Un quarto di secolo addietro, battendo i lavici lastricati di Cefalù, Vincenzo Ognibene mi parlò a lungo, vulcanico in proprio, di un suo voto: onorare il lascito letterario di Giuseppe Giovanni Battaglia, l’amico di sempre, da poco scomparso (il 2 novembre 1995, d’un brutto male, a soli quarantaquattro anni), che gli aveva nei penultimi giorni affidato le sue estreme, ominose prove poetiche, Fantàsima e Discesa ai morti [1], dove un imprevisto ritorno al dialetto (abbandonato sul finire dei Settanta) scandiva il ritorno al paesaggio primigenio nell’ora del suo farsi cenere.
La remota promessa − nel tempo (e nella pazienza) adempiuta con edizioni integrali delle poesie in dialetto, delle poesie in lingua, dei testi per il teatro [2] – ha ora sigillo in Voglia di notte, breve romanzo o ampio racconto del 1993 (offerto nel 2018, in una minima tiratura, da Plumelia, e quindi, nel 2019, per una più liberale diffusione, dalle edizioni Arianna, con apporti dello stesso Ognibene, del regista Pasquale Scimeca e dello scrittore Paolo Ferruccio Cuniberti), che preserva un altro e sorprendente aspetto di una personalità non comune: un talento tutto da scoprire.
Personalità, lo sappiamo, ben manifesta fin dalle poesie in vernacolo di La terra vascia (1969), diciottenne esordio ‘battezzato’ da Ignazio Buttitta. In questa prova e nelle due che la seguono − La piccola valle di Alì (1972) e Campa padrone che l’erba cresce (1977) − l’autore si vanta «pueta viddanu»[3], il poeta contadino che vuol essere insieme testimone di un mondo in via di scomparsa e megafono delle perduranti iniquità che lo martiriano. Si vanta, anche se fra i toni tribunizi attinti al ‘padrino’ e i quadretti rusticani di marca verista si insinua una vena di sognante insofferenza, una fibra di assorto furore che ne incrina la determinazione, la corazza ideologica.
Non a caso l’ulteriore lavoro in dialetto (raccolto in L’Ordine di Viaggio 69-’78) [4] registra la repentina caduta del motivo sociale e dell’istanza figurativa che vi era connessa. Il pensiero si scopre cancrena, la ragione cieca e puttana. La Valle di Alì, ossia la sorgiva contrada di Aliminusa, si svuota delle sue protettive presenze (ne saranno emblema i nidi rovinati e la piazza deserta) per farsi territorio incognito, landa gremita di larve, di vibrazioni, di orme da interrogare con tremore. Le sue coordinate abituali sono come travolte da una forza arcana (figurata in fuoco, vento, polvere) e la parola non sa più nominarle o, nominandole, si danna: «Lu cantu nasci di serbitù. || Cu ’un trova la via chianta paroli» (Il canto nasce da servitù. || Chi non trova la via pianta parole) [5]. Trepidamente scrutato nel suo attuarsi («mi sfrazzu e sfrau pi mutari»: mi spreco e consumo per mutare) [6], perseguito sino alle conseguenze più amare («’Un sugnu né pueta né viddanu») [7]. il cambio di prospettiva, la spoliazione di senso non può non contaminare il linguaggio. Che ora, lasciata ogni pretesa imitativa o assertiva, si impianta impavido nello smarrimento, chiede «paroli liggeri di foddi»; e tende a crescere su sé stesso, a nutrirsi della propria carne, a mettersi in causa. Ma quanto più si sbalestra e scontorna, la voce si fa perentoria, assoluta, bruciando ogni residuo: si afferma come enimmatico adagio, vaticinante comando; si forgia musicalmente al maglio delle ripetizioni, conquista una pronunzia originale e potente.
Questo tutt’altro che trascurabile esito viene quasi azzerato quando, nel 1978, a ventisette anni, Battaglia chiude di colpo il cantiere dialettale, che pure annovera caldi consensi, per aprire un’officina italiana, in cui l’esercizio della poesia si alterna a una assidua stesura di testi per il teatro.
Il suo discorso rimane imperniato sul riconoscimento dell’origine: «da qui tutto | parte, e posato è dentro il luogo» [8]. Fin dai primi titoli (Luoghi di terra e cielo, I luoghi degli elementi, Inventario degli strumenti del padre e della madre), il compito continua ad essere l’insonne auscultazione del panorama primario che, se pur frantumato ed evanescente, è più che mai cancello del mondo, crocevia di tutte le strade. E in questo grembo elusivo, dove chi torna è straniero e chi fugge si radica, «cadono le mura | delle epoche e bruciano le cause d’ogni teatro» [9]: il tempo univoco della storia declina per inalbarsi in un «campo brullo»[10], o meglio, per usare un’immagine di Antonio Pizzuto, in una «saga di spazio»[11].
Nello stesso tempo il suo orizzonte si allarga. Nel foggiarsi, il nuovo strumento mette alla prova un più vasto mondo. Ne fanno fede i versi ‘ecfrastici’ (le ‘interpretazioni’ dell’Angelus di Millet, del Quarto Stato di Pelizza da Volpedo, delle Meniñas di Velasquez), le ‘gare’ ingaggiate con artisti contemporanei come Gianfranco Baruchello o Bruno Caruso, le intense variazioni su temi religiosi o biblici (Tobit e Rut; Requiem e Genesi; Il libro mistico; Abramo e Isacco; Davide scaccia i Demòni), le escursioni in paesaggi ‘alieni’ (Arsoli, prosit per I.; Rocciàs; Santa Croce a Firenze; Roma Termini).
Questo itinerario, conforme al peregrinare dell’uomo (con tappe a Roma, Torino, Milano), esige, come il precedente, un altro decennio. Il suo ultimo passo, La conta delle ore, compiuto tra il 1988 e 1992, segna insieme l’abbrivio di una nuova stagione: il tempo del ricongiungimento, del nostos che incrocia la fine del viaggio terreno.
La raccolta, che apparirà postuma nel 2004 [12], è in uno la primavera delle ore ritrovate e il crepuscolo delle ore contate, delle ore che restano da vivere: il verso che celebra il rientro nel solco nativo ha contrappunto e sostegno nell’invisibile coro dei morti. Nel Canto d’amore per i defunti del luogo. In memoria dei morti di Aliminusa è inciso a chiare lettere: «Poesia | non si leva se non è contenuta | nell’anima dei morti del luogo» [13]. Al loro lume si squaderna, inesausto, il paesaggio: «Chi può estinguere la polla che ci innamora? | Le mille canne che servono per suonare? | Le frasche su cui riposa il sangue | di cui vanto la carezza?» [14].
Sapendo ormai che «ogni cosa ci aspetta per finirci, per stremarci» [15], il poeta le riguadagna ad una ad una − sentieri, erbe, lucertole, grangie −, le circonda e le blandisce. E il suo metro si limita appena a nominarle, insolitamente piano, scoperto, arreso, appagato: semplice e solenne come una melopea biblica.
Di questa Pasqua partecipa il riacquisto, dopo tredici anni di silenzio, della «lingua della madre, primigenia e assoluta, integra e viva», recupero di «pulsazioni da cui non è possibile prescindere» [16], che innerva due brevi sequenze: i quattordici testi, brevi o brevissimi, di Fantàsima e le nove quartine di Discesa ai morti. Poche linee. Minimi graffiti. Ma conclusivi, intangibili. Capaci di convocare ogni risorsa, di racchiudere il senso di una ricerca, il pensiero di una vita. Ora, a un richiamo lungamente atteso, la voce si porta alla sua riva, si genuflette al suo nume. E il luogo offre – desiderato e respinto, desiderato e respinto – la sua plenitudine di rigoglio e decomposizione, vita e morte, passato e futuro. Qui, nell’alveo che ricongiunge principio e termine, la parola segue docilmente il suo corso, attraversa attraversata le forme: giusta, traslucida; in pace. In pace con i suoi morti. Qui si celebra una raggiante catabasi. E se nella prima serie i «pantàsima» sono ancora escrescenze di luce meridiana e nella seconda già figure di cinigia, dal loro bisbiglio, dai loro racconti fiorisce l’unico invito a oltrepassare la soglia, sorte di una interminata preghiera. Come nel Canto d’amore per i defunti del luogo si consuma, a lampi, l’Avvenimento: la riunione dei tempi, il sovrapporsi dei cieli, la compresenza delle generazioni: «In ancestrali profondità | nulla s’è perso, e tutto è qui | approntato per accoglierne la luce | che ci porta nell’ordito di tutte le storie» [17].
La storia di Voglia di notte, concepita nello stesso periodo, si inscrive in questo cerchio, vibra della medesima luce: la luce del Giudizio, del Giorno che riunisce per sempre le anime del luogo, sollevandone il destino. I trentuno brevi capitoli che la dispiegano sono lasse di un cantare, retablos di un menestrello ambulante, quadri di un Mistero Buffo; la Storia che vi si ingrana trasfigura in sagra, in leggenda, lievita a proporzioni esorbitanti − con gesti fuor di misura e voci stentoree che rimandano all’epopea sgangherata dell’Opera dei Pupi −, concresce in volute orientali e barocche.
La Storia riguarda il conflitto fra giornalieri e baroni, le occupazioni di terre in Sicilia nel secondo dopoguerra, dramma sociale impersonato nei due quadri iniziali dal nobile possidente Giulio Trecase d’Alimina e dal contadino Ignazio Lanzafame, «il primo e l’ultimo, almeno sino a quel momento, a ricevere la terra della “riforma”». Vestito di bianco dalla testa ai piedi e in groppa a un candido destriero (reduce forse dalla chestertoniana Ballad of the White Horse), l’uno è colto a covare, con la spocchia dell’assenteista, le sue disutili distese di «immacolato» sambuco; l’altro arranca con l’arto che gli rimane, brandendo la stampella «come una spada», verso il magro «campo dei papaveri», posto «a monte d’Alimina, su una scarpata pietrosa, Gòlgota dei giornalieri di quel tempo». Il barone è circonfuso di bianco, così bianco da farlo sembrare un «corvo» (malauguroso volatile forse allusivo al risvolto reazionario del biancofiore di democristiana memoria); il villano di rosso, quello dei papaveri, del sangue dei giornalieri, e del suo credo politico.
Appena stabilito, con un gioco di elementari contrasti cromatici, di ‘tinte unite’, il leitmotiv, il racconto subito deraglia, mostrando la sua natura non cronistica, non lineare, il suo andamento erratico e desultorio, ‘a capriccio’.
I sei successivi ‘carretti’ formano infatti il travolgente convoglio delle sesquipedali imprese erotiche di donna Annunziata Spampinato di Cavuso d’Oro, moglie negletta del Barone (dedito alla sola concupiscenza della ‘roba’) che si va offrendo senza ritegno e senza soluzione di continuità ai più dotati fauni dei paraggi (tutti, per contrappasso, di rigorosa estrazione plebea, e tutti assunti nel cielo degli Amanti): Venere Pandemia di scandalosi appetiti e madornali sospiri, involta in situazioni spinte e parole grasse da farsa campagnola o da licenziosa arcadia, e oggetto di fioriture encomiastiche degne di un poeta arabo o dell’autore del Cantico dei Cantici, che avranno il loro culmine nell’epicedio della Grande Meretrice:
«sia data per sempre gloria alle sue floride cosce e alle sue perniciose mammelle, alle sue labbra morbide come piume e alla sua bocca nido di pettirossi, ai suoi occhi generosi e concupiscenti e alle sue siderali sopracciglia e, in ultimo, al suo miele ineguagliabile: alla sua fonte d’acqua pura e densa di montagna, dolce e cheta di lago, salata e forte e distruttrice di mare, impetuosa e giocosa e infantile di torrente».
Esaurita la filza pornografica, due tavole ci riportano sul punto imbastito nei ricami inaugurali. La prima detta un report («La notte del tre di giugno, festa del Santo Crocifisso, partirono da Alimina mille giornalieri per occupare il feudo di Santa Maria») simile a quello che in Garabombo l’invisibile marca l’inizio della rivolta dei comuneros di Yanahuanca: «Il ventisei novembre, alle tre del pomeriggio, gli incaricati fecero scampanare in tutti i villaggi»[18].
Ma è ancora una falsa partenza: un’altra deviazione ci spinge sulle orme del solitario pastore Nino Barbaro, detto «il soave», e del titolo della storia che stiamo leggendo, perché, con un intrigo ‘alla Martoglio’, la sua pelle scura e i suoi crespi capelli sono stati prima spacciati dalla fedifraga madre per una «voglia di notte» non esaudita, e fatti poi fruttare nel proficuo «bisinisso» di un’attrazione da fiera. Snodo cruciale, perché il suo sembiante d’eremita, di santo francescano, tradisce l’autore ormai atteso alla sua sera, e sempre più assorto nella visitazione del luogo in cui dimorare:
«Per pianure fatate, dalle cento variazioni di verde, per borri argentei, per colline gialle di ginestra, lungo scarpate pregne d’artemisia, di gotiche ferule fiorite e di mille cattedrali d’agave, nei luoghi dove miriadi d’antenati avevano dormito all’addiaccio e sognato che non fosse tradito il gesto e la parola, e che un tempo sempre eguale “Per una sonata un uovo, per un uovo l’anima” fosse principio e fine di tutto, egli parlava con gli alberi, con gli uccelli, con le rane, con le formiche, e si sentiva un dio».
Nino Barbaro sarà al centro della notte di tregenda che precede la marcia verso il feudo: nuova diversione presidiata da Baratta e Fa Fuoco, illusionisti dell’Erebo affini alla coppia Woland−Korov’ev del Maestro e Margherita, clowns di un cabaret metafisico che terrorizzano i servi della terra, profetandone il gramo futuro di servi d’industria, con lampi, botti, piroette ed eruzione di fuochi che sembrano lava ma sono altoforni (come quello dell’AFEM che a poche verste da Aliminusa avrebbe presto acceso il suo calderone).
Il quindicesimo riquadro riconduce ancora al tema d’origine, ma con un ulteriore indugio: il resoconto dei fatti è affidato a un narratore interno, il giornaliere Ciccio Lanzafame, figlio di Ignazio, che ne riferisce «come fosse al braciere e dovesse tirar notte», cioè virandoli in mito, in superfetazioni di un rustico Omero. Il suo annunzio della gratuita strage di braccianti («formiche della terra», ossia irrisori Mirmidoni) commessa dal barone Trecase e dai patrizi palermitani ospiti della sua tenuta («avevamo appena cominciato a raccogliere le spighe che il vento di ieri ha fatto cadere, quando ci hanno sparato addosso») dà via a un martirologio, a un catalogo epico:
«Il primo a cadere è stato Minico Sabiatale, una pallottola in testa toccò a Vanni Cirrito, un’altra fece uscire le viscere a Toto Manca, Ciccio Picicuto cadde gridando “Madonna mia!”, Perollo, Tonio, Tonio Perollo s’accasciò sopra Ciccio Picicuto, Saro Pacienzia morì straziato da una gragnuola di colpi […]»
Un catalogo duplicato e contrario, nel parossismo di una protesta carnale, da donna Annunziata, che riappare nel sedicesimo, colma del disgusto per l’infame eccidio, prefigurando una rivalsa delle sue:
«Lo avrebbe ammazzato con le sue stesse mani, avrebbe liberato volentieri il paese da quel demonio, e poi si sarebbe messa a cosce larghe e avrebbe detto:
“Vieni Saro Checco, ché ti voglio addolcire la bocca. Vieni Tonio La Greca, ché non hai mai goduto, io ti voglio allungare la vita. Vieni Serafino La Ranuzza, poiché sei troppo magro, io ingrassare ti voglio” […] “Vieni Ercolino Volpe. Vieni Vanni Risicato. Vieni Cicco Traficante. Vieni Cicco Còcchiula.” […] “Vieni Iachino Rizzo. Vieni Rocco Crasto, poiché le corna voglio farti calare…” […] “Vieni Beddicchio Strummento, poiché il tornio è pronto”».
Dopo questo memorando elenco di inviti, i fili della storia si riannodano, per confluire nella piena del concitato, esilarante intermezzo da buffonesco Grand Guignol, che contempla, nell’ordine, l’assedio della turba di contadini inferociti al palazzotto dei nobili assassini, l’ingloriosa morte di Trecase per zampa di un’asina macilenta, quella del «principino» Saro Oddo e del barone Tempovoglio ad opera di donna Annunziata, quella del conte Franzapane di Col Torto dal pugnale del principe Bischereno di Val Demone, quella del principe Bischereno manu propria.
Contraltare di queste ingloriose scomparse sono le esequie dei giornalieri caduti, con una nuova ‘chiamata’ degli eroi veri, all’insegna di una pietas virgiliana venata di gentile ironia:
«Totò Manca e Ciccio Picicuto ebbero per il loro estremo viaggio un mazzetto di ginestra; Tonio Perollo s’ebbe una lacrima di Rosolino Panzamollo, che teneramente gliela impresse con un dito sulla fronte, e Saro Pacienzia, pazienza, s’ebbe un banale, affettuoso gioco di parole sul suo cognome».
L’appello dei martiri introduce la scena-madre, quella in cui il corteo funebre diretto al paese si incontra con il corteo religioso, riunendo in un unico fiume il doloroso gaudio del popolo dei vivi e il dolore impresso nel popolo dei morti:
«II battito degli zoccoli dei muli e degli asini si fondeva, ormai, con lo scalpiccìo della processione del Santo Crocifisso. I giornalieri avanzavano nel corso, dritto come una candela, e le loro mogli, le loro figlie, i loro bimbi, i loro vecchi procedevano in senso contrario».
Qui il racconto avrebbe potuto concludersi. Nella figura rituale che ne restituisce iconicamente il senso il rischio dell’oleografia è ben scongiurato dal controcanto comico di Santo Imperio, «il più pio tra i giornalieri di Alimina, non certo il più forte», che porta la sua Croce con andatura sbilenca e mistico ardore, ma è il solo a non accorgersi di quel che è successo, e di Don Saro Cicero, prete ‘sanculotto’ che maledice sanguigno i magnati «sino alla settima generazione» senza avvedersi di star parlando ai morti.
Quasi a sorpresa, vinto diresti dalla preghiera di un pubblico paesano mai sazio di nuove, il nostro giullare si presta invece a prolungare il suo gioco, moltiplicando ‘attrazioni’ e improbabili sviluppi da feuilleton.
Protagonista di questo epilogo si può dire aggiuntivo è sempre donna Annunziata che, per aver dato corso a un temerario conato sessuale dell’anziano servitore Tonio Obliquo e quindi provocato il suo tragicomico infarto ‘sul campo’, s’induce a farsene mater dolorosa, accogliendolo in grembo come figlio e producendosi in una sconnessa parodia di lamentazioni mariane, in una sguaiata litania, con la conseguenza di farsi a sua volta uccidere da Masi Checco, l’umiliato Sposo Promesso. Ma ancor più cogente protagonista è il popolo di Alimina, cui è data la più ampia facoltà di parola, come a dar suono a una voce da sempre stretta al silenzio. Ecco allora il coro delle massaie che prendono in cura, fattive e insieme cerimoniali, la salma di Tonio Obliquo:
«“Io lo lavo” disse, umile, Nena Androlica.
“Io gli faccio la barba” fece, con aria competente, Cornelia Arimante.
“Io gli taglio i capelli” affermò, orgogliosa, Iachina Perollo.
“Io lo vesto con panni morbidi come piume” disse, invasata, Vanna Panzamollo.
“Io lo compongo nel letto” fece Apara Muluna, grave, conscia del compito che l’attendeva.
Ecco i giornalieri evocare a uno a uno i loro morti dinanzi al carabiniere Pinin Savoia, «piemontese sino al midollo», prontamente accorso per arrestarli:
“Minico Sabiatale!” gridò dal fondo delle viscere Ciccio Lanzafame, come a chiamare a raccolta i morti e a incitare i vivi a reagire.
“Vanni Cirrito!” gridò Turi Sarda, avvicinando una mano alla bocca affinché non si perdesse nemmeno una sillaba di quel nome.
“Totò Manca!” continuò, con quanta voce aveva in gola, Iachino Rizzo. “Ciccio Picicuto!” disse, con rabbia raffrenata, Cavatino.
“Tonio Perollo!” scolpì nell’aria Tano Garibardi.
“Saro Pacienzia!” invocò, spazientito, Gnaziu Impedicato».
Ecco il «prode» Ignazio Lanzafame, che si elegge tribuno e condottiero del popolo, ma è solo capace di massacrare la smunta asina di Cavatino (colpevole di avergli sottratto d’un calcio la gloria di giustiziare il barone omicida), per esser da parte sua giustiziato dal Masi Checco che ha appena ucciso la baronessa. Ecco infine Serafino Vertulanica, l’ultimo degli ultimi, «un povero cristiano senza arte né parte», correre in proscenio con un recitativo da Cavalleria rusticana: «“Hanno ammazzato l’asina vecchia di Cavatino Ingrassia. L’ho vista io con miei occhi. Diecimila coltellate le hanno dato!”». Una folla di nomi che riconsegna il paese ai suoi abitanti e l’autore al paese, in un crescendo, in una apoteosi che ne abbraccia la vita e la morte, il dramma e la pagliacciata, il sangue e il candore.
Sebbene discutibile in certe uscite del suo allegro e selvaggio decorso, Voglia di notte rimane al fondo un’offerta votiva, il ringraziamento di un dono: il dono del luogo che ti costituisce e da cui non puoi prescindere, e che è il tuo vero patrimonio. Da qui il poeta è partito e qui ritorna, privo ormai dei fervori della giovinezza, e ormai involto nel fervore del congedo, nell’alta euforia del Viaggio. Come altri testi coevi (da Canto d’amore per i defunti del luogo, a Fantàsima, a Discesa ai morti), Voglia di notte è poi un rendiconto, il bilancio di un uomo alle soglie del nulla, ed è ancora la summa di un artista orgoglioso delle sue conquiste, una collezione di procedimenti.
Ai procedimenti del poeta rimanda ad esempio l’iperbato, l’inversione che sturba il perbenismo della prosa («il povero vecchio sentì come una scossa, di lucertola un moto veloce al primo sole mattutino»), o il gusto della citazione taciuta, sia la «luce ferma, impassibile, senza smarrimenti» dell’incipit, che sembra smorfiare i «Fleuves impassibles» del Bateau ivre, o quel sorprendente «la terra se ne rallegrò» (del «boato di popolo») che si misura invece con Giovanni, 8, 56 («Abramo, vostro padre, esultò nella speranza di vedere il mio giorno; lo vide e se ne rallegrò»), o le riprese da ballata fra il termine del settimo riquadro («La sanguisuga che gli aveva, si disse, succhiato il criterio, aveva fatto un’altra vittima») e l’avvio dell’ottavo («La sanguisuga che aveva succhiato il criterio a mastro Pietro, si consolò»), fra la conclusione del dodicesimo («Ma sarebbero passati molti anni prima che avesse un’autentica esperienza d’incantato fervore e furore») e l’inizio del tredicesimo («La prima vera esperienza d’incantato fervore e furore, Nino la ebbe la notte che gli apparvero il vecchio Baratta e il suo palafreniere Fa Fuoco»), per non dire delle improvvise aperture di canto, come il mirabile ‘monologo esteriore’ di Ignazio Lanzafame sorpreso a vagheggiare le fioriture edeniche, il «paradiso deliziano» [19] del suo arido fazzoletto di terra:
«Il rosso ci vuole: sia quello della melagrana; il verde serve: sia quello delle melette; il giallo è impellente: sia quello del frumento, ah, il gallo tra le spighe che sveglia il bosco, che dice altolà alla luna, ah, il gallo che ha covato il sole per l’intera notte!, l’arancione è imperio: sia quello della nespola maestosa e soave; l’argento è saggezza: sia la quiete che fiorisce dalla mia fatica».
Delle esperienze del drammaturgo fanno certo tesoro i dialoghi, sempre sopra le righe, sempre ‘in piazza’, tenuti su una estroversa vivacità, su un plein air in cui senti il Verga dei Malavoglia e il Pirandello dialettale, di Liolà e La giara: nella coralità di un campiello siciliano, di un’aia gremita di voci, con il microfono che passa di mano in mano a comporre l’affettuosa radiofonia di una piccola patria.
Ma il procedimento principe è, correndo alla Scolastica, l’adaequatio verbi et rei, il modo con cui la parola aderisce al milieu che rappresenta. Una parola terragna, concreta, tangibile, che sembra emanare dal luogo, dalle sue zolle («V’era, forse, qualcosa che non si toccasse con mano?!», riflette Nino Barbaro); un italiano pregno di succhi dialettali, e votato all’ipotiposi, alla figurazione vivida e rilevata (a partire dai nomi-oggetto, la cui pronunzia basta a scolpire i personaggi). Così Ignazio Lanzafame è «più secco di un chiodo», il becero e becco barone si lascia cadere sul letto «come una cesta sfasciata», il gagliardo amatore Settimo Vàddara si riduce a «una sarda, un filo di paglia», Masi Checco presenta «una bella testa grossa che sembrava una zucca e un corpo magrissimo e lunghissimo che sembrava una canna», Turi Sarda spalanca una bocca «più grande di un càntero». Un dettato verghianamente incline a modellarsi in proverbio. «Cenere sei e cenere ritornerai», sentenzia Piddu Pinnalora, mentre il principino Saro Oddo ha la disdetta di «raccomandare, come si suol dire, la pecora al lupo», e Cavatino Ingrassia lascia andare uno scorato «asina vecchia, padrone perso!»; e persino la cavalla Titina non si perita di erogare alla padrona la sua pillola di saggezza: «poiché si sa, sembrava dirle, almeno per i vivi solo alla morte non c’è rimedio».
Risorse dell’amore. Non solo accorte applicazioni di un lungo apprendistato. La somma dei congegni non produce un intero, un conchiuso racconto, ma una ‘storia infinita’, la fiaba che ci contiene e che non si può estinguere. Il suo explicit sarà un’eco perduta nella lontananza: «i lamenti di Ciccio Lanzafame ingravidarono la sera». Non è una fine, è il principio del Viaggio annunziato dal poeta («Lo scriba è stanco e, in punta di piedi, | s’allontana dalla vita»)[20], per essere «Tutt’uno con i miei morti | nella vigna del Signore» [21].
Dialoghi Mediterranei, n. 43, maggio 2020
Note
[1] Giuseppe Giovanni Battaglia, Fantàsima, dieci disegni e un acquerello di Vincenzo Ognibene, Villaurea, Palermo 1993; Discesa ai morti, introduzione e traduzione di Franco Pappalardo La Rosa, con due disegni di Vincenzo Ognibene, Aliminusa, Associazione culturale «Il Baglio», 1995.
[2] Le poesie in dialetto sono riunite in L’Ordine di viaggio. Poesie 1968-1992, presentazione di Giovanni Ruffino, cura e copertina di Vincenzo Ognibene, Aliminusa, Arbash, 2005; i versi italiani in Poesie. 1979-1994, a cura di Vincenzo Ognibene, introduzione di Donatella La Monaca, Roma, Lithos, 2015; le opere drammatiche in Sei testi teatrali, presentazione di Lina Prosa, cura e copertina di Vincenzo Ognibene, Aliminusa, Arbash, 2015.
[3] Nasciu ’nta la campagna, ora in L’Ordine di viaggio. Poesie 1968-1992: 29.
[4] Giuseppe Giovanni Battaglia, L’ordine di viaggio 1969-78, presentazione di Salvatore Silvano Nigro, Catania, Prova d’autore,1988.
[5] Cu ’un trova la via chianta paroli, ora in L’Ordine di viaggio. Poesie 1968-1992, cit.: 93.
[6] Paroli liggeri di foddi, ivi: 83.
[7] Lu puzzu, ivi: 75.
[8] Il contadino guarda volare gli uccelli, ora in Poesie. 1979-1994, cit.: 81.
[9] Estate, ivi: 102.
[10] Lo scoppiettìo del vuoto, ivi: 448.
[11] Cfr. Antonio Pizzuto, Pagelle I, Milano, Il Saggiatore, 1973: 44.
[12] La conta delle ore. Poesie 1988-1992, a cura di Vincenzo Ognibene, prefazione di Leone Piccione, Palermo, Nuova Ipsa, 2004.
[13] Ora in Poesie. 1979-1994, cit.: 401.
[14] Ivi: 405.
[15] Ivi: 413.
[16] Nota dell’autore a Fantàsima, ora in L’Ordine di viaggio. Poesie 1968-1992, cit.: 143
[17] In Poesie. 1979-1994, cit.: 400.
[18] Cfr. Manuel Scorza, Storia di Garabombo l’invisibile, Milano, Feltrinelli («Universale Economica»), 1977: 187. Nella sua partecipe Postfazione Paolo Ferruccio Cuniberti scrive: «Il villano Lanzafame ricorda i personaggi epici di Rulli di tamburo per Rancas o l’eroe Garabombo».
[19] Cfr. Angelo Maria Ripellino, Apocalisse in stile liberty, «L’Espresso», 18 febbraio 1968: 18.
[20] Lo scriba è stanco, ora in Poesie. 1979-1994, cit.: 452.
[21] Canto d’amore per i defunti del luogo. In memoria dei morti di Aliminusa, ivi:. 410.
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Antonio Pane, dottore di ricerca e studioso di letteratura italiana contemporanea, ha curato la pubblicazione di scritti inediti o rari di Angelo Maria Ripellino, Antonio Pizzuto, Angelo Fiore, Lucio Piccolo, Salvatore Spinelli, Simone Ciani, autori cui ha anche dedicato vari saggi: quelli su Pizzuto sono parzialmente raccolti nel volume Il leggibile Pizzuto (Firenze, Polistampa, 1999).
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