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Machiavelli, i Turchi e l’Islam
Posted By Comitato di Redazione On 1 luglio 2021 @ 03:07 In Cultura,Letture | No Comments
di Kais Ben Salah
Scopo di questo lavoro è quello di cercare in Machiavelli un probabile interesse per la figura del profeta musulmano e per i musulmani in generale, che potrebbe aver influenzato la sua teoria politica tanto da avanzare l’ipotesi di considerare la religione islamica come un fattore niente affatto estraneo al pensiero del segretario fiorentino.
I turchi nell’Italia del Machiavelli
Nel Principe ci sono alcune osservazioni sui “turchi”, che per il loro status di “non credenti” dal punto di vista dei cristiani, erano generalmente guardati da una prospettiva speciale ai tempi di Machiavelli. È noto che il ruolo della cosiddetta minaccia turca era allora argomento ampiamente dibattuto. Non era passato molto tempo da quando Costantinopoli era stata presa da Mehmet II nel 1453, cui seguirono ulteriori conquiste. Da parte dei cristiani il tema della crociata era diventato di nuovo preminente. Se si considera che i turchi si trovarono davanti a Vienna solo poco tempo dopo la morte di Machiavelli, si può comprendere che la lotta contro i turchi era vista principalmente come un affare locale degli Stati territorialmente più vicini, come l’Italia e la Francia. Ciò, ci fa capire che le singole monarchie europee non avevano mai visto questa questione come responsabilità collettiva [1].
La minaccia turca era un problema per l’Italia [2]. Venezia, ad esempio, ai tempi di Machiavelli combatteva contro i turchi, per le sue aree d’influenza nel Mediterraneo. Non va però trascurato che la minaccia posta dai turchi non ha portato alla solidarietà tra gli Stati cristiani. Gli attori politici e persino i papi non vedevano questa lotta come un compito primario della loro politica quotidiana, restando più legata alle guerre per aree d’influenza all’interno dell’Europa. Il fatto che siano state concluse alleanze anche con i turchi contro “fratelli cristiani” – ad esempio dai francesi – è stato talvolta percepito come scandaloso, ma dimostra anche l’attuazione del principio dello Stato territoriale e la disintegrazione dell’idea di un cristianesimo unito.
I papi non volevano mettere i propri interessi territoriali legati allo Stato pontificio dietro la politica turca, come fu il comportamento del papa Alessandro VI, citato anche da Machiavelli nel Principe, che sollecitò l’aiuto di Venezia e perfino dei Turchi e si alleò con Alfonso II di Napoli, per far fronte alla calata in Italia di Carlo VIII di Francia [3]. Tuttavia, questa disintegrazione di lunga durata del quadro ideologico europeo era considerata nefasta da un punto di vista religioso, e le speranze erano rivolte alla riunificazione del mondo cristiano [4].
Per il ruolo del “turco” nel pensiero politico (cristiano) è vero che non si trattava di un comune attore politico o di un nemico – per alcuni, l’incarnazione dell’Anticristo, per altri apparentemente un po’ più mite – è entrato in scena il seguace di un’eresia, che in quanto “non credente” differisce categoricamente dal cristiano.
Coloro che erano insoddisfatti della posizione allora assunta dalla Curia romana, nelle chiese e negli ordini monastici, hanno interpretato il turco come un castigo di Dio, a cui deve seguire un rinnovamento dello stile di vita cristiano. Erasmo sottolinea che i turchi devono le loro vittorie ai vizi dei cristiani [5]. Non dovrebbe sorprendere che in questo clima di tensione religiosa il riferimento a Dio fosse una pratica comune.
Un altro aspetto della “questione turca” era la distinzione normativa tra una forma di politica buona (cristiana) e una cattiva (non credente). Per Savonarola la lotta dei turchi è diversa da quella degli italiani e dei cristiani in generale. I cristiani combattono con fede, preghiera e fortezza, mentre i turchi e i diavoli combattono con odio, rabbia, bestemmia e con l’intenzione di fare tutto il male possibile [7]. Questa differenziazione tra due forme di politica ha anche costituito un’arma sovversiva per criticare le condizioni politiche esistenti.
Machiavelli e i turchi
Si può presumere che Machiavelli conoscesse questo stato d’animo e i relativi discorsi. Quando si legge il Principe, si nota quanto poco spazio Machiavelli dedica al “turco”. Senza alcun tipo di cliché o allusione al contesto religioso, quest’ultimo appare come un normale attore politico. E, come ogni altro attore politico, era soggetto alle regole della politica – e solo a queste. Né si dice una parola su una possibile differenza tra un sovrano cristiano e un sovrano turco, né il turco appare come il simbolo di un reggimento pregiudizialmente cattivo perché non cristiano.
Per Machiavelli vale il principio che chi vuole combattere contro i turchi deve contare non sull’appoggio di Dio contro i “miscredenti”, ma solo sulle “proprie forze” [8]. Dio – se esiste per Machiavelli – resta fuori da tutto e non è né l’aiutante di chi si sente cristiano, né il giustiziere dei principi che si sono allontanati dal giusto stile di vita cristiano.
Data l’onnipresente paura dei turchi, è più che insolito che il turco venga giudicato con sobrietà quasi laica e secondo criteri puramente politici. In questo contesto, non ci sono prove di un possibile interesse missionario. Machiavelli sembra completamente disinteressato alle questioni di religione. Solo in uno dei luoghi in cui Machiavelli menziona i turchi, li apostrofa come “infedeli” e osserva la loro capacità di schiavizzare la Grecia.
Non vi è probabilmente nessun riferimento a quanto aveva affermato nei toni e nei fatti Callisto III [10] ma può essere inteso polemicamente in questo contesto, perché nei Discorsi Machiavelli attribuisce espressamente la virtù ai turchi e ammira persino i “saraceni”.
Tanto più che il Segretario afferma che i turchi sono virtuosi anche in questo passaggio dei Discorsi.
Certo è che Machiavelli, secondo la sua stessa affermazione, si occupa solo della descrizione della “realtà delle cose”, cioè vuole ignorare le valutazioni normative. Il fatto di essere non credente non ha nessun’importanza per lui, anzi, può essere una cosa da ammirare e persino da imitare.
La figura di Mohammed nell’Italia del Machiavelli
Un esempio di quelli che si occuparono di studiare la figura del profeta musulmano fu Bernardo Giustiniano [13], che era un nobile veneziano, diplomatico e storico nato nel 1408 e morto nel 1489. La sua opera più famosa, De origine urbis Venetiarum [14], fu pubblicata postuma all’inizio del 1493. Secondo Giustiniano, la storia di Venezia e la storia universale dell’Eurasia erano inseparabilmente intrecciate. Quest’opera contiene non solo le vicende dei veneziani, ma anche le guerre dei Goti (Libri IV-VI), dei Longobardi (Libro VII), dei Saraceni e dei Turchi (Libri VIII e XI). Questi erano i popoli che la Repubblica di Venezia affrontò durante i primi secoli della sua storia. Tra questi, l’Islam era di particolare interesse e rilevanza perché nessuna setta religiosa o grande impero si era diffuso prima così velocemente e così ampiamente.
Giustiniano si concentrò essenzialmente sui metodi di Mohammed per acquisire e mantenere il potere. Discusse l’efficacia delle strategie politiche e militari del profeta musulmano, non la veridicità della sua profezia, quindi, considerò le azioni di Mohammed principalmente da un punto di vista politico e militare. Secondo Giustiniano, tra le “arti” politiche di Mohammed l’uso della religione era sicuramente il più efficace.
Durante la fine del XV e l’inizio del XVI secolo, Mohammed fu consacrato tra i prìncipi. Certamente, questo “coronamento” del profeta non dovrebbe essere descritto come un processo lineare né come estraneo alla polemica religiosa. Gli storici del XV secolo continuarono ad usare le ragioni religiose per descrivere Mohammed come un capitano militare e come il precursore arabo degli imperatori ottomani. Questa continua riscrittura delle stesse storie e meraviglie esotiche ha portato gli studiosi a sottolineare la continuità del ritratto di Mohammed in diversi generi e nel tempo, invece di portare alla luce e svelare le effettive discontinuità. Leggere le storie dei miracoli di Mohammed all’interno di una collezione di capitani militari del mondo o alla stregua di un’indagine erodotea sui popoli della tarda antichità, non è la stessa cosa che trovarle in un trattato polemico contro l’Islam. In effetti, lo spostamento dei materiali biografici da un genere (polemica religiosa) a un altro (la storiografia) ha avuto le sue conseguenze. La figura di Mohammed è andata a perdere gradualmente il suo presunto profilo “barbarico”, e la sua inaffidabilità come profeta, per guadagnare invece una legittimità militare e l’autorevolezza di un politico esperto [15].
Secondo il Tommasino [16], l’ascesa dell’impero ottomano influenzò la ristrutturazione della biografia di Mohammed in Europa. Soprattutto dopo la conquista di Costantinopoli (1453), Mohammed trovò il suo posto nelle gallerie degli imperatori eurasiatici antichi e contemporanei, principalmente introducendo la serie genealogica dei sovrani ottomani. Ad esempio, la vita di Mohammed fu inclusa negli Enneade, scritta tra il 1498 e il 1504 da Marco Antonio Sabellico, così come nel Vitae Cesarum dello storico Bernardino Corio di Milano, pubblicata nel 1503, e tra le biografie pubblicate nel De Caesaribus del veneziano Giovanni Battista Egnazio nel 1516. La vita di Mohammed entrò anche nelle migliori biblioteche dell’Italia quattrocentesca.
Mohammed lasciò così la compagnia di orribili eresiarchi e pseudo-profeti barbarici per unirsi ai generali romani e ai governanti ottomani. Altri fattori hanno contribuito a questo spostamento. La discussione sulla natura dei profeti nell’Averroismo arabo, ebraico e latino, così come l’affermazione della biografia dei grandi uomini come un nuovo genere storiografico dominante, che comprendeva filosofi e medici arabi, erano elementi fondamentali di questo processo. Inoltre, il dibattito rinascimentale sulla nobiltà della natura umana ha aiutato gli studiosi a guardare i saggi non cristiani con un’altra prospettiva. Lo stesso Galateo nella sua lettera alla nobiltà del tardo Quattrocento, indirizzata a Marco Antonio Tolomei vescovo di Lecce dal 1485 al 1498, affermava che «tra gli arabi nelle generazioni più vicine a noi, molti di quelli eccellenti sono fioriti nello studio della saggezza». Alcuni decenni prima, persino il cardinale e polemista spagnolo Juan de Torquemada ha ammesso che tra i Mori c’erano molti re, principi e grandi uomini [17].
Il profeta armato e Il profeta disarmato
Machiavelli menziona i “profeti” in un breve commento, nel sesto capitolo del Principe, dove scrive:
Come si può leggere, secondo Machiavelli, anche i profeti sono soggetti alle regole politiche (del potere). Innanzitutto, il Segretario non fa differenza se figure (apparentemente) nefaste come Cesare Borgia o un (autoproclamato) profeta come Savonarola agiscono politicamente. Entrambi devono utilizzare gli stessi strumenti per avere successo. Non si fa menzione di alcun Dio che aiuta o potrebbe aiutare i suoi eroi.
Il Segretario, infatti, ci spiega che l’uomo agisce solo nel proprio interesse, e solo nel caso in cui è minacciato accetta il cambiamento. Gli uomini obbediscono, in effetti, al solo timore o peggio al terrore che altri uomini riescono a suscitare in loro. Spesso la questione del profeta disarmato in Machiavelli viene legata alla figura del frate domenicano Girolamo Savonarola, ma bisogna ricordare che il Segretario non riteneva il frate un profeta, ma piuttosto un ingannatore che mentiva al popolo per imbrogliarlo. Detto questo, a chi si riferiva l’autore del Principe con le definizioni di profeta armato e di profeta disarmato?
Pensiamo che la questione del Savonarola sia solo un punto su cui l’autore voleva appoggiarsi per rafforzare la sua teoria sulla maniera dell’agire di qualsiasi innovatore inteso come “profeta”. Infatti, nel capitolo VI del Principe dove il Segretario parla di Mosè, Ciro, Teseo e Romolo, scrive che se non ci fossero le armi non avrebbero potuto governare:
Ma a quanto si sa nessuno di questi personaggi fu un innovatore ed ebbe ad usare la forza o la violenza con il suo popolo, tranne Mosè che portò una nuova legge essendo un profeta e, nonostante questo, non usò mai la forza (secondo l’uso machiavelliano) e al massimo si è indignato o contrariato.
Secondo D. Michalopoulos [20], il pensiero del Segretario produce una serie di osservazioni non molto diverse da quelle della legge islamica e la citazione di Mosè e dei fondatori di Stati leggendari sarebbe solo un camuffamento dietro al quale l’autore nascondeva la sua vera intenzione, che era l’esempio del profeta musulmano, che a un certo punto del suo messaggio fu costretto a usare le armi per difendersi contro quelli che rifiutavano “la nuova legge”. Quindi si allude più che altro ad un paragone tra la vita di Gesù Cristo (il profeta disarmato) e di Mohammed (il profeta armato) [21].
Anche se Dio esiste, secondo Machiavelli, non sembra avere alcuna disposizione reale per aiutare i suoi profeti, li lascia agire secondo le regole sociali (ed è proprio quel che ha fatto il profeta musulmano). Diventa chiaro che l’attore religioso si vede gettato negli affari politici, di cui deve accettare e applicare le regole senza alcuna speranza in qualche appoggio divino, almeno se vuole avere successo politico. Di conseguenza, la capacità dei profeti di agire e affermarsi non è dovuta a una risorsa soprannaturale (ad esempio un’assistenza speciale di Dio) ma alla loro intrinseca capacità. Come scrive Machiavelli, il profeta – come ogni altro politico di successo – parla di dipendere solo da se stesso e di essere in grado di esercitare la coercizione. Se fosse così, allora perché il segretario ha voluto nascondere la sua intenzione? [22].
Come già accennato all’inizio di questo lavoro, l’epoca in cui visse Machiavelli fu un’epoca di forte disprezzo verso l’Islam e i musulmani. Si parla del nemico per eccellenza della società cristiana, soprattutto dopo la caduta di Costantinopoli nelle mani di Mehmet II nel 1453, e visto che il Segretario fu cacciato dalla sua carica dopo la caduta della Repubblica, non gli andava sicuramente bene esprimere questa sua idea esplicitamente [23], perché poteva essere interpretata come un’ammirazione del nemico della fede, il che poteva peggiorare la sua situazione, tenendo presente che il Principe era diretto ai Medici – quindi anche al contemporaneo Papa Leone X dei Medici [24] e che la sorte di Firenze era dipendente dalla volontà dei Medici di Roma, tanto più che l’ex Segretario si preoccupava principalmente di riconquistare la sua carica politica.
Da un punto di vista politico, il Segretario faceva parte dei guelfi o piuttosto faceva parte di quelli che aspiravano a uno Stato nazionale italiano ed erano di conseguenza nemici del Sacro Romano Impero. I suoi modelli erano Cesare Borgia e suo padre papa Alessandro VI. Quest’ostilità del Machiavelli verso il Sacro Romano Impero rendeva più eclatante la caduta dell’Impero Bizantino, soprattutto per il fatto che erano gli italiani e gli spagnoli a combattere a fianco di Costantino XI Paleologo per la difesa di Costantinopoli contro le truppe di Mehmet II [25].
Così, con Machiavelli, la figura di Mohammed ha perso l’immagine di “non credente”, nemico della fede cristiana, per ottenere non solo un certo rispetto ma anche una vera e propria legittimità politica oltre che militare. Solo tenendo conto di questi punti possiamo probabilmente capire le profonde intenzioni del pensiero del segretario. Secondo il Michalopoulis, il pensiero del Machiavelli può essere perfino riassunto in questo passaggio del Corano:
Gesù riusciva a risuscitare i morti, ma gli uomini, cercando sempre il loro interesse personale prima di qualsiasi altra cosa e obbedendo solo per timore, decisero di fargli del male, essendo un profeta disarmato (che non può imporre la sua legge). Machiavelli a questo punto pose la domanda: a cosa serve convincerli? Siccome la paura rimane sempre la causa principale che comanda gli uomini e che li fa sottomettere, come ha fatto il profeta musulmano, che ad un certo punto ha dovuto usare la forza per difendersi contro quelli che rifiutavano il cambiamento e imporre la sua legge. L’Islam, infatti, ha portato una cosa che mancava al cristianesimo, cioè il comportamento realistico verso gli uomini che sono per natura “tristi”.
L’immagine polemica del profeta musulmano come un lavoratore di falsi miracoli continuò, però, a giocare un ruolo importante nel discorso europeo sull’Islam fino alla fine del sedicesimo secolo e anche dopo, ma ha anche acquisito, a seconda del contesto, un significato molto diverso. Qui la “simulazione” di Mohammed non è più il segno della sua falsa profezia, ma del successo della sua strategia politica e militare.
Questo esempio dimostra che la riscoperta del passato classico accompagna la riscrittura della storia della tarda antichità, così come il coronamento del profeta musulmano appartiene a un più ampio dibattito sul rapporto tra religione e potere. All’inizio del XVI secolo, specialmente nei libri di storia, Mohammed, il nuovo Principe della tarda antichità, trovò il suo posto tra gli antichi saggi.
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