue parole. Quanta nostalgia e quante cose mi ha raccontato. Abitava a Toneri la prima casa scendendo da Cracalasi. Aveva uno zio a Cagliari. Io con lei sono andata tante volte a Cagliari da bambina, ero sempre con lei [...] Nel ‘72 mi sono sposata, lei è venuta in costume al mio matrimonio (sott. a Milano). [...] Potrei raccontare tante cose di nonna Patta, una donna saggia ma ferma di carattere [...]. Mi pare fosse nata a giugno, leggeva tanto e poi d’inverno ci raccontava i romanzi che leggeva».
1. L’autonomia decisionale delle donne in Sardegna [1]
Molte dell’energie intellettuali e creative di Clara Gallini sono state spese nello studio delle zone interne della Sardegna. Intervista a Maria (1981, 2003) è la sua ultima ricerca sul campo (Talamonti, 2018: 18) [2]. Non l’ultima pubblicazione dedicata alla Sardegna. Nel 1988 infatti riprende in mano I rituali dell’argia (1967) e ne cura un’edizione completamente diversa, più riflessiva e teorica, e con un titolo accattivante La ballerina variopinta. Una festa di guarigione in Sardegna (1988).
Donna «bizzarra», fu definita da qualcuno, come rivela lei stessa nella Prefazione alla pubblicazione delle lettere che le aveva spedito il suo amico Marc Soriano, anche lui persona «bizzarra», secondo comuni amici. E lei accettò questo ambiguo giudizio rigirandolo semanticamente a vantaggio suo e di Soriano: «Ma bizzarri rispetto a che? In entrambi era forse un ricerca di libertà – nelle opere e nel pensiero, nella vita e nella morte – [...]. E a quei tempi non mi rendevo ancora conto che la parola “libertà” raggiunge il suo senso più pieno solo se le aggiungi il termine “con”, se cioè vedi che solo il rapporto con altri è la condizione perché tu raggiunga quella libertà, che avrei chiamato “autonomia decisionale”» (Gallini, 2017: 44).
La nozione di autonomia decisionale è centrale nel pensiero di Clara come chiave di lettura della condizione e della soggettività delle donne in Sardegna, specie nelle zone interne pastorali. È stata preziosa per me, sempre avversa ai matriarcati inventati, utilizzati dal senso comune spesso ingenuamente, per rimarcare una specialità sarda, anche della condizione femminile, specialità che c’era, ma che avrebbe dovuto essere descritta (almeno dagli intellettuali) con altro linguaggio, con altre categorie e anche con dati di fatto meno superficiali e non entro un quadro arcaico alla Bachofen (Da Re, 1990, 2005, 2008).
In Sardegna Clara Gallini ha incontrato molte donne, sue principali interlocutrici durante la ricerca sul campo: «La donna è la grande protagonista della novena: è in genere lei ad assumere l’iniziativa, spesso trascinando con sé un maschio riluttante o comunque passivo. [...] Il novenario non è solo una forma di “evasione”, ma il riconoscimento sociale di tutto un settore di autonomie femminili. Queste autonomie si realizzavano – e solo in parte si realizzano tuttora – entro due ambiti: quello delle attività domestiche e quello delle pratiche magico-religiose» (Gallini, 1971: 92). Durante le novene, importante «istituto tradizionale di socializzazione» (ibid.), la libertà delle donne era condizionata. E tuttavia esse si muovono in un ambito sociale extradomestico, interfamiliare e interlocale, pubblico. E pubblico diventa anche il riconoscimento delle loro capacità di fare e di organizzarsi in autonomia insieme ad altre donne.
Sia ne Il consumo del sacro che in Dono e malocchio Gallini dedica un paragrafo a questo tema. La differenza di ruoli sessuali nelle feste e nella sfera cerimoniale è correlata alla divisione sessuale nell’ambito della produzione. Gallini ribadisce più volte questo concetto entro un quadro interpretativo marxista. Tale correlazione non significa, come si è visto nei novenari, determinazione. Le donne durante le novene svolgono compiti e lavori considerati femminili. Più o meno sono lavori di tipo domestico, ma il terreno di gioco è pubblico e non più privato. I fruitori dei cibi, del lavoro di preparazione dei santi, della chiesa, della processione con fiori, tovaglie, ricami, tutto ben lavato e stirato, sono altre famiglie, altri parentadi, talvolta altri paesi. La ricerca di Gallini dunque era già matura per affrontare il pieno dispiegarsi del pensiero di una donna, come Maria Patta, dotata di una straordinaria intelligenza critica, ed in grado di esplicitarla nel discorso.
Per svolgere la sua ultima ricerca sul campo, Clara Gallini ha scelto Tonara sia perché conosceva Maria Patta, sia per alcune peculiarità del paese rispetto ad altri del centro della Sardegna. È pesante il giudizio che Gallini esprime ne Il consumo del sacro (1971: 9) sul dopoguerra sardo e sulla Rinascita: «Sardegna, isola in sfacelo, mondo arcaico che crolla, vecchie strutture inutilizzabili, fatiscenti ed amare, che si afflosciano, ormai senza lode, al richiamo del “benessere” continentale». Tonara risente di questa trasformazione in senso consumistico, senza sviluppo reale. Tuttavia, scrive Clara in Dopo l’intervista, che funge da postfazione (93-118) a Intervista a Maria:
«Tonara è un villaggio che ancora non si arrende, forse per una certa capacità di autonomia dei suoi abitanti, per generazioni abituati a gestirsi responsabilmente, le donne rimaste sole in casa, gli uomini assenti per lunghi mesi, in campagna con le greggi o in viaggio (magari anche con le loro mogli) a commerciare torroni e campanacci. Ha una tradizione di lotte politiche e sociali, ha risposto “no” al referendum per il divorzio, ha un’amministrazione di sinistra» (93).
La correlazione tra la struttura socio-economica e la relativa resistenza di Tonara alle trasformazioni in corso è, a mio avviso, abbastanza fragile e non viene approfondita [3]. Ma questo paese è per Clara il luogo giusto per raccogliere dalla voce di Maria, che ricorda e osserva la complessa convivenza e il denso intreccio tra il vecchio e il nuovo.
3. Dare voce, nel senso letterale della parola, al punto di vista di Maria
Intervista a Maria nasce come trasmissione radiofonica. L’intervista, registrata a Tonara tra il 2 e il 6 ottobre 1979, era stata commissionata a Clara Gallini da Rai 3, che le aveva affidato la cura di alcune puntate della trasmissione radiofonica “Noi, voi, loro. Donna”, curata e condotta dalla giornalista Licia Conte tra il 1978 al 1982 nel momento più alto del movimento femminista.
Lo scopo di Clara è preciso e circonstanziato: dare voce al punto di vista di Maria sulle «trasformazioni della donna nella società che la circonda» (9). Questo l’obiettivo generale relativo al piccolo universo di Tonara. Il tema del mutamento era già fortemente presente ne Il consumo del sacro. Feste lunghe di Sardegna (1971), di cui Intervista a Maria sembra essere una sorta di continuazione, almeno da punto di vista teorico. Tutto il libro sui novenari è infatti regolato – come afferma Benedetto Caltagirone – «sul registro del confronto tra passato e presente» (2018: 5, inedito). Anche l’intervista ha questa stessa impostazione. Ed è stata proprio Maria, secondo quanto affermato da Clara (96), ad avergliela suggerita nel corso di colloqui informali svoltisi in un largo arco di tempo. Proprio per valorizzare la soggettività della sua interlocutrice, Clara colloca, al primo punto, la biografia di Maria entro il suo piccolo universo.
Come vedremo, dalle esperienze personali e dall’acuta sensibilità che ne è derivata, prende corpo la visione della condizione femminile molto precisa e critica di Maria. Non sempre i giudizi delle due donne coincidono, ovviamente: diverso l’ambiente di appartenenza, diverse le storie personali, diverse le professioni, un’intellettuale e una contadina. «Non sempre» dice Clara: il che significa che entrambe erano in grado di esprimere giudizi confrontabili tra loro e che il loro colloquio non era di quelli dove una impara dall’altra, ma entrambe si confrontavano alla pari rimanendo ciascuna del proprio parere. Clara tiene molto a sottolineare questo rapporto nella fase della registrazione e del colloquio reale, che è già, come dicevo, una messa in ordine di idee, esperienze e giudizi in parte noti a Clara; ora destinati alla pubblicazione e alla diffusione di massa attraverso la radio [4].
Maria, nata nel 1910 e morta nel 2000, appartiene ad una numerosa famiglia di agricoltori ed è cresciuta senza padre. Amata da tutta la sua famiglia, ha sofferto per la sua condizione familiare pur non avendone mai parlato con la madre, la quale rimpiangeva piuttosto il fatto che, per aiutare la famiglia, non l’aveva fatta studiare. Maria sa leggere, ma ha frequentato la scuola solo fino alla seconda elementare. Il desiderio di una madre, trasformatosi in rimpianto, di far studiare la figlia che non ha padre, ci informa che nella Tonara dell’inizio del Novecento lo studio era già un valore ed un fattore di riscatto anche per le ragazze.
Per tutto il resto della vita Maria resterà in casa con la madre e la nonna. Non si è mai sposata. Tema, questo, centrale nella sua visione del mondo e dei rapporti tra i sessi. A 14 anni comincia a tessere in casa e a fare il torrone a giornata, una delle specialità artigianali del paese, apprezzata in tutta l’Isola. Va a giornata anche a zappare il grano, a pulirlo e a mietere, a fare il pane e il bucato in altre famiglie e così via. Lavorerà tutta la vita per necessità e per il piacere di farlo. Nubile, ma non sola. Dal post in facebook della sua figlioccia sappiamo che in inverno raccontava i libri che leggeva a lei e verosimilmente ad altri bambini del vicinato.
5. I «due troppi» di Maria: una visione della storia, dell’etica e del tempo
Maria ha una precisa visione del tempo storico legato alla sua esperienza. Due, per certi aspetti indefiniti, sono i periodi in cui è vissuta e sta vivendo, e sono diversi per non dire contrapposti: l’oggi (15) è il tempo presente, quello della sua vecchiaia e del relativo benessere diffuso, il tempo del mutamento; «a quei tempi», «in quel tempo» è il passato, quello della sua giovinezza. Entrambi i periodi sono caratterizzati da un troppo: «Troppo, due troppi. Troppo poco e adesso troppo molto pure. Troppo avanti, oggi siamo troppo avanti, [...] se ci piace avere una bella casa, avere dei mobili belli, perché non ci piace amarci e volerci bene l’uno con l’altro?» (15).
Maria apprezza il fatto che «siamo andati avanti» (15), ma ciò è avvenuto solo in certi aspetti materiali, non negli aspetti spirituali. Non c’è un «progresso di essere buoni» (15); le cose spirituali sono anche le relazioni. Tuttavia non perde le speranze. Dato che abbiamo progredito nel volere case belle e ben arredate «possiamo sperare di arrivare anche all’altro» (15), al progresso spirituale. Ci si dovrebbe incontrare di più anche tra parenti che talvolta si ignorano. Dagli esempi si comprende assai chiaramente che per “cose spirituali” Maria intende sia le cose che «sono in chiesa» (15), sia le buone relazioni sociali che uniscono la comunità, i parentadi e le famiglie, indipendentemente dalle condizioni economiche.
Personalmente considero la nozione dei “due troppi” solo apparentemente semplice ed elementare, anche se certamente poco elaborata. Ha un fondamento storico, dato che nel secondo dopoguerra sono avvenuti in Sardegna dei cambiamenti così profondi che alcuni intellettuali sardi (in particolare Michelangelo Pira e Giulio Angioni) hanno parlato di “catastrofe antropologica”. Ma la catastrofe è anche ideologica per il carattere dicotomico e oppositivo della rappresentazione del complesso e non lineare processo di modernizzazione. Tuttavia l’immagine storiografica dei “due troppi” andrebbe analizzata più a fondo di quanto posso e sia in grado di fare in questa sede.
Il processo storico che ha portato dal passato di Maria al suo presente ha visto succedersi nel tempo vari tipi di eccessi: al troppo poco relativamente all’aspetto materiale del passato è succeduto un benessere cui corrisponde un troppo poco di spiritualità, di relazioni, di amore reciproco in famiglia, tra parenti e tra vicini. Anche riguardo ai rapporti tra uomini e donne Maria pensa che prima gli uomini svalutassero troppo le donne, il loro lavoro e la loro intelligenza, ma ora le donne chiedono troppo (un ‘troppo di uguaglianza’) (v. anche par. 7).
Queste considerazioni nel loro insieme definiscono una visione del mutamento come una serie di avvenimenti traumatici, avvenuti dopo la Seconda guerra mondiale, molto diversa dall’idea di una evoluzione lenta e progressiva, diffusa anche nella storiografia ufficiale e colta. La visione di Maria è assai critica, quanto lo sono rappresentazioni colte quale quella di “catastrofe antropologica”. Durante la ricerca sul campo nell’Isola, ma anche in conversazioni quotidiane, io stessa l’ho sentita spesso esplicitare soprattutto dagli anziani, ma l’ho sottovalutata. Non l’ho presa sul serio, come invece avrei dovuto fare.
Ci si potrebbe chiedere – e lo poniamo qui solo come spunto di riflessione – se quella dei “due troppi” sia un’idea popolarmente connotata (Cirese, 1973), una di quelle concezioni del mondo e della vita, “riflesso” delle forme e condizioni di vita, di cui parla Gramsci nelle famose Osservazioni sul ‘folclore (Gramsci, 1975: 2311-2317). Per Gramsci, come è noto, il folklore va inteso come un insieme complesso e stratificato di idee, costumi, imperativi di ordine morale di provenienza e orientamento diversi da e contrapposti alle concezioni del mondo ufficiali. In questo insieme variegato ci sono strati «fossilizzati che rispecchiano condizioni di vita passata, quindi conservativi e reazionari, e quelli che sono una serie di innovazioni, spesso creative e progressive» (Ivi: 2313). Pur con qualche riserva, collocherei l’idea dei “due troppi” di Maria tra i secondi, a ulteriore dimostrazione, se ce ne fosse bisogno, di quanto sia difficile distinguere e classificare fatti e idee dell’area folklorica, evitando proiezioni e giudizi morali e/o politici di chi conduce l’analisi.
6. Gli spazi e il lavoro
Anche gli spazi degli incontri sono diversi nei due tempi storici che definiscono la vita di Maria e le sue consapevolezze. Oggi gli incontri si fanno dentro le case. «A quei tempi», in passato, quando Maria era giovane, ci si incontrava invece per il lavoro soprattutto in campagna, e gli incontri non si limitavano alle festività, erano quotidiani, frequenti e festosi:
«[...] si andava da una cosa all’altra: quando si finivano le castagne, subito si andava a zappare il grano, così non passava tanto tempo; quando era tempo buono, dalla zappatura si andava alla pulitura, poi si andava alla mietitura, poi si andava a legna. [...] Eravamo in molte, allegramente sembrava una festa andare a portare la legna. [...] Andava anche chi stava bene, massimamente a portare l’erica per cuocere il pane» (11).
Tutti andavano a lavorare. «Per questo non c’era da sentirsi in disprezzo. Prima piaceva tanto lavorare» (11). A Maria innanzi tutto, anche nel presente: «Il lavoro mi dà sempre soddisfazione. È la cosa che più mi rende felice, posso dire, quando non mi sento male» (11). Allude, Maria, al disprezzo misto a compatimento per le donne costrette ad andare in campagna non casualmente per dare una mano, ma per tutta l’annata agraria a svolgere lavori pesanti, esposte al sole e al freddo, per contribuire alla sopravvivenza della famiglia. Tale sentimento che era diffuso in generale nella Sardegna rurale marcava la differenza e la distanza (importanti le ricadute anche sulle scelte matrimoniali), tra grandi proprietari (i ricchi) da un lato e i braccianti o piccolissimi proprietari dall’altro (Angioni 1974, 1976), quelli che Maria chiama i «pezzenti» (10). Tutto ciò sembra non esistere a Tonara (960 m. sul mare), che aveva una scarsissima produzione cerealicola e dove il frumento si seminava anche nei chiusi (Tore, 1995: 105). Qui molte donne anche benestanti («ricche» nella rappresentazione di Maria) andavano nelle aziende di familiari o parenti a raccogliere castagne e noci, l’erica per pulire e profumare il forno o al fiume per il bucato o nei campi, facendo gruppo con le altre giovani.
L’esperienza che Maria ci racconta è diversa in parte dalle classiche rappresentazioni della divisione del lavoro tra i sessi nel mondo rurale sardo che era anche divisione di spazi. Le donne lavorerebbero praticamente solo in casa o in paese, gli uomini in campagna [5]. A partire dagli anni Ottanta-Novanta del secolo scorso, molti saggi autorevoli (Da Re, 1990; Murru Corriga, 1990; Oppo, 1992, Atzeni, 1988), sull’onda del dibattito femminista che aveva coinvolto profondamente anche gli studi antropologici e fondato su nuove categorie analitiche gli studi sulla divisione sessuale del lavoro (Tabet, 1979), hanno reso più articolato e preciso il quadro, pur non negando che fosse la dimensione domestica quella in cui maggiormente le donne si identificavano. Solo alcune donne realizzavano questa aspirazione collettiva, ch per molte altre rimaneva tale. Il lavoro femminile in quei saggi viene descritto e analizzato con maggiore precisione e puntualità sulla base di interviste e storie di vita delle donne, che contribuivano alla sopravvivenza della famiglia andando a lavorare nei campi, negli orti e, come nel caso di Tonara, ricchissimo di boschi, a raccogliere castagne, noci e nocciole. Le donne in Sardegna non erano del tutto assenti neppure dai pascoli, quando questi erano vicini al paese, là dove si praticavano transumanze brevi interne ai terreni comunali (Dorgali, Baunei) o quando il pascolo era nei pressi delle abitazioni (Gallura), nel rispetto della locale divisione sessuale del lavoro che, nella costruzione dell’identità dei due sessi, vedeva sempre primario il lavoro agricolo e pastorale per l’uomo (Cfr. Da Re, 1990: 61-70).
Clara Gallini, già nei primi anni Settanta, lavorando sui novenari e il ruolo centrale che vi svolgevano le donne, aveva ripensato tutto il problema del loro lavoro correlando in modo inedito le due nozioni di pubblico/privato con la dimensione del tempo e dello spazio: quello quotidiano e del privato e quello della festa e del più ampio scenario pubblico in cui operavano. Nella normale quotidianità il tempo dedicato ai lavori di pulizia della casa e della persona, alla preparazione del cibo e anche all’allevamento dei bambini (Maria lo ribadisce più volte) era ridotto a vantaggio dei lavori in campagna, così come la casa era un tempo meno importante della campagna. Neppure i ricchi a Tonara, secondo Maria, curavano molto la casa.
In occasioni festive la scena mutava. Una delle pagine più belle dell’Intervista è la descrizione dei lavori preparatori per le nozze, che duravano alcuni giorni (63-65): le case si aprivano ai vicini e venivano prestate per il pranzo, i lavori si mescolavano ai balli e ai canti, alle bevute, le donne agli uomini, ci si innamorava, non si dormiva. Nella festa i confini sociali sembrano non esistere più: «Si diceva magari: “Beh andiamo a dormire un pochettino”, ma arrivavano quelli con gli organetti, e suoni da una parte e suoni dall’altra! Mi ricordo che non potevo stare in piedi ed ero già stanca, invece si sente venire un’ondata di ragazzi [...] Cominciano a ballare, a suonare, abbiamo cominciato a fare il pane e quando cominciava a fare giorno, era già cotto» (64).
È noto che nel senso comune quasi universale era (e forse è ancora) diffusa l’idea che la divisione del lavoro tra i sessi si basasse un tempo sulla contrapposizione tra facile vs difficile, leggero vs pesante, domestico vs extradomestico, dove il primo termine caratterizzava il lavoro delle donne e il secondo quello degli uomini (Tabet, 1979). Narrando la sua esperienza di vita, Maria ne dimostra la falsità e l’incongruenza. Confronta (e dalle sue parole sembrerebbe che tra donne se ne parlasse spesso) alcune attività maschili e femminili: il bucato a mano al fiume o nelle fontane delle donne «eguagliava», in termini di pesantezza e di fatica, il lavoro che faceva l’uomo con il piccone; il lavoro della filatura a macchina «eguagliava», in termini di fatica e di precisione, il lavoro del falegname. Eppure le donne in genere credevano che i loro lavori fossero tutti leggeri (19). Come mai?
«Prima gli uomini (non tutti però) – afferma Maria – pensavano che contava, che era pesante solo il loro lavoro. [...] non pensavano che il lavoro della donna in casa è pesante quanto quello che fanno loro. [...] gli uomini (non tutti) sanno valorizzare solo il loro lavoro, non sanno valorizzare il lavoro delle donne» (19).
Anche i figli «non vedono il lavoro della madre» (19).
Maria non sa spiegare questo atteggiamento maschile: «Penso sia un istinto. Non c’è nemmeno da criticarli. Credono di essere molto più comprensivi [6] gli uomini si credono un po’ troppo» (19).
Non solo. In questa situazione di egemonia maschile, che porta le donne a condividere il pensiero dei mariti, dei padri e dei fratelli, «di solito la donna non se lo lascia nemmeno apparire il suo valore. Come dirglielo? Non se lo fanno vedere, non se lo possono far vedere, ma anche non gliela danno la possibilità di fare vedere il valore che hanno, perché sono loro, gli uomini, che devono prenderselo» (20). Le donne non fanno apparire il loro valore. Non per una scelta spontanea, ma perché ne sono impedite in qualche modo. Gli uomini non consentono alle donne di mostrare il loro valore e farlo apparire in modo esplicito nel sociale, vogliono il riconoscimento del valore solo per sé.
Si tratta di affermazioni assolutamente straordinarie, di una consapevolezza piuttosto fuori del comune di come funziona il potere, tra forza e consenso, «che si equilibrano variamente, senza che la forza soverchi troppo il consenso» (Gramsci, 1975: 1638). Il potere nella famiglia, garantito giuridicamente dalle leggi del tempo agli uomini, crea le condizioni per la produzione di valori e di simboli egemoni (quelli maschili) che minimizzano il fare e l’essere delle donne in quanto subalterne e ne riducono la capacità di autoaffermazione e autovalorizzazione.
Queste affermazioni di Maria non mettono in discussione la nozione di autonomia decisionale di Clara Gallini. Il peso economico e morale delle donne è un dato oggettivo. Le donne ne sono ben consapevoli e segretamente ne parlano tra loro (99). Il suo riconoscimento, che significa fare del dato oggettivo un valore collettivo, non avviene, non da parte di tutti gli uomini. Ed é, sembra di capire, piuttosto raro. Questo è un tema cruciale che occupa ben sei pagine dell’intervista con domande da parte di Gallini sempre più pregnanti nel senso che si avvicinano con discrezione al privato di Maria, che non si è mai voluta sposare.
Il tema del non riconoscimento del lavoro delle donne, e anche della loro intelligenza, da parte degli uomini del passato e le attuali rivendicazioni delle donne e delle loro richieste di maggiore uguaglianza tra i sessi rientra nella visione storica dei «due troppi». Troppo svalutate le donne e la loro intelligenza un tempo, troppo ciò che chiedono oggi. Clara Gallini, conoscendo bene Maria, la porta sul terreno politico del femminismo contemporaneo all’intervista (siamo nel 1979) quasi senza parere: «Questo è anche un problema delle donne di oggi: come usare l’intelligenza per il meglio» (21) e Maria non si lascia sfuggire l’occasione di esprimere l’elemento costitutivo (fondante) della sua visione del mondo, la moderazione: «Da un lato hanno ragione le donne oggi, che vogliono l’uguaglianza. [...] un po’, però, non tutta quella che stanno prendendosi. Il troppo è sempre troppo, sia in buono che in cattivo … Ci deve essere sempre la moderazione in tutto, nel buono e nel cattivo…» (21).
Moderazione – predica Maria – ma i suoi giudizi su uomini e donne che si comportano male sono pesanti e inesorabili: «Mi faceva schifezza sentire che certe donne che dicevano che si sposavano, perché non si sapevano tenere, non sapevano lavorare e pensare a loro stesse [...] Se ti sposi ti devi sposare per amore» (22). Ma è soprattutto sugli uomini che si abbattono i suoi strali. Si vergogna un po’, Maria, di dire a Clara come ha “classificato” gli uomini. Alla fine: «Lo dico come lo so dire: di uomini ce ne sono pochi, e gli altri sono solo maschi. Me lo accetta questo?» (22). È per questo che non si è mai sposata? Fondamentalmente sì, «…io trovavo difficoltà per tutti [...] per avere uno stupido, è meglio avere…» (23). Maria sospende il discorso. Temeva forse di cadere nel ‘troppo’.
Il matrimonio per Maria è una cosa molto seria e, una volta sposati, è per sempre. È contrarissima al divorzio e al referendum ha votato contro. Si è trovata contro la maggioranza del suo paese e della Sardegna intera: «Io condanno chi ha accettato il divorzio [...] Prima si rimaneva, volere o non volere. Ma sarebbe un castigo, oppongono. [...] la vita non sta bene neanche separandosi» (32). Maria vede il matrimonio come un momento di grandissima responsabilità. La scelta del coniuge deve basarsi sull’amore e sulla simpatia: «Per sposarsi bisogna che si trovano veramente due simpatie, ma ben fornite di tutto quanto, se no, non è possibile» (33) Il divorzio non è un rimedio, è un castigo proprio come un matrimonio fallito.
8. Il vicinato. L’importanza di farsi i fatti altrui
La casa di Maria, da lei tanto amata e curata, è nel vicinato di Toneri, abitato prevalentemente da agricoltori. Come è noto, i vicinati in Sardegna erano vere e proprie piccole comunità dove si cresceva, talvolta ci si sposava (“sposati in paese – diceva un proverbio sardo – e, se puoi, nel vicinato”), e soprattutto la sera dopo il lavoro la comunità di vicinato prendeva forma concreta. Toneri era considerato un quartiere che votava comunista. Ma non era questo l’elemento costitutivo della sua specifica socialità. Tutti i sentimenti, l’odio, l’amore, l’antipatia, l’amicizia, la solidarietà si affollavano e si intrecciavano e Maria descrive la densità della vita sociale dei vicinati da par suo.
Clara le chiede: «Il vicinato era più il luogo degli uomini o delle donne?»
«Delle donne di più certo – dice Maria – ma anche degli uomini [...] gli uomini andavano di più alle bettole [...] a quei tempi si andava da una casa all’altra, uomini e uomini, donne e donne. [...] Pensi che si diceva il rosario nella quaresima in molte case, /…/e ridevano anche dicendo il rosario, si facevano anche degli scherzi. [...] la passeggiata non c’era né per gli uomini né per le donne» (77) [...] «si diceva di tutto, si criticava anche. [...] Si raccontavano anche contus, storie, barzellette. C’erano delle grandi barzellette che sembravano storie, e anche sporche in mezzo!» (74).
Tutto ciò mentre le donne e le ragazze lavoravano, filavano, tessevano, pettinavano il lino, pulivano le castagne. E ci si aiutava: «Gli aiuti c’erano più di oggi. Io ho paragonato – sarò esagerata – molte volte con molti che si volevano più bene prima da vicini che non oggi madre e figli» (75). Un quadro ben noto a chi ha conosciuto la Sardegna di ieri o per esserci vissuto o per aver letto o ascoltato.
Le relazioni tra vicini, come ovunque, non erano sempre idilliache. Il ragionamento di Maria su questo aspetto rende interessante e nuova la sua testimonianza:
«Si bisticciava anche molto! Le donne si bisticciavano tra di loro nelle strade [...] per cose da nulla, per i giochi dei bambini, se un bambino bastonava un altro, [...] per una gallina tante volte, per un gatto, [...] però non si stava nel rancore: si era in pace lo stesso. Oggi non si bisticcia e non c’è pace, non c’è amore, non c’è niente. Nessuno è in pace oggi» (76).
Maria interpreta così la situazione dell’oggi: farsi gli affari propri, negarsi alla relazione con gli altri nel bene e nel male. Litigare per piccole cose è comunque una relazione che si trasforma in pace e in altri sentimenti ed azioni positive; ma dall’indifferenza altezzosa e da una apparente buona educazione non nasce niente: «Io faccio la signora, lascio perdere [...] e non mi metto con quella» (76).
Maria coglie il senso politico di questa profonda trasformazione della vita sociale di Tonara. Ciò che succede a livello dei rapporti di vicinato rappresenta nel piccolo una chiusura più generale nei confronti degli interessi collettivi:
«Ma se uno non si fa il fatto degli altri, non è capace nemmeno di fare il suo! Prendiamo il fatto dell’amministrazione comunale…questo non è solo farsi il fatto loro: devono fare i fatti degli altri. Per riuscire bene la società e per riuscire bene la loro coscienza, devono fare il fatto degli altri! Invece noi oggi non si sente altro che dire: “Non mischiarti, fai il fatto tuo”, [...] Invece prima [...] si andava, si trovava gente, si bisticciava anche, ma insomma ci si andava a cercare. Ci si intrometteva [...]» (76).
Maria sembra implicitamente negare quel ‘familismo’ di cui aveva parlato il sociologo Luca Pinna (1971) [7 ]come tratto caratterizzante della società sarda che aveva le sue radici nell’Ottocento e nell’introduzione forzata della proprietà privata perfetta. Nel pensiero di Maria la chiusura familistica sembra piuttosto una realtà dell’oggi e della diffusione anche nei paesi di valori borghesi («Io faccio la signora, lascio perdere»). La parola d’ordine della dimensione politica di Maria sembra essere ‘intromettersi’ per il bene comune.
9. Intromettersi: le donne, la politica, le lotte per l’acqua
Ora che Maria è anziana e ha capito che la politica è «sporca» (78), non se ne interessa più, come è capitato ad altre donne del suo paese: «Io per me non faccio conto né da una parte né dall’altra, sono come l’organetto, tiro a ogni parte» (81). E allude nuovamente all’attuale chiusura familistica della dimensione politica in paese che ha comportato una maggior dipendenza delle donne dai loro familiari, marito e figli, i quali hanno più contatti con il mondo esterno. Le donne ascoltano di più i mariti: «Prima non li ascoltavano, non tutte ascoltavano i suggerimenti dei figli grandi che capivano qualcosa, dei mariti. [...] Adesso però la politica, la discutono di più in casa, è familiare: ci sono dei figli studiati» (82). La scuola, mette in contatto i ragazzi con tante idee, discutono con i professori, organizzano scioperi. A Tonara nell’Istituto Industriale – dice Maria – «sono tutti sinistri» (82) Ciò non significa che le donne non capiscano di politica: «Si interessano e capiscono più degli uomini: non mi sbaglio in questo! Non sto vantandomi [...]» (78).
Maria in questo passo, solo apparentemente contraddittorio rispetto a quanto riferito prima, si sta riferendo al passato. Un tempo ha fatto le sue battaglie e amava intromettersi nelle discussioni, anche da giovanissima, tanto da essere rimproverata dai familiari. Il periodo di maggiore coinvolgimento delle donne in politica è stato nel secondo dopoguerra, quando hanno potuto votare: «Adesso non ne dicono. Prima si interessavano, alle prime elezioni era un dibattito continuo. C’è gente che è ancora mezza urtata dal tempo delle prime elezioni» (79). «Del nostro rione dicevano che era rosso e che votava sempre a sinistra: ma non è che era rosso, era che capivano un po’! Altro che!» (80).
Erano rosse anche le donne? – chiede Clara Gallini.
«Un pochettino tiravano. Però qualcuna diceva: “Io faccio quello che voglio!”, rispondeva al marito: “faccio quello che voglio” e ascoltava i sacerdoti» (80). Ci pare di capire che per Maria l’autonomia decisionale restava tale anche quando le donne ascoltavano i preti, in quanto decidevano loro chi ascoltare e non avevano timore di affrontare i mariti. Tra autonomia e dipendenza delle donne, Maria mostra un paese dove, nell’immediato dopoguerra, si dibatteva, si sceglieva e si votava. E dove le donne partecipavano vivacemente.
Il momento di maggior coinvolgimento di Maria nella politica locale e la sua massima esposizione su uno scenario pubblico è stata la partecipazione alle lotte per l’acqua a partire dal 1958. Nell’efficace racconto sull’incontro con il prefetto, le polemiche con il Comune, le dimostrazioni in piazza, Maria mostra la sua solita verve, e una capacità di narrare fuori dal comune. Ora sappiamo dalla figlioccia che leggeva molto e che poi in inverno raccontava i romanzi ai bambini, forse seduti anche loro nelle sediette vicino al camino.
Non aveva paura di niente Maria, ma non vuole apparire troppo in primo piano nel racconto delle lotte per l’acqua, conoscendo la tagliola egualitaria che nei paesi sardi colpiva chi si credeva superiore agli altri e non lo era agli occhi della comunità. Appare sempre in gruppo e il verbo è sempre alla prima persona plurale. Clara conosceva in anticipo la storia e cercava di stanarla: «Io so di una donna (e anche lei lo sa…) che ha preso a scopate un poliziotto…». Maria si sottrae ancora una volta: «Un poliziotto? Questo non lo so! (ride…)» (60). Ma noi l’abbiamo capito: era stata Maria, donna all’antica e moderna al contempo (98).
Intervista a Maria voleva essere qualcosa di diverso da uno strumento classico della ricerca sul campo antropologica e dell’osservazione partecipante. Essa è il risultato di una riflessione sul metodo della ricerca antropologica condotta da Clara a seguito di una sua crisi profonda dopo la pubblicazione di Dono e malocchio e Il consumo del sacro, in un periodo non solo di crisi sul fare antropologia e come farla, ma anche politica e personale.
A chi e a che cosa serviva la sua ricerca – si chiedeva – in un momento in cui anche l’impegno politico legato ai movimenti di fine anni Sessanta e alle speranze suscitate sembrava non avere più spazio? Perché fare ricerca se non c’erano più le condizioni per un rapporto tra pratica teorica e trasformazione della società? Clara avvertiva un profondo disagio per la distanza culturale tra ricercatore e il cosiddetto ‘informatore’, che si produceva anche sul campo a tutto vantaggio del ricercatore e la sua capacità giudicante (105-106). Ed ecco che un’occasione fornitale da un mezzo di comunicazione di massa, la radio, le consente di uscire dall’afasia in cui era piombata:
«È nella non tranquilla parabola di questo processo culturale che si è inserita, in modo del tutto inatteso, la strana gioia dell’intervista a Maria. Per la prima volta sperimentavo una situazione alla pari nel senso che, nonostante le ovvie e innegabili differenze di censo e di ceto, ci misuravamo entrambe nell’ambito dello stesso ruolo pubblico, quello di due donne che, mediante un mezzo di comunicazione di massa, comunicavamo ad altre donne i risultati delle loro esperienze» (109).
Come dice Adelina Talamonti con felice sintesi (2018:18),
«Gallini elabora [...] nel tempo una sua personale visione del rapporto soggetto-oggetto nella pratica antropologica, con note autocritiche che vanno al di là della messa in discussione dell’asimmetria delle posizioni. In Intervista a Maria…, che segna anche la fine delle ricerche sul campo, oltre a insistere sulla valorizzazione della “coscienza critica” del soggetto intervistato, esplicita il proprio percorso soggettivo di revisione critica, teorica e pratica, della ricerca antropologica come prodotto comune che coinvolge e trasforma a vari livelli entrambi gli interlocutori. …credo si possa ritenere Clara Gallini una precorritrice del successivo dibattito sulla questione della riflessività inquadrata in una lettura politicamente impegnata».
11. Alla fine
Ha ragione Clara Gallini quando afferma che è una grossa privazione leggere la testimonianza di Maria senza ascoltare la sua voce, con una precisa scelta di toni, talvolta solenne e consapevole di svolgere un ruolo pubblico (93-94). Ed è una privazione anche non vedere Maria mentre «pontifica», come dice la stessa Clara con ironico affetto: «Dobbiamo immaginarcela seduta vicino al camino, su una di quelle seggioline basse che consentono di stare quasi accoccolati al suolo, in una piccola cucina le cui finestre aprono sui tetti del rione e le montagne più distanti» (93). È una privazione anche non vederle insieme nella casa del rione di Toneri, Clara e Maria, reciprocamente ‘innamorate’ (104) [8] della loro intelligenza e della loro capacità di coscienza critica, come raramente capita alle antropologhe e agli antropologi sul campo. Maria parla e Clara registra, parla, e forse, scrive su alcune pagine bianche. Volevano comunicare con il mondo e ciascuna a suo modo ci è riuscita [9].
Dialoghi Mediterranei, n. 74, luglio 2025
Note
[1] Nel corso di questo saggio, quando si citano brani da Intervista a Maria, ed. Ilisso, 2003, viene indicato solo il numero della pagina tra parentesi tonde.
[2] Clara Gallini (Crema 1931-Roma 2017) arrivò all’Università di Cagliari nel 1960-61 a seguito di E. de Martino di cui era allieva. Assistente volontaria per alcuni anni, insegnò latino e greco al Liceo Classico G. Siotto Pintor del capoluogo sardo. Dopo la morte del maestro nel 1965, ha insegnato Etnologia e Storia delle Religioni nella Facoltà di Magistero. Professore ordinario dal 1975, si trasferì nel 1978 all’Istituto Orientale di Napoli e nel 1990 a Roma La Sapienza dove concluse la sua carriera accademica come professore emerito. Continuò a scrivere con assiduità fino alla morte. Il n. 3 del 2018 della rivista “Nostos”, la rivista dell’Associazione Internazionale Ernesto de Martino, è dedicato ad illustrare la vita e l’opera di C. Gallini. Nel 2006 ha ricevuto dal Rotary Club Cagliari il Premio “La Marmora” per gli studi sulla Sardegna. Benedetto Caltagirone, per rimarcare il «rapporto di ininterrotta prossimità, anche fisica, con la Sardegna, ma, quel che più importa, un rapporto di ricerca e impegno» (2018: 1, inedito), a partire dalla Bibliografia di Clara Gallini, curata nel 2015 da Adelina Talamonti, nota che «su un totale di 300 titoli, 45, il 15% circa sono esplicitamente di argomento sardo» (Ivi: 2, inedito). Per ragioni a me ignote, il bel saggio di B. Caltagirone, La Sardegna nel pensiero di Clara Gallini. Primi sondaggi, presentato al Convegno “Clara Gallini: il metodo e i campi di ricerca”, svoltosi a Roma il 23 gennaio 2018, non è stato pubblicato nel n. 3 del 2018 della rivista “nostos”, che ha accolto gli interventi del convegno.
[3] Un quadro molto preciso delle peculiarità sociali, economiche e culturali di Tonara viene fornito da Gianfranco Tore (1995), il quale, basandosi anche sullo scritto di Giuseppe Tore (1928), traccia un profilo preciso dell’economia del paese barbaricino nel suo lento trasformarsi da esclusivamente agropastorale fino alla crisi di fine Ottocento a prevalentemente agricolo-artigianale e commerciale nel Novecento.
[4] Mi sembra importante segnalare, anche per futuri approfondimenti, che nel 2014 l’Associazione Casa Natale Antonio Gramsci di Ales ha presentato uno spettacolo ispirato al testo di Clara Gallini e Maria Patta, la cui drammaturgia è stata curata da Gianna Deidda e Michela Benelli.
[5] Tra Settecento e Ottocento molti sono i riformatori e i semplici osservatori della Sardegna (Francesco Gemelli, Alberto Della Marmora, Francesco Salaris, Antonio Bresciani, Francesco Coletti) che rilevano l’assenza delle donne dalle campagne. Dai più a questa assenza veniva imputato lo scarso sviluppo dell’agricoltura dell’Isola. Il modello a cui adeguarsi erano le rigogliose campagne del Nord d’Italia dove le donne erano largamente impegnate nei lavori agricoli. Ritengo ancora che questa assenza fosse il frutto anche di uno sguardo carico di pregiudizi etnocentrici sulla Sardegna (Da Re, 1990: 13-18).
[6] In nota C. Gallini spiega che la parola ‘comprensivi’ sta a significare ‘intelligenti’ (19).
[7] Luca Pinna (Thiesi 1919-Roma 1977), autore de La famiglia esclusiva. Parentela e clientelismo in Sardegna, Laterza, Bari, 1971, era amico e collaboratore di Clara Gallini. Aveva prodotto la documentazione fotografica de Il consumo del sacro (1971) e insieme avevano scritto Il referendum sul divorzio in Sardegna, Cagliari, EDES, 1975.
[8] Sul rapporto affettivo tra l’antropologo che intervista e l’informatore che racconta la sua vita, di cui parla Clara a p. 104 della postfazione, Dopo l’intervista, ha scritto riflessioni importanti Pietro Clemente, raccontando come le storie di vita lo abbiano cambiato come antropologo: «Anche la lettura di Intervista a Maria è una tappa critica della mia formazione, siamo nel 1981, e Maria è una donna di Tonara che ricorda tante donne sarde che ho conosciuto, filosofie popolari di donne che hanno lasciato traccia nella mia vita: [...] in particolare la nozione di ‘innamoramento dell’informatrice/tore’ aveva funzionato per me, in un codice mio, un po’ rigido e non sempre autoconsapevole come apertura di una cicatrice nella sensibilità. Cicatrice che più volte si è riaperta» (Clemente, 2008). Io qui però parlo di affetto tra Clara e Maria immaginando una reciprocità che mi sembra di intuire, ma di cui in realtà non ho prove esplicite. Una piccola licenza di cui spero nessuno si adonterà.
[9] Clara e Maria parlano di molti altri temi importanti sui quali ho deciso di sorvolare: la casa di Maria, l’amicizia, il rapporto tra genitori e figli, la violenza domestica, i figli fuori del matrimonio, la coppia coniugale, la vecchiaia, i cimiteri e i riti funebri, il malocchio, il lutto, il pianto funebre. Maria non è mai banale e conformista e, mentre riferisce con precisione importanti dati etnografici, che Tonara condivide in grande misura con altri paesi del centro Sardegna, pur avendo una sua specificità economica e storico-culturale, non rinuncia ad esporre e a ribadire in diversi passi la sua filosofia di vita in modo coerente. Clara l’aiuta a mantenere il discorso entro gli obiettivi che si è posta: una continua puntualizzazione sulle relazioni tra i sessi così come sono mutate nel tempo tra la giovinezza e l’oggi della sua vecchiaia. La scelta dei temi da trattare in questo scritto è dipesa pertanto esclusivamente dai miei interessi.
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Maria Gabriella Da Re, già professore associato di Discipline demoetnoantropologiche presso l’Università degli Studi di Cagliari, ha svolto la sua ricerca sul campo in diverse comunità della Sardegna rurale. Ha affrontato temi relativi alla storia della cultura materiale, alla divisione sessuale del lavoro, alla parentela e al sistema ereditario. Si è occupata di antropologia museale, curando in particolare il museo etnografico di Armungia, Sa domu de is ainas (La ‘casa’ degli attrezzi), inaugurato nel 2000. Tra le pubblicazioni recenti la cura del volume collettaneo Dialoghi sulla natura in Sardegna. Per un’antropologia delle pratiche e dei saperi, Firenze, Olschki, 2015.
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