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L’isola che c’è. São Tomé tra antropologia storica, turismo e immaginari

 

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Panorama dell’isola São Tomé

di Annalisa Di Nuzzo

Dal colonialismo alle culture ibridate: lo sguardo antropologico sull’isola di São Tomé

Agli inizi del XXI secolo restano frammenti significativi del lungo rilascio culturale della colonizzazione europea e soprattutto della decolonizzazione. Tutto questo complesso fenomeno è di particolare pertinenza e interesse per l’antropologia culturale per le ibridazioni e i meticciati che ne sono derivati e che persistono quali sintomi e manifestazioni delle attuali forme culturali globalizzate.

I percorsi sono stati molteplici e hanno dato vita a differenti risultati.  Dall’Europa si diramarono diverse strategie di colonizzazione che investirono potenze politiche ed economiche come Inghilterra, Francia, Spagna, Portogallo. In particolare, siamo interessati a conoscere alcune specifiche modalità che l’impero portoghese ha adottato durante la sua lunga vicenda coloniale La guerra che il Portogallo sostenne in Angola, Mozambico e Guinea portoghese dal 1961 al 1974, è l’ultimo conflitto coloniale europeo. Essa costituì senza dubbio l’avvenimento più drammatico vissuto dal Portogallo nella seconda metà del XX secolo e al contempo un radicale cambiamento per il continente africano, dove quattro Paesi conquistano l’indipendenza dopo cinque secoli di dominio. In questo contesto di colonizzazione/decolonizzazione, si inserisce in maniera assolutamente originale e particolarmente interessante per l’analisi antropologica anche l’arcipelago di Capo Verde, e in particolare l’isola di São Tomé che, pur non avendo vissuto la guerra sul proprio territorio, diviene indipendente nel 1975.

In queste pagine si affronteranno alcuni specifici aspetti di questa colonizzazione e gli effetti di questa singolare creolizzazione. In particolare, il fenomeno delle roças [1] sarà definito attraverso le cifre interpretative dell’antropologia di genere, per descrivere ruoli e presenze delle donne. Infine, attraverso l’individuazione del percorso di decolonizzazione, sarà definita la modalità attraverso la quale gli abitanti di São Tomé stanno elaborando la loro memoria storico/culturale, come vero capitale sociale per il futuro, in vista di una riappropriazione consapevole delle loro complessa identità soprattutto allo scopo di realizzare uno sviluppo sostenibile e un turismo responsabile e auto diretto (Simonicca 2006).

La tendenza olistica dell’osservazione antropologica (Scafoglio 2006) delle comunità offre l’opportunità di utilizzare una diversità di fonti che, nel caso in questione, sono estremamente diversificate ed ecletticamente coniugate. Si partirà dall’antropologia storica (Viazzo 2000) con l’esame di documenti e resoconti di viaggio della prima colonizzazione esaminati come significative e originali etnografie; ci si soffermerà poi sul rapporto tra antropologia e letteratura e su come il romanzo, le biografie e le fonti legate alle nuove forme di comunicazione contemporanee quali il web e i blog di resoconti di viaggio siano utili elementi interpretativi.

In tal senso, l’antropologia delle società complesse tende a realizzare una metodologia riflessiva (Bourdieu 1992), cioè attenta alla reciprocità degli sguardi di ciascun attore presente e partecipe alle costruzioni culturali condivise, e soprattutto aperta alle contaminazioni disciplinari fatto salvo il proprio statuto epistemologico. La ricerca dei saperi contigui si apre, così, al confronto, a discipline diverse come la storia, il romanzo, le altre scienze umane e fornisce un’autocostruzione continua degli stessi. Così ciascuno continuerà a fare il proprio mestiere, anche se ognuno attingerà all’opera degli altri senza preoccupazioni di steccati disciplinari da rispettare. Indubbiamente, la «surmodernità» e l’«eccesso di senso» di cui parla Augé (1993: 28), contribuiscono ad arricchire la problematicità della nuova professionalità dell’antropologo, annullando anche la nozione di tempo e luogo della ricerca tradizionale, offrendo, ancora, nuovi orizzonti definitori. Il mondo contemporaneo stesso, a causa dei cambiamenti spazio-temporali e delle sue trasformazioni accelerate, richiama la necessità dello sguardo antropologico attraverso una riflessione rinnovata e sistematica sulla categoria dell’alterità.

Nella vicenda di questa piccola isola si condensa quanto di più idoneo per un’osservazione antropologica. Il territorio è ovviamente geograficamente definito e delimitato, dunque si può ricostruire come sia nata la comunità e come si è insediata in un luogo disabitato fino alla metà del Cinquecento e che diviene un laboratorio culturale nel corso dei secoli e un interessante sintesi di incroci biologici, economici e culturali. Una terra vergine, un luogo esotico, un mondo verso il quale l’Europa si era data il compito della «civilizzazione», per realizzare esperimenti concreti di comunità ideali. La «buona coscienza occidentale» trovava cosi il modo di giustificare logiche di dominio e di stermino nonché di spoliazione economica e di violazioni di una natura incontaminata.

Il «colonialismo atemporale portoghese» (Ribiero Corossacz 2016) si sposa con la logica di «abitare un luogo», quasi a rendere realistica e concreta quell’utopia politica che dagli inizi del Cinquecento caratterizza la riflessione filosofica europea. São Tomé interpretava al meglio le dinamiche di fondazione di un «luogo-non luogo», idoneo a realizzare una comunità ideale e virtuosa. Così viene descritta l’isola da uno dei marinai delle prime spedizioni portoghesi di cui abbiamo notizia:

«Questa isola di San Tomé, quando fu scoperta, era tutta un bosco foltissimo con li arbori diritti e verdi che andavano fino al cielo, di diverse sorti ma sterili, quali avevano le rame non come qui da noi, che parte si slargano per traverso e parte vanno diritte ma questi le mandano tutte diritte all’insù. [. . . ] vi nascono arbori e crescono in pochi giorni tanto grandi come qui da noi in molti mesi» (Milanesi 1978: 23).

Nel resoconto emerge un rapporto singolare tra natura e cultura: era convinzione diffusa, da quanto si legge, che questa natura selvaggia fosse sterile e incapace di riprodursi nella certezza che in quanto incontaminata, in mancanza della presenza dell’uomo timorato di Dio e del frutto del lavoro non ha capacità di procreare e di perpetuare la vita. A voler comparare questi resoconti di viaggio con le Utopie filosofiche si rincontrano molte similarità. Il luogo è altrettanto esotico e fuori dalle rotte correnti dell’esplorazione e viene abitato e benedetto da una comunità virtuosa che per Campanella, Bacone, o Moro sono i saggi e i sapienti, mentre nella realtà della nostra vicenda sono i navigatori portoghesi che hanno bisogno di uno scalo per il mercato degli schiavi e dei traffici delle merci coloniali. Così, storicamente spetta ai Portoghesi il popolamento dell’arcipelago; sull’isola di São Tomé, disabitata al momento della scoperta, sono fatti affluire gruppi di popolazioni autoctone dal continente africano, soprattutto dallAngola, già colonia portoghese, e che naturalmente vengono impiegati nei lavori delle piantagioni. Questo modello di produzione agricola/schiavista trasformerà l’isola nella più importante produttrice di cacao e caffè. Successivamente, si avvicenderanno francesi, olandesi e ancora portoghesi che assumono definitivamente il controllo dell’isola. São Tomé dunque quasi come la Città del Sole di Campanella, che nella finzione del trattato filosofico diventa un resoconto di viaggio. Nel riportare il dialogo tra un marinaio genovese che era a bordo delle navi di Colombo e un cavaliere di Malta che ascolta come si vive «nell’ ignota isola di Taprobana, sotto l’equinoziale, nei mari della Sonda presso Sumatra» così scrive Campanella:

«Questa è una gente ch’arrivò là dall’Indie ed erano molti filosofiche fuggirono la rovina dei Mongoli e d’altri tiranni e predoni, onde si risolsero di vivere alla filosofica in comune , si ben la communità delle donne non si usa tra le genti della provincia loro; ma essi l’usano ed è questo il modo. Tutte cose communi; ma stan in man di offiziali le dispense, onde non solo il vitto, ma le scienze e onori e spassi son comuni, ma in maniera   che non si può si può appropriare cosa alcuna. Dicono essi tutta la proprietà nasce da far casa appartata, e figli e moglie propria, onde nasce l’amor proprio; perché per innalzare a ricchezze o a dignità il figlio o lasciarlo erede, ognuno diventa o rapace pubblico, o avaro e insidioso e ipocrita» (in Firpo 1999: 10).

Dunque, la filosofia occidentale elabora un sistema politico ideale in cui tutti hanno la possibilità di avere tutto ciò di cui si ha bisogno in un’utopica comunità in cui non deve esserci proprietà e famiglia. Si definisce così un immaginario antropologico che resterà un   archetipo nell’immaginario dell’’Occidente: un luogo esotico in cui natura e cultura danno vita a una perfetta eudaimonia.

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Spiaggia di São Tomé

São Tomé è davvero un’isola fuori dalle rotte che non può essere individuata facilmente, ma cosa si è realizzato effettivamente? Nel resoconto del marinaio/viaggiatore portoghese è il luogo del ben–essere e del mito dell’eterna giovinezza come quando descrive le acque dell’isola e le proprietà particolari che esse avrebbero: «della qual acqua ne danno da bere agli ammalati, per essere leggerissima da padire» (Milanesi 1978:45) Non è chiaro fino a che punto questa ultima descrizione debba essere ricondotta effettivamente a una composizione particolarmente leggera dell’acqua dell’isola o sia un riflesso del famoso mito medievale della fonte della giovinezza. Una natura ambivalente agli occhi degli europei, che per un verso deve essere addomesticata e resa fertile, per l’altro ricca di poteri ed energie magico-mitiche che rende l’uomo eternamente vivo.  

Gli immaginari antropologici (Matera 2013) si coniugano con una geografia dell’immaginazione che non significa invenzione ma bisogno di costruire relazioni di senso simbolico efficaci. L’isola di São Tomé agli occhi del nostro osservatore portoghese inverava e coniugava il duplice aspetto dei modelli letterari e dei racconti dell’età antica e medievale. Il primo è quello delle isole giardino, nelle quali nessun progetto è necessario perché si tratta di paradisi terrestri che abbondano di tutto, al punto da richiedere solo un minimo di saggezza nello sfruttamento. Il secondo prevede le isole con città, in cui un popolo è diventato felice per aver scelto la più saggia forma di convivenza che, descritta tramite un reportage, un resoconto di viaggio, è proposta come il modello verso cui tendere e coerentemente trasformare l’esistente.

Topoi antichi della letteratura e dell’immaginario medievale e non solo, entrano nei resoconti di viaggio che diventano significative etnografie anche se gli osservatori non hanno conoscenze filosofiche, ma piuttosto hanno assimilato una cultura popolare diffusa che continuava a tramandare il mito dall’eterna giovinezza o di una Cuccagna (Scafoglio 2001) fatta di delizie alimentari senza fine che in queste nuove terre si poteva finalmente realizzare (Moro in Breschi 2018: 7).

Come avevano scritto sia Bacone che Campanella e Moro, un luogo fuori dalle rotte conosciute, ricca di acque e vegetazione, viene abitata da europei in fuga o alla ricerca di un luogo felice e da altre popolazioni «selvagge e sconosciute» da cui nascerà una comunità virtuosa. L’insularità diventa sinonimo di isolamento dal mondo terreno e corrotto, di distanziamento e lontananza, la possibilità di garantire il puro dall’impuro. Solo un’isola può garantire il fascino dell’utopia e realizzare la forma politica ed economica in cui non ci siano disuguaglianze, o quanto meno tutto venga distribuito a tutti secondo sacre ferree leggi.

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Una delle Rochas in rovina

Per São Tomé si profilano nel lungo periodo di tempo sia la dimensione utopica di giardino esotico incontaminato, sia la nascita di nuclei urbani di città ideali che saranno le Rochas. Si verifica fin dall’inizio un processo continuo di disintegrazione–reintegrazione culturale e identitaria. Matura una sorta di «sincretismo» culturale, non una meccanica mescolanza di culture ma una sorta di rifecondazione spontanea della matrice africana, al contatto con la cultura straniera. In qualche modo sono tutti provenienti da altri luoghi e si creolizzano: i portoghesi coloni fuggiti dalla madre patria e costretti a restare, e gli angolares, come venivano definiti, autoctoni deportati come schiavi dall’Angola, già colonia portoghese, per dar vita a una nuova colonia-comunità che non dismette il modello schiavista anche dopo l’abrogazione ufficiale della schiavitù nel 1876, trasformandolo in lavoro coatto.

C’è dunque una ambivalenza di fondo della colonizzazione portoghese, che per un verso celebra la negazione di forme di razzismo e un modello di società multiculturale (il Portogallo viene dichiarato dalle Nazioni unite nel 2009 primo Paese al mondo per quanto riguarda l’assegnazione di diritti e servizi per gli immigrati), per un altro il Paese che tenacemente ha mantenuto più a lungo realtà politiche coloniali. Un Portogallo che si è auto percepito alla costante ricerca di un’identità ai confini tra l’Europa, di cui rappresentava la frontiera periferica (in particolar modo nei confronti con l’Inghilterra), e gli spazi colonizzabili, che gli restituivano finalmente una centralità.

Questa sorta di debolezza identitaria avrebbe reso i portoghesi più plastici e disponibili a contaminarsi con l’alterità e a creare condizioni di meticciato seppure attraverso momenti di violenta dialettica come nel caso di São Tomé. Dunque il Paese sembra essere investito da una particolare missione colonizzatrice che potesse affrancare il suo ruolo dimesso e debole in Europa. (cf. Pereira 2005: 209 passim). Come sostiene Gilberto Freyre (1933), uno dei teorici della visione del luso–tropicalismo, neologismo di suo conio, prende forma l’idea di un popolo portoghese volto a realizzare una vocazione imperiale alla fusion e all’inglobamento dell’Altro; un Altro che appare sempre come soggetto de-storicizzato e naturalizzato nella sua alterità. In questa grande narrazione che ha caratterizzato la storia dell’Impero portoghese, Freyre individua uno spazio insieme mentale, affettivo e geopolitico in cui Portogallo, Sud America ossia Brasile, e Africa si incontrano per produrre quello che era immaginato come un mondo in cui l’Altro, indigeno, africano, insomma subalterno colonizzato, aveva un suo posto riconosciuto e dignitoso.

Al di là delle recenti critiche che sono state rivolte a questo modello interpretativo (Da Matta 1987: 58 passim), resta il fatto che si determina un orizzonte di senso condiviso anche, paradossalmente, dai movimenti di liberazione e di indipendenza, in particolare nelle colonie portoghesi dell’arcipelago di Capo Verde. Il «luso-tropicalismo» è un’identità in costruzione e il tono provvidenziale con cui il discorso è trasmesso conferisce al messaggio in esso contenuto un carattere profetico e visionario che seduce più o meno tutti i quadranti politici (Calafate Ribeiro 2016: 91 passim). Questo progetto riannoda i fili dell’antico progetto colonizzatore portoghese con quello più recente che attraversa tutto il Novecento dalla fondazione dell’«Estado Novo» del 1929 fino al salazarismo, recuperando l’ideologia di un popolo portoghese cattolico con una vocazione ecumenico-cristiana volto alla realizzazione di un impero multietnico e pacificato.

Questa relazione culturale e di potere si configura come una forma di acculturazione tra Occidente e alterità indigena, fino a diventare una specificità per São Tomé che non è liquidatoria delle radici indigene, ma ricca di scambi e prestiti reciproci tra Europa e Africa. Qui si fa strada più che in altre condizioni l’idea di un’acculturazione in cui si palesano l’antinomia e le contraddizioni del dilemma, sempre aperto e scottante, fra storia giustificatrice del passato e il caso singolo, con la scienza antropologica, volta, per sua vocazione, a prevedere il futuro e a legiferare su invarianze e analogie (Lanternari 1974: 25).

Resta da precisare qualche altro aspetto e elemento di specificità del colonialismo portoghese esposto a letture antropologiche a volte destabilizzanti, come quella secondo la quale il sottosviluppo del colonizzatore ha prodotto il sottosviluppo del colonizzato. I fattori di questa singolare reciprocità sarebbero da addebitare ad una fase economica del Portogallo ancora legata a modelli preindustriali e soprattutto a fenomeni di parcellizzazione e di costruzione autonoma nella soluzione del dominio e del controllo coloniale; il Portogallo non aveva quel vincolo stretto con il capitalismo industriale che caratterizzava il colonialismo inglese (de Sousa Santos, Ramalho, de Sousa Ribeiro, 2008 :24). Un colonialismo periferico dunque, ma tuttavia il più longevo della storia Europea e che ha dato vita ad esperimenti come quello di São Tomé. Un colonialismo che sfociò in una strana sospensione del tempo, in un’acronia che doveva rivelarsi doppia: per essere esistita prima e per aver continuato ad esistere dopo il colonialismo egemonico. Retroazione, sospensione ed anacronismo finirono col determinare la lunga durata dal carattere metastorico (ivi: 26).

 L’agonia di questa colonizzazione si protrasse per tredici anni, la guerra provocò migliaia di vittime da entrambe le parti. Per il Portogallo costituì una sorta di Vietnam, una guerra non ‘sentita’ dalla gente, per la quale furono chiamati alle armi circa ottocentomila giovani, vale a dire il dieci per cento della popolazione di un Paese di dieci milioni di abitanti. Morirono oltre novemila soldati portoghesi (venticinquemila i feriti, una buona parte gravemente mutilati).  Il 25 aprile del 1974, la sollevazione degli ufficiali che abbatté il governo salazarista, la cosiddetta ‘Rivoluzione dei garofani’, restituendo il Portogallo alla democrazia, segnò la fine della guerra (Lobo Antunes 2009). Ma se è vero che fu violento e logorante il processo di decolonizzazione dell’Africa portoghese, per queste isole fu diverso. Gli echi di quell’impatto furono meno traumatici e così si può osservare la questione in altro modo, esaminandola alla luce dell’incontro interculturale in cui non esiste una cultura zero che incontra una cultura matura ed egemone (Lanternari 1974: 23) ma piuttosto si potrebbe parlare di un incontro tra communitas tribale, organizzazione socio-economica delle piantagioni, isolamento/punizione per i Portoghesi che vi abitavano.

Questo isolamento ha giovato all’esperimento virtuoso? Forse, ma oggi c’è da chiedersi se siamo in presenza di una sorta di mitizzazione della costruzione della memoria nei racconti orali tramandati. Nell’oralità c’è sempre una dose di certezza storica e/o letteraria, ma non ne abbiamo sufficienti verifiche, perché non c’è stata un’ antropologia coloniale portoghese che abbia sostenuto e definito il fenomeno (Di Nuzzo 2009/2010: 95 passim). Gli studi che possiamo esaminare o sono troppo legati ad un momento storico in cui il salazarismo dominava, o sono il frutto di un revisionismo che può sembrare di circostanza. Tuttavia, nell’analisi odierna, si possono delineare linee di interpretazione che mettono in gioco categorie scientifiche e concetti epistemologici che aiutano a comprendere le nuove dinamiche globali.

La stessa antropologia portoghese, dopo anni di latitanza e di apparente inesistenza, si è recentemente interrogata su quanto è avvenuto durante il salazarismo e immediatamente dopo e solo ora con un certa distanza temporale c’è la giusta prospettiva d’indagine. Sono, dunque, ancora esigue le voci epistemologicamente fondate mentre sembrano più significative le riflessioni frutto di una etnografia letteraria come quella dei romanzi di Lobo Autunes. Dall’esame di questi testi emerge quanto la cultura dei colonizzati d’Africa abbia aiutato i portoghesi a trovare la propria dimensione identitaria attraverso la decolonizzazione, restituendo una autenticità interpretativa in quanto non prodotta da una antropologia applicata figlia dei funzionari del governo o da un’antropologia evoluzionista asservita al salazarismo (Gallo 1978: 35-36).

 Alla luce di quanto appena detto il problema resta aperto: è ancora lecito parlare di acculturazione o assimilazione dei popoli colonizzati alle culture europee? In linea con gli attuali fenomeni glocali sarebbe più opportuno parlare di transculturazione (Lanternari 1974:12). Finiti i momenti di esaltazione assoluta del modello eurocentrico, dissolti o rimossi i sensi di colpa occidentale (La Cecla 2016), forse è giunto il tempo di parlare di transculturazione tra Occidente e culture extra occidentali, ovvero degli apporti che queste culture si sono reciprocamente scambiati. Per il Portogallo forse è vero che sono state le colonie a liberare i Portoghesi, come testimoniano le lettere di Lobo Autunes inviate dall’Angola alla moglie, nelle quali si interseca il rapporto tra etnografia e letteratura. «In Portogallo tutti sapevamo che era una guerra ingiusta e senza alcuna prospettiva di successo». Antunes ha descritto che proprio quella guerra lunga e insensata, cominciata nel 1961, provocò la fine della dittatura di Salazar perché quegli ufficiali e soldati, in base alla loro esperienza, fecero poi la «Rivoluzione dei garofani» e lui stesso diventò uno dei protagonisti. Si può dire che paradossalmente fu l’Africa ancora coloniale a liberare il Paese che la colonizzava. La stessa isola di São Tomé vive una condizione culturale in cui lo schiavismo produce una paradossale circolarità linguistica, religiosa, di unioni sessuali e genealogie familiari contaminate in una ambivalenza di ruoli e di poteri tra natura e cultura.

La vita delle Roças: comunitarismo o schiavismo?

La vita dell’isola oggi è indissolubilmente legata alle roças. Esse sono un esperimento unico e ambivalente dell’ultimo colonialismo portoghese. La popolazione è il frutto di più gruppi: gli angolares sono la maggioranza della popolazione, che comprende anche numerosi mulatti, mentre hanno per lo più lasciato il nuovo Stato indipendente i coloni portoghesi, già proprietari delle piantagioni e perciò detentori dell’assoluto potere economico.

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Una delle Roças più grandi dell’Isola

La vita delle roças, la sua struttura urbanistica e socio economica rispecchiano fedelmente l’ambivalenza del colonialismo portoghese e ribadiscono l’unicità dell’esperimento di São Tomé. Si invera in questo modello socio-economico quell’etnocentrismo e paternalismo tipico dell’imperialismo coloniale portoghese declinato in maniera specifica a São Tomé. Questa realtà si traduce principalmente nelle forme di un esperimento urbanistico e agricolo particolare. Per São Tomé e Príncipe, la genesi della parola «roça» porta il peso della sua memoria e della sua identità. In Portoghese può significare «radure aperte» o «terra dove abbiamo cancellato la bussola».

La parola «roca» ha dato il suo nome alle strutture agrarie che erano alla base dello sviluppo di questo piccolo arcipelago durante il suo ciclo di produzione di cacao e caffè ma designa anche un vero e proprio micro modo comunitario. A São Tomé e Príncipe, «roça» simboleggia non solo la struttura operativa del cacao e caffè, ma soprattutto il suo modello di espansione sul territorio come un avamposto che esplora un territorio complesso da un punto di vista geomorfologico e strappa spazio all’«Obô»[2]. Si coniuga così l’idea di una natura incontaminata con la nascita di piccole città ideali per produrre un agricoltura specifica e razionalizzata in cui il lavoro è sistematicamente diviso e organizzato.

In questo senso, può essere utile anche se impreciso, utilizzare il nome Fazenda per le strutture rurali di São Tomé e Principe. Schiavismo, paternalismo, evangelizzazione, lavoro coatto e affrancamento si intrecciano in una impossibile sedimentazione che dà vita all’originalità della cultura dell’isola. La struttura urbanistica ricalca quella gerarchia sociale rigidamente strutturata seppure intimamente collegata alla vita quotidiana delle roças che sembrano voler realizzare un utopico modello di società idilliaca.

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São Tomé, Roças in rovina

Nel contesto delle Isole Atlantiche, São Tomé e Principe hanno diversi fattori comuni per quanto riguarda il processo di occupazione e la colonizzazione, non solo con gli arcipelaghi di Madeira e delle Azzorre, ma anche con le Isole Capo Verde. Questi fattori includono: l’affiancamento di una popolazione libera e una di schiavi; una comunità dunque che si è sviluppata a seguito dell’introduzione di colture agricole e cicli produttivi in cui lo sfruttamento della canna da zucchero nel XV secolo ha generato una grande attrazione per i commercianti e i produttori di zucchero. Si procedeva poi nel tempo a installazioni di moderne aziende rurali e continui progressi nello sfruttamento delle risorse della terra, con tentativi di trapiantare colture di sussistenza dal Mediterraneo alle isole, destinate ad alterare il paesaggio anche se si sono conservate fauna e flora tropicale.

Infine l’incrocio di «europei» e schiavi africani, ha generato una popolazione libera e una progressiva e consistente trasformazione della classe schiava in una docile e rassegnata classe servile. In breve, a São Tomé si possono esaminare gli influssi reciproci subìti tra una civiltà indigena e una civiltà di tipo occidentale, le relative risposte e gli effetti dell’incontro /scontro dell’una nei confronti dell’altra, che hanno dato vita a un complesso pluralismo culturale (Lanternari 1974: 25). Lo sfruttamento intensivo e costante delle risorse, associato alla ricerca della massima efficienza e produttività, ha portato alla creazione di diverse strutture di Rochas, secondo la funzione produttiva e / o la posizione. Questa peculiarità ha generato lo sviluppo di reti stradali, portuali e ferroviarie. Anche se l’impianto della roça ha subìto una costante evoluzione delle condizioni di lavoro a causa della necessità di adattamenti fisici e tecnici della attività agricola, rimangono alcune componenti comuni come la Casa del Maestro, le Case di teste, il Sanzalas (abitazioni di domestici), magazzini, serre e essiccatoi. Inoltre, la struttura urbana poteva contenere anche edifici amministrativi, spazi per l’assistenza medica, educativa e religiosa, secondo una dimensione comunitaria e sociale definita e completa nelle sue varie funzioni.

Le roças di dimensioni maggiori, hanno una tale quantità di attività da produrre una innovazione continua. Oltre a ospedali, scuole e cappelle, le Roças più grandi possono anche ospitare le singole case del Quartiere Generale dei «maestri» e dei dipendenti, con le fabbriche per il petrolio e il sapone, con officine meccaniche, cucine e forni comunitari, fornaci per calce, serbatoi per acqua e carburante, acquedotti, arene, funivie. Dall’eccellenza della loro posizione e dalla loro evoluzione tecnologica, alcune roças presentano quindi sistemi complessi di raccolta dell’acqua per produzione di elettricità (come nelle rocce Bombaim e Rio do Ouro), sfruttando così le risorse naturali fornite dall’isola e dotando ciascuna roças di peculiarità uniche. La bellezza urbanistica e funzionale alla vita comunitaria della roçha lascia al centro del tessuto urbano la terrazza centrale del «Terreiro», ossia il centro nevralgico che rappresenta il punto di orientamento che è in grado di scandire la vita quotidiana con una routine, in cui convergono e si raccolgono merci e prodotti, capi e servi.

Concepito principalmente in forma rettangolare, il «Terreiro» poteva avere diverse forme e strutture: parti diverse con due o più terrazze chiamate «roça-ville» per dare un maggiore dinamismo, o forma quadrangolare chiusa su quattro lati, la «roça-terrazza». In ogni caso, gli elementi più importanti e più grandi, come la casa principale o l’ospedale, sono strategicamente impiantati per rafforzare la gerarchia sociale ma anche una solidarietà paternalistica e piramidale.

I processi e gli stili di costruzione degli edifici principali della Roça sono in parte il risultato del boom industriale e dell’importazione via mare di materiali e prefabbricati industriali, secondo riferimenti architettonici facilmente adattabili all’austero clima tropicale. Gli ospedali, da parte loro, si ergono come un simbolo della modernità. E ribadiscono nella loro struttura la distinzione tra le diverse funzioni rigidamente differenziate dai ruoli sociali e di genere: infermerie per uomini, donne, bambini, domestici o steward e amministratori. Le Salanzas erano le dimore dei servi; erano un riflesso delle condizioni dei suoi abitanti: servivano solo come dormitorio e misuravano poco più di 14 m x 2. Vi si dormiva in gruppi di 8 o 10 unità, a secondo della necessità di controllo dei lavoratori.

Edifici agro-industriali, come essiccatoi e magazzini, occupavano la maggior parte dello spazio costruito della Roça. Semplici ed essenziali nei processi di costruzione, hanno svolto un ruolo determinante nelle relazioni sociali della vita agricola e produttiva. Le strutture delle roças dimostrano una grande varietà determinata dalla costante evoluzione dei loro bisogni, nonché dalla trasformazione dei processi produttivi nel tempo. Tuttavia, in un’analisi globale, rappresentano un esempio di eccellenza nel panorama del patrimonio agricolo mondiale ed un tratto identitario unico.

copertinaAntropologia coloniale e gender: la biografia di Dona Simona

Il laboratorio culturale delle roças le condurrà a sviluppi insospettati; São Tomé diventa produttore leader mondiale del cacao e del caffè. In questo complesso prisma identitario, le riflessioni dell’antropologia di genere conducono a ulteriori definizioni e chiarimenti del ruolo delle donne all’interno di queste comunità. Nonostante l’atemporalità del colonialismo portoghese, la comunità che si muove all’interno delle piantagioni prima e delle roças poi, produce mutamenti che non possono non essere esaminati alla luce degli strumenti interpretativi del pensiero della differenza sessualmente connotata e culturalmente plasmata. Riprendendo quanto esemplarmente definito da Francoise Heritier (2002), tutte le culture hanno una connotazione trasversale che è quella delle differenze di genere tra maschile e femminile e dei ruoli che a queste differenze sono culturalmente attribuiti. L’antropologia di genere a proposito della differenza tra il maschile e il femminile utilizza alcune categorie specifiche che oscillano tra matrimonio e nubilato, passando poi ininterrottamente attraverso il domestico e l’estraneo, tra luoghi privati delimitati e sicuri e spazi pubblici disorientanti ed infidi per le donne e attribuzioni di lavori specifici (Di Nuzzo 2008: 8) ed infine sessualità, procreazione e genealogie patrilineari e matrilineari.

Il femminile ha come costante di fondo una mancanza di definizione del sé (Soler 2005), presente sia nelle classi più agiate che in quelle infime, sia del mondo agro-pastorale e pre-capitalistico delle società europee, sia in quello dei nativi del mondo esotico. Soprattutto in queste comunità meticciate che sono le roças, la donna non ha spazio di esistenza autonoma e come tale è esposta alla violenza fisica, morale, sociale; solo gli interni domestici le consentono la definizione del suo ruolo e la protezione. Nello specifico, la componente femminile subisce una doppia diversità: ella rappresenta l’alterità femminile e dunque il non essere maschile, ma soprattutto l’alterità esotica e l’indigena schiava. La comunità ha comunque bisogno di donne, ne hanno bisogno soprattutto i colonizzatori che non hanno portato donne dall’Europa e, dunque, le unioni tra donne africane e portoghesi è tollerata se non incoraggiata.

La condizione dei nati dall’unione di uomini portoghesi con schiave africane, in genere fuori dal matrimonio, non è facile, anche se presto si diffonde la tendenza da parte dei portoghesi benestanti a garantire anche ai figli illegittimi un certo grado di benessere e un’istruzione. In conseguenza, la collocazione degli individui nella scala sociale è determinata non tanto dall’appartenenza etnica, quanto dalla posizione economica e dal grado di acculturazione. Questa particolare alterità rappresentata dall’indigena, dalla schiava africana e poi dalla donna mulatta viene integrata e valorizzata in una società che si autorappresenta come bianca ma che è capace di inglobare i non bianchi, i non europei, attraverso un processo che è insieme di integrazione e di espulsione delle soggettività subalterne.

Questo doppio movimento di integrazione ed espulsione ruota attorno a quei processi di «valorizzazione restrittiva», espressione di Colette Guillaumin (1995: 29-60),  che permettono di includere gruppi subalterni restringendo l’ambito in cui possono esprimere le loro soggettività positive valorizzate nella musica, nella danza, nella cucina, nella fisicità e con il valore aggiunto dell’allegria anche in povertà (Canclini 2010). ll femminile esotico è il selvaggio, sconosciuto e affascinante, a-razionale e passionale che deve essere posseduto dal civile e potente uomo bianco. Una femminilità particolarmente adatta alla procreazione perché è per natura potente e adatta a generare figli forti, unita ad una sessualità prorompente tanto da diventare uno stereotipo di genere ancora adesso.

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São Tomé, il lavoro delle donne

In questo singolare spazio dell’incontro offerto al femminile si spiega la vicenda di alcune donne che guidarono e gestirono le piantagioni a São Tomé sia nel passato che, come vedremo, nel presente. In particolare la biografia di Dona Simoa ci riporta a miti di fondazione a costruzioni di genealogie familiari ibridate e al rapporto tra maschile e femminile, tra esotico e domestico, uomo bianco e donna nera, tra sessualità diverse e rapporti di potere.

Nella vicenda di Simoa si sintetizzano e coesistono tutte le specificità della cultura dell’’isola. Figlia di quella ibridazione socio-culturale che era São Tomé, Dona Simona è di pelle nera e quindi diretta discendente degli angolares, ma di status economico elevato, figlia naturale di agricoltori proprietari. Attraverso il matrimonio compie il suo definitivo affrancamento socioeconomico fino al trasferimento a Lisbona per ratificare la sua integrazione definitiva. Il modo in cui gestisce il latifondo insieme al marito la pone in continuità con la religiosità cattolica portoghese e il paternalismo schiavista che condivide con Luís de Almeida, un nobile proveniente dal Portogallo. Condividerà con lui non solo un intenso sentimento d’amore, ma anche una religiosità devota e caritatevole che avrà la massima celebrazione nella prestigiosa cappella di famiglia con il monumento funebre in una delle chiese più belle di Lisbona. Un funerale esemplare e solenne sarà la giusta conclusione della vita di una donna che ha coniugato più mondi.

La vita di Simoa Godinho è riportata da lei stessa, in una sorta di confessione a sua nipote, Lourença. Questa figlia ‘bastarda’ di ricchi agricoltori di São Tomé, vive circondata da donne, nonna, madre e zia, che hanno dominato la sua crescita. Una genealogia femminile che è il chiaro sintomo di quel matricentrismo mediterraneo (Belmonte 1974) coniugato a sistemi familiari indigeni matrilineari, che daranno frutti significativi anche per le definizioni degli autonomi e energici ruoli delle donne caraibiche e brasiliane (Johnson 1995). Simoa comincia a vedere le differenze tra bianchi e neri e insieme al marito Luís introduce idee più umanitarie nella conduzione schiavista delle piantagioni, con profondi cambiamenti nei metodi di lavoro, dando soprattutto prova di una sua forte e autonoma presenza.

«Nelle comunità agricole una collaboratrice è indispensabile al contadino; e per la maggior parte degli uomini è vantaggioso alleggerirsi di alcuni lavori affidandosi ad una compagna, l’individuo desidera una vita sessuale stabile, una posterità e la società esige da lui che contribuisca a perpetuarla. Ma non è alla donna direttamente che l’uomo rivolge la domanda; è la società degli uomini che permette ad ognuno dei suoi membri di adempiere le funzioni di sposo e di padre; integrata come schiava o vassalla ai gruppi familiari, dominata da padri e fratelli, il matrimonio è la sua unica risorsa e la sola giustificazione sociale della sua esistenza […] per le donne il matrimonio è l’unico modo di essere integrate alla collettività, e se restano «zitelle» socialmente sono dei «rifiuti» (Padula 1950: 150-151).

Se questo è vero per la società occidentale europea lo è ancora di più per Dona Simona, la dark lady di São Tomé che ribadisce quanto ipotizzato dal luso-tropicalismo di Gilberto Freyre. Ovvero la garanzia di uno spazio di esistenza e di un ruolo sociale riconosciuto nella gestione economica dentro un sistema che non le avrebbe mai dato alcuna visibilità.

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Una della Roças viste dal mare

Antropologia del turismo: sostenibilità, memoria, heritage tourism, capitale sociale. Uno sguardo al futuro

Le vicende coloniali dell’isola e il lungo rilascio che la decolonizzazione ha depositato costituiscono il capitale sociale di questa comunità e il fondamento della memoria collettiva. In tal senso nelle attuali società postmoderne la costruzione della memoria e dell’identità finiscono con l’essere indissolubilmente legate ad una esperienza condivisa ed aperta alla relazione con l’alterità.  Resta aperto dunque il valore unico e originale di questa esperienza e come può diventare un percorso di innovazione e crescita per il futuro stesso della comunità.

La memoria sociale racchiude l’identità collettiva, il genius loci che è frutto di un processo ininterrotto di costruzione. Nel caso di São Tomé la riappropriazione della memoria e del passato sta dando vita ad una sorta di autoetnografia che si coniuga con la realizzazione di un turismo di nicchia ed esperienziale e che produce nuove pratiche dell’incontro legate alla sostenibilità ambientale e ad una solida e fiera riappropriazione del proprio patrimonio culturale. Il turismo non più legato alla superata visione del consumo del tempo libero, diventa dimensione del fare, del costruire cultura come capitale sociale, risorsa di una comunità, costruzione simbolica, istituzionale – ossia di vita – che consente di definire orizzonti di senso e di memoria maturati dall’incontro tra comunità ospitante e ospiti.

Il turismo determina, dunque, mutamenti decisivi che interessano la mentalità e i comportamenti prodotti dalla mobilitazione delle risorse locali, intellettuali e materiali, nella prospettiva di un nuovo sviluppo. In questo senso, l’antropologia delle società complesse e in particolare l’antropologia del turismo definiscono il turismo come «fatto sociale totale» (Simonicca 1997) nella sua specifica possibilità di individuare le modalità dell’impatto tra ospiti e ospitanti. Il fenomeno è antico ma, allo stesso tempo, legato alla postmodernità e a forme di uso del tempo e dello spazio assolutamente nuove: l’heritage tourism (Di Nuzzo 2014) è l’orizzonte entro cui si realizza questa dimensione che coniuga luoghi, natura, fruibilità sostenibile e sviluppo economico.

Recentemente l’Unesco ha ribadito altri aspetti della definizione di patrimonio culturale e dei beni di cui esso è sintesi, in particolare viene riconosciuto patrimonio immateriale ciò che le comunità, i gruppi e in alcuni casi gli individui riconoscono come facenti parte del loro patrimonio culturale.

«Un patrimonio culturale intangibile, trasmesso di generazione in generazione, costantemente ricreato dalle comunità e dai gruppi interessati in conformità al loro ambiente, alla loro interazione con la natura e alla loro storia, e che fornisce loro un senso di identità e continuità, promuovendo così il rispetto per la diversità culturale e la creatività umana Unesco» (2003:3).

Solo così: la diversità culturale crea un mondo prospero ed eterogeneo in grado di moltiplicare le scelte possibili e di alimentare le capacità e i valori umani, rappresentando un settore essenziale per lo sviluppo sostenibile delle comunità, dei popoli e delle nazioni. La memoria collettiva ha, dunque, una innegabile dimensione individuale: Il passato non permane mai tale e quale, ma è costantemente selezionato, filtrato e ristrutturato nei termini posti dalle domande e dalle necessità del presente, tanto a livello individuale quanto a livello sociale.

Come sistema simbolico, la memoria collettiva è parte della cultura e svolge un ruolo importante nella definizione del sistema culturale inteso come «una serie di concezioni ereditate ed espresse in forma simbolica per mezzo delle quali le persone comunicano, perpetuano e sviluppano la loro conoscenza riguardo alla vita e i loro atteggiamenti verso di essa» (Unesco 2003: 4) si costruisce anche e soprattutto il luogo della memoria, uno spazio che si contraddistingue per essere costituito da elementi materiali o puramente simbolici dove un gruppo, una comunità o un’intera società riconosce se stessa e la propria storia, consolidando in questo modo la propria memoria collettiva. Può essere luogo della memoria dunque un museo, un archivio, un monumento, un anniversario, certi territori o località segnati da eventi storici significativi, ma anche, i simboli e i miti, le strutture e gli eventi, i personaggi e le date. Per São Tomé le roças sono il luogo della memoria collettiva e individuale, un totem identitario, così come il patrimonio immateriale delle danze e dei riti, quali il Tchiloli e il Danço Congo [3], diffusi e salvaguardati utilizzando il blog e sostenendo politiche turistiche di ecosostenbilità. I fenomeni della «mondializzazione», della «democratizzazione», della «massificazione» e della «mediatizzazione», che caratterizzano la società occidentale nell’ultimo mezzo secolo, hanno investito anche, a livello sociale e culturale, le pratiche della memoria e dell’elaborazione del passato anche in piccole realtà esotiche come São Tomé.

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Esempio di architettura delle Roças

L’antropologia del turismo può assolvere ad un importante ruolo di analisi e produrre consapevolezze nuove da parte dei Sãotomensi che devono essere i protagonisti consapevoli del processo. Il turismo determina, dunque, mutamenti decisivi che interessano la mentalità e i comportamenti prodotti dalla mobilitazione delle risorse locali, intellettuali e materiali, nella prospettiva di un nuovo sviluppo. Una volta individuata la potenzialità del capitale sociale a disposizione, questo è patrimonio della comunità stessa che può gestirlo con le proprie consapevolezze, al fine di evitare possibili genocidi culturali e cancellazioni affrettate di memorie, specialmente in territori multietnici e decolonizzati come in particolare per São Tomé.

Nell’immaginario turistico attuale São Tomé continua ad essere l’isola utopica ed esotica, il mondo della bellezza naturale esotica e incontaminata da salvaguardare come patrimonio dell’umanità. Nell’incontro turistico si ritrovano così le dialettiche dei mondi culturali che reciprocamente si influenzano: i valori di un mondo di antiche radici indigene che si salvaguardano alla luce dei valori dell’ecosostenibilità che l’Occidente ha costruito elaborando propositivamente il senso di colpa delle logiche coloniali. Così gli attori di questo processo sono gli stessi abitanti dell’isola e soprattutto alcune donne che dichiarano:

«Siamo un piccolo arcipelago di appena 180mila abitanti – osserva Isaura Carvalho, proprietaria della tenuta di São João Dos Angolares – e non possiamo permetterci di consumare in modo irreversibile le risorse del nostro territorio, la cui biodiversità è addirittura superiore a quella delle Galapagos. Grazie all’iniziativa di alcune famiglie, da anni siamo impegnati a recuperare le antiche tenute costruite dai portoghesi, le roças, trasformandole in strutture d’ospitalità e basi d’appoggio per progetti di agricoltura sostenibile, con centri culturali o scuole materne al loro interno. Un’iniziativa che nel 2018 ha permesso a São Tomé&Principe di candidarsi come patrimonio agricolo mondiale della FAO. La corsa al petrolio ha solo accresciuto la corruzione nel Paese. Per la prima volta abbiamo l’occasione di affrancarci dalla dipendenza dagli altri Paesi» (www.la stampa, blog le voci globali São-tome-principe-patrimonio-culturale-da-salvaguardare).
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Le nuove Roças turistiche

Il recupero della roça come patrimonio agricolo mondiale ha un potenziale enorme, ed è una risorsa che deve essere identificata come tale. La fornitura di infrastrutture preesistenti può essere una leva per la sua reinvenzione e conversione, promuovendo una transizione tra il ciclo coloniale e il ciclo culturale, attraverso progetti di eco-turismo legati alla sua attività agricola. Il patrimonio naturale e l’etnicizzazione del paesaggio sono patrimoni materiali da salvaguardare e la bio diversità diventa memoria della propria unicità. Tuttavia, si corre il rischio di creare le Roças «nicchie-turismo» di eccellenza o di edifici privati, ignorando le condizioni di vita della popolazione e il suo retaggio culturale.

In questo caso la perdita del carattere specifico della Roça porterà alla perdita del suo valore culturale e di conseguenza alla cancellazione di un patrimonio che danneggerà gravemente la cultura e la memoria di São Tomé e Principe.

Per evitare questo diventano utili le comunicazioni sul web e i blog che costituiscono la nuova catalogazione e difesa della propria appartenenza e diversità (Canclini 2010). Il turismo è un possibile spazio di tutela di questo patrimonio che può essere condiviso e le nuove letterature di viaggio sono ancora una volta riportate dai blog che in tempo reale riescono a comunicare le informazioni e le emozioni al villaggio globale. Da un mondo sempre più transculturale riemerge l’antico rapporto natura-cultura, ma rielaborato da portatori di culture e costruttori di memorie in nuove opportunità glocali.

 Dialoghi Mediterranei, n. 47, gennaio 2021
Note
[1] Piccoli insediamenti abitativi e produttivi costruiti secondo regole urbanistiche precise e con una rigorosa strutturazione socio-economica.
[2] Espressione locale che significa cespuglio denso, foresta pluviale di São Tomé.
[3] Le origini del Tchiloli sono incerte così come il percorso attraverso il quale è approdato a São Tomè; viene messo in scena dagli uomini più in vista di alcuni quartieri dell’isola. I ruoli principali vengono tramandati di generazione in generazione, con maschere e costumi d’epoca di provenienza europea, mettono inscena un testo rinascimentale con musica e danze, una rappresentazione in cui converge il patrimonio culturale europeo e africano. Il Danço Congo è una danza spettacolare e frenetica con una vigorosa coreografia a tratti violenta (www.la stampa, blog le voci globali São-tome-principe-patrimonio-culturale-da-salvaguardare).
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Annalisa Di Nuzzo, docente di Antropologia culturale e di Geografia delle lingue e delle migrazioni presso l’Università degli studi Suor Orsola Benincasa di Napoli e l’Ateneo di Salerno, fa parte del gruppo di esperti del Laboratorio antropologico per la comunicazione interculturale e il turismo diretto da Simona De Luna della stessa università; ha conseguito il PhD in Antropologia culturale, processi migratori e diritti umani. È autrice di numerosi studi. Tra le sue ultime pubblicazioni si segnalano: La morte, la cura, l’amore. Donne ucraine e rumene in area campana (2009); Fuori da casa. Migrazioni di minori non accompagnati (2013); Il mare, la torre le alici: il caso Cetara. Una comunità mediterranea tra ricostruzione della memoria, percorsi migratori e turismo sostenibile (2014). Minori migranti, nuove identità transnazionali (2020), Conversioni all’Islam all’ombra del Vesuvio. Etnografie transculturali (2020).

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