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Letteratura fantastica e migrazione

Posted By Comitato di Redazione On 1 settembre 2017 @ 01:14 In Letture,Migrazioni | No Comments

copertinadi Annamaria Clemente

Uno dei meccanismi con cui la nostra mente conosce e domina il reale è la semplificazione della realtà, essendo questa troppo immensa e troppo sfaccettata per essere compresa nella singolarità e nella particolarità di ogni minimo elemento. Il cervello farebbe ricorso a delle immagini, delle rappre- sentazioni predeterminate culturalmente, sono quelle che definiamo come immagini mentali o stereotipi. Sappiamo che lo stereotipo rappresenta un’immagine semplificata e condivisa relativa ad una categoria e conoscere per mezzo di uno stereotipo significa attribuire, a qualcosa o a qualcuno, determinate caratteristiche considerate proprie del soggetto in questione; in altri termini quando il nostro cervello utilizza uno stereotipo realizziamo un’inferenza assegnando ad una persona o all’oggetto determinate caratteristiche e lo categorizziamo all’interno di una categoria specifica rendendolo prevedibile e conoscibile.

Il meccanismo cognitivo operante è immediato e i dati percepiti vengono immediatamente deviati ed elaborati seguendo traiettore prestabilite. È per questo motivo che quando si parla di letteratura migrante si pensa ad autori dai caratteri e dai nome esotici non soffermandosi a pensare che all’interno della categoria vengono contemplati anche autori italiani residenti all’estero, come nel caso di Giovanna Pandolfelli e dell’ultima raccolta di racconti Terra, mare e altrove (2017), edito dalla casa editrice Cosmo Iannone.

Giovanna Pandolfelli risiede da anni in Lussemburgo; laureta in lingue straniere con un master in bilinguismo è presidente della Società Dante Alighieri di Lussemburgo. Impegnata nella diffusione della lingua italiana all’estero, ha lavorato come insegnante di italiano per stranieri ed ha una lunga esperienza come traduttrice presso le istituzioni europee. Collabora con la rivista italiana all’estero Passaparola ed ha pubblicato articoli di cultura e bilinguismo anche su altre riviste. Dal 2015 è docente presso l’Università di Treviri in Germania. Migrante essa stessa è  conscia dell’universalità dei sentimenti  e delle emozioni condivise dai migranti sia essi italiani all’estero che stranieri in terra italiana:

«Ciò che accomuna tutti i migranti: gli stranieri in Italia hanno affrontato il dilemma principale se lasciare il proprio Paese o meno e così lo hanno fatto gli italiani all’estero. Le condizioni possono essere state varie e diverse ma la decisione parte dalla domanda se sia possibile trovare una vita migliore altrove. Qualcuno potrà sentirsi infastidito dall’essere chiamato migrante, termine che porta con sé retaggi culturali e connotazioni sociali, tuttavia basta mettersi d’accordo sulle definizioni: le persone sono al nostro servizio, siamo noi che dobbiamo usarle nella maniera che più ci convine. Quindi indipendentemente dalla scelta del termine, stiamo parlando di popoli in movimento, di persone in cerca di altro rispetto a ciò che il proprio Paese è secondo loro in grado di offrire. Ciò comporta delle scelte spesso definitive, spesso senza ritorno. Chiunque affronti questo viaggio mette in valigia le proprie radici e cerca di rimpiantarle altrove, affronta nuovi costumi, mentalità, sempre in bilico tra il desiderio di inserirsi nella nuova società e quella di non perdere la propria identità, costruita sul proprio passato. Oltre alla necessità di apprendere la lingua ospitante senza perdere la propria. Insomma si crea una doppia identità accanto a una doppia nostalgia» (Mauceri 2017).

Queste le parole dell’autrice rilasciate nell’intervista a Maria Cristina Mauceri, curatrice della postfazione al libro, che le rivolge anche la domanda su come nascano i racconti e da cosa sia accesa la scintilla  dell’ispirazione:

«La scintilla è la solidarietà, è la vicinanza che provo per i migranti, di cui mi sento parte integrante. Avvicinandomi alla letteratura transculturale italiana mi sono subito sentita parte di quel filone, condividendone ideali, sogni, sentimenti. Chi si sposta dal proprio Paese scappa sempre da qualcosa, se non da se stesso. La migrazione è una spinta interiore, a volte purtroppo dettata da circostanze drammatiche, ma che attinge ad una forza intima, quasi un’inerzia che sospinge in avanti. Il cuore del concetto di migrazione è appunto il luogo, fisico o metafisico, è chiedersi cosa significhino i concetti di “casa”, di “patria”, di “confine”» (Ibidem).

E la Pandolfelli con Terra, mare e altrove, riesce a restituire un lucido sguardo, a disincantare le apparenze, sfondando l’inganno di stereotipi e pregiudizi con cui è avvolto il diverso, l’estraneo, il migrante. Quattordici racconti suddivisi in linee tematiche come La città, il mare, il viaggio, la distanza, parole chiave che nell’universo del migrante acquisiscono un processo di significazione differente, come ad esempio il tema del confine affrontato dalla Pandolfelli nel racconto Il mare, dove gli scheletri di due uomini, un soldato ed un migrante, si confrontano ed ognuno ne propone una  visione differente. Il primo offre una rigida interpretazione, come linea di demarcazione che separa ed esclude mentre il secondo, il migrante, attraverso un ragionamento inappellabile, dimostra la mobilità e la relatività del concetto di confine geografico, altri sarebbero i confini da difendere: quelli dell’umano. Così come nel racconto La valigia, oggetto di uso pratico per noi, ma contenitore di speranze, sogni, ricordi e radici per loro, tanto da divenire l’anima stessa della protagonista.

Ma non sono solo le parole. Le pagine di Pandolfelli gettano luce anche sulle dinamiche affettive: pregevoli i racconti al cui centro vi è il rapporto madri-figli, il dolore inconsolabile di quei figli destinati a crescere senza una madre, e ancora più nel triangolo madre-lingua-figlio si apprezza la sensibilità dell’autrice e l’interesse e l’importanza del bilinguismo, campo di ricerca delle sue opere. Nel racconto Kanjusha, una madre migrante si rammarica di non aver tramandato la propria lingua d’origine alla figlia osservando il rapporto di esclusività e indicibile tenerezza tra un’altra madre ed una bambina creato grazie alla continuità linguistica. O ancora nel racconto Call Center, dove due giovani riescono a comunicare con le rispettive madri scambiandosi il favore di parlare l’uno la lingua dell’altro.

2Senza dubbio originale la scelta dell’autrice di inserire l’elemento fantastico in materia migratoria. Definire il Fantastico è compito non facile, la varietà delle forme in cui si presenta sembra sfuggire alla maglie di una rigida categorizzazione e la stessa scelta se declinare il complesso delle narrazioni entro la dicitura di genere o modo risulta complessa (Ceserani 1996). Difatti sotto l’egida del Fantastico si posizionano  una sequela di generi differenti quali il gotico, il romanzo dell’orrore, la fantascienza, il fantasy, romanzi come Il castello di Otranto di Horace Walpole, i Racconti del grottesco e dell’arabesco di Edgar Allan Poe, Giro di vite di Henry James,  Il signore degli anelli di J.R.R. Tolkien solo per citarne alcuni. A fronte degli innumerevoli e interessanti i punti di vista che i critici e gli studiosi hanno elaborato, sembra utile definire e delimitare il modo/genere letterario nella rappresentazione di quegli elementi e situazioni immaginarie che esulano dall’esperienza del quotidiano. Si tratta di narrazioni di fatti straordinari, non verificabili nell’ordine naturale delle cose e pertanto non esperibili nella realtà. Non si può prescindere quando si affronta tale argomento dal richiamare la definizione di Todorov secondo la quale la struttura su cui innestare la trattazione è  l’esitazione:

«In un mondo che è sicuramente il nostro, quello che conosciamo, senza diavoli, né silfidi, né vampiri, si verifica un avvenimento che, appunto, non si può spiegare con le leggi del mondo che ci è familiare. Colui che percepisce l’avvenimento deve optare per una delle due soluzioni possibili: o si tratta di un’illusione dei sensi, di un prodotto dell’immaginazione, e in tal caso le leggi del mondo rimangono quelle che sono, oppure l’avvenimento è realmente accaduto, è parte integrante della realtà, ma allora questa realtà è governata da leggi a noi ignote. O il diavolo è un’illusione, un essere immaginario, oppure esiste realmente come tutti gli altri esseri viventi, salvo che lo si incontra di rado. Il fantastico occupa il lasso di tempo di questa incertezza; non appena si è scelta l’una o l’altra risposta, si abbandona la sfera del fantastico per entrare in quella di un genere simile, lo strano o il meraviglioso. Il fantastico, è l’esitazione provata da un essere il quale conosce soltanto le leggi naturali, di fronte a un avvenimento apparentemente soprannaturale» (Todorov 1977: 26).

Innanzi un avvenimento che scardina le nostre certezze l’uomo può credere che questo sia stato frutto della propria immaginazione e conseguentemente far ricadere l’evento nell’ordine naturale delle cose, oppure accettare per vero quanto visto ed accogliere l’esistenza di un mondo altro: secondo Todorov il primo caso darebbe origine allo Strano mentre il secondo al Meraviglioso.  Nei frammenti di secondo in cui si gioca la scelta tra una opzione e l’altra vive e si anima il fantastico, ovvero il momento dell’incertezza, dell’esitazione, del disorientamento causato da un’infrazione della norma nell’ordine naturale delle cose, il dubbio che incrina le nostre convinzioni, penetra e scende tanto in profondità da mettere in crisi le percezioni stesse che riceviamo dal mondo: mostri, fantasmi, doppi e revenants affiorano dalle pagine presentificandosi al lettore e sgomentandolo. Lo scrittore evoca scene irreali rendendole credibili dal punto di vista mimetico e utilizzando molti degli espedienti appartenenti alla narrazione naturalistica, mentre il lettore indeciso  nella scelta  se  nutrire dubbi sulla veridicità di quanto assunto o meno, è paralizzato  da uno stato  di sospensione tra reale e soprannaturale, tra veglia e sogno.

1Nello spazio tra le due mozioni il suo animo è pertanto sgomento, ansiogeno, pieno di afflizione: è il perturbante che si insinua nell’immaginario del lettore e individuato da Freud nel unheimlich. Da intendersi come qualcosa di spaventoso, orrifico e terrifico, lo spaesamento e l’estraniamento, è quel qualcosa che dovrebbe restare celato, il rimosso oggettivato che riemerge, è il familiare dimenticato. Per creare tale effetto lo scrittore agisce su desideri escatologici correlati a paure e timori atavici, legati alle credenze, alla religione, alle superstizioni ed alla magia. Se questo è il Fantastico Ottocentesco, nel Novecento la situazione evolve a seguito delle mutate condizioni storiche, alla crisi del Positivismo unitamente alle teorie psicoanalitiche di Freud e alla scoperta della relatività. Elementi che influiscono sulla sensibilità collettiva e nell’uomo moderno, il quale prima detentore di verità incontestabili si ritrova a perdere tutte le sue certezze fino alla sua stessa identità, traumatizzato dalla scissione del proprio io, dalla scoperta dell’inconscio, del subconscio,  dalla relatività della cose percepite e non governate né padroneggiate. L’uomo del secolo scorso non ha più paura delle apparizioni fantasmagoriche ma prova turbamento di fronte alla frammentarietà della propria esistenza, della realtà che cela tra i suoi mille granelli un seme lunare dal riflesso inquietante.

«Il fantastico non si colloca più al di fuori della realtà, ma si àncora saldamente a fatti veri, si insinua in zone conosciute e quotidiane fornendo della realtà immagini deformate e straordinarie, portando così l’ignoto nel noto e nel familiare. Il fantastico del Novecento presenta un’aldilà interiore psicopatologico e incoscio, attinge dalla cultura e dalla società del suo tempo, presenta la solitudine e l’ansia dell’uomo di fronte al mondo tecnologico, spesso denunciandone gli eccessi o parodizzando i costumi. Per essere preso in considerazione dal mondo contemporaneo, il fantastico non aspira a un uso emozionale dei suoi elementi, ma a una meditazione sugli incubi e sulle tensioni dell’uomo moderno. Con il progressivo affermarsi della società di massa, l’individuo si sente in balia di forze che non riesce a controllare, di grandi sistemi sociali, economici, burocratici la cui logica è spesso incomprensibile e assurda, disorienta e intimorisce. La percezione del reale viene messa in crisi, gli stessi progressi della scienza anziché restringere il campo dell’ignoto, lo allargano, cancellando il confine tra reale e impossibile» (Zangrandi 2011: 8-9).

3La letteratura fantastica quindi lungi dall’essere fuga o rifugio verso una realtà altra, mero diletto popolato da mostri che perversamente stimolano il nostro piacere inconscio, è specchio delle paure del divenire storico. Come tale il suo riflesso diviene utile strumento per sondare la psiche collettiva, per far emergere le ansie e le paure moderne, configurandosi pertanto  il fantastico come un congegno in grado di disoterrare  traumi e angosce. In particolare, secondo Silvia Zangrandi, la letteratura fantastica del Novecento italiano è da intendere come  «[...] una modalità diversa di fare i conti con la realtà» (ivi:14), e proprio attraverso l’ottica del fantastico come «un modulo che scardina i nessi causali e temporali, presenta eventi inesplicabili, va a cercare le “aree di frontiera” dentro di noi, scava nella vita interiore dell’uomo e fa emergere, attraverso esperienze perturbanti, forme di conoscenza o sensazioni che appartengono a mondi lontani» (ivi: 25), sembra utile inquadrare tali racconti della Pandolfelli.

L’utilizzo del fantastico diviene un modo letterario che «ha fornito vie nuove per catturare significati ed esplorare esperienze, ha fornito nuove strategie di rappresentazione per esorcizzare le paure e la drammaticità della vita; introducendo elementi di ambiguità, si lega alla vita degli istinti, delle passioni, dei sogni» (ivi:26).  Ars combinatoria quella della scrittrice quindi che gioca combinando il  modulo fantastico con il genere migrante, ma cosa accade quando i due si avvicinano? Il lettore cosa deve aspettarsi?

4Assisteremo ad un evento particolare: oscillazioni di livelli di realtà inconciliabili, direbbe Calvino (1993:5), ci ritroveremo di fronte ad un effetto straniante moltiplicato a dismisura nella collisione e nello scontro tra i livelli di realtà. Analizziamo per esempio il primo racconto: Anima nera. La giovane protagonista Elena, tenta di ricostruire la propria vita dopo la morte della madre, decidendo di trasferirsi in una nuova città. Qui è preda di un risveglio kafkiano, che non acquista i connotati di una trasformazione teriomorfa ma piuttosto di una metempsicosi dove a trasmigrare non è l’anima ma un corpo, il corpo di una ragazza africana.  In preda allo shock la giovane si precipita in strada alla ricerca di qualcuno che possa aiutarla e da qui il racconto si apre verso equivoci tanto imbarazzanti quanto desolanti. Notiamo come l’ordito narrativo ricalchi alcuni dei passaggi del racconto di Kafka e non solo nella duplicazione della metamorfosi al risveglio, ma per altre linee tematiche quali le dinamiche familiari per esempio, unica differenza è l’asse spostato dal rapporto padre-figlio a quello madre-figlia; o ancora la condanna da parte della società manifestata mediante l’incomprensione del fidanzato prima e quella dell’amica-capo che la licenzia avanzando come scusa l’assentarsi dal lavoro della protagonista per seguire la madre nel decorso della malattia.

Il perturbante si manifesta ad un primo livello con la metamorfosi di Elena, come del resto prevede il modulo del fantastico, ma lo sgomento viene immediatamente ridotto e contenuto da un turbamento maggiore che traspone la mutazione in secondo piano normanizzandola. Ciò che intorbidisce l’animo del lettore non è la metamorfosi bensì la relazione con l’altro, altro inteso come essere umano e non subumano o ultraumano. Sono gli esseri umani che entrano in contatto e si relazionano con la protagonista ad assumere un aspetto mefistofelico, e non perchè dotati di connotati demoniaci, ma perchè sembrano essere assenti in loro quelle caratteristiche che definiscono e delimitano l’umano. come l’empatia, l’amore e il rispetto verso il prossimo. Per esempio, appena in strada Elena è visibilmente sconvolta, un passante le si avvicina per chiederle se avesse bisogno d’aiuto, un gesto apparentemente gentile, ma quando Elena analizza il comportamento ed il modo di porsi dell’uomo con quella che è la sua figura qualcosa manda in pezzi la benevolenza del gesto:

«Tuttavia quest’uomo sembrava una persona piuttosto distinta, non il tipo di uomo che si rivolge così ad una donna, per giunta per strada e sconosciuta. Forse doveva avere proprio l’aria smarrita per suggerire tali reazioni nel primo passante incrociato per strada. “Allora mi rispondi?”. Questa sollecitazione le giunse come una doccia fredda, guardò l’uomo negli occhi e vide riflessa la sua immagine nera. Ecco cosa lo aveva spinto a darle del tu: il suo aspetto».

Laddove è buona norma dare del lei ad uno sconosciuto assistiamo ad un automatico cambiamento di strategia e registro linguistico che accorcia la distanza psicologica e sociale tra io e l’altro. L’allocutivo tu, non richiesto, invade lo spazio intimo prendendo la forma di un mancato rispetto legittimato da un colore di pelle differente. Continuando con la lettura: «L’uomo si stupì sentendola parlare un italiano tanto corretto e forbito, tuttavia non capì le sue parole, la osservò da capo a piedi per vedere se i suoi vestiti potessero suggerire un’attività, diciamo così, notturna, ma nulla la suggeriva»; come se non bastasse l’uomo continua mostrando apertamente il rigido schema  entro cui relega la ragazza cercando nella sua figura tracce che avvalorino il suo malcelato razzismo.

Ma non è l’unico, altro episodio è quello del controllore del treno che, affetto da una diffidenza selettiva nutrita solo dalla visione della diversità, domanda «[...] il biglietto solo ad alcuni passeggeri. Sembrava sceglierli con cura: un cinese con una bambina, un africano con indosso un coloratissimo completo di casacca e pantaloni, una donna con il capo coperto, un’anziana rugosa che trascinava grosse buste ricolme di capi d’aglio dall’odore penetrante. E poi toccò a lei». Durante il racconto Elena inizia ad abituarsi al corpo nuovo, come Gregor Samsa, fino ad  apprezzarne la struttura corporea e considerarla migliore della vecchia;  nota il pregio della pelle scura che non si scotta al sole, della carnosità delle labbra, inizia una discesa nell’io, ne riscopre i sogni e le passioni fino a giungere all’accettazione simboleggiata da  un rito di passaggio: l’acconciare i capelli, un gesto che rappresenta il transito dal caos al cosmos, dal disordine all’ordine, dalla natura alla cultura. Dopo essersi fatta intrecciare i capelli Elena sembra quasi trovare un po’ di pace e con lei il lettore  ma ecco che accade un ulteriore episodio che fa ricadere nell’incrudelità: Elena viene bloccata da un individuo sul treno perchè sospettata di aver rubato. Ed anche stavolta il personaggio va via borbottando visibilmente contrariato perchè non ha avuto ragione, perchè Elena non ha rubato, perchè la sua intuizione, lo stereotipo che le ha incollato adosso non ha aderito alla perfezione.

In Anima nera la Pandolfelli usa il fantastico in modo molto intelligente: introduce il dis-ordine, scompagina l’ordine delle cose e, nel tentativo di ristabilirlo, ecco che l’uomo sperimente nuove scoperte, nuove soluzioni, il fantastico fa emergere ancora una volta quelle aree di frontiera, quelle risorse che celiamo dentro noi e che servono per accogliere l’Altro. Ma c’è di più. La scrittrice mentre avvicina il diverso rendendolo più simile alla categoria del Noi allontana l’uguale rendendolo qualcosa di diverso, qualcosa che per l’ostilità e la malevolenza rende l’uomo un subumano. Nelle oscillazioni di realtà presentate, in questo movimento che perturba il lettore dalla sua posizione di stasi mutandolo in perenne pendolo tra realtà differenti, avviene una  risonanza che scuote e vibra. È un’eco, quello della coscienza  che grida di fronte alla sconcerto, allo sconvolgimento procurato dall’uomo pescato nel racconto Il vecchio pescatore e il Mediterraneo,   «Un corpo martoriato dagli uomini prima, dagli abissi poi, aveva finito per cercare salvezza agganciandosi al suo amo. Può un corpo esamine, mangiucchiato, sbocconcellato e corroso dal mare cercare ancora salvezza?». Terapia d’urto che sbatte in faccia al lettore tutta la meschinità di cui è capace il genere umano, una umanità che emana sulfuree esalazioni, quasi a voler dire che prima di aver paura del diverso bisognerebbe aver paura di ciò che è dentro noi, di chi ci sta vicino.

Ma forse non tutto è perduto. Proprio come Elena che indossata la pelle dell’altro avvia un cambiamento in se stessa e non sopporta più le ipocrisie, come nel pescatore che riporta in riva il corpo del migrante: «Ecco a chi serviva quel cadavere, a tutti coloro che stavano dimenticando le sofferenze degli altri. Quell’uomo era tornato per ricordarlo, si era aggrappato all’amo della salvezza per mostrare il viso della speranza, della determinazione, della pietà».

I racconti della Pandolfelli mentre disotterrano le ansie legate all’invasione dell’altro, all’arrivo dell’orda dei migranti, disattivano stereotipi e clichè, focalizzando l’attenzione su ciò che è veramente importante: siamo uomini, indistintamente uomini, perchè alla fine non rimane nulla se non quegli scheletri portati dalla maree: «Nessuno seppe dire se si trattasse di un bianco o di un nero, di un soldato o di un civile, di un connazionale o di un forestiero».    

Dialoghi Mediterranei, n.27, settembre 2017
Riferimenti bibliografici
Calvino I., 1993, Racconti Fantastici dell’Ottocento, Milano, Mondadori
Ceserani R. , 1996, Il fantastico, Bologna, Il Mulino
Mauceri M. C., 2017,  Scrittrici italiane “migranti”, 7 aprile. intervista consultabile al sito: http://www.mondita.it/2017/04/scrittrici-migranti/
Todorov T., 1977, La letteratura fantastica, Milano, Garzanti.
Zangrandi S., 2011, Cose dell’altro mondo. Percorsi nella letteratura fantastica italiana del Novecento, Bologna, Archetipolibri.

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Annamaria Clemente, giovane laureata in Beni Demoetnoantropologici presso l’Università degli Studi di Palermo, è interessata ai legami e alle reciproche influenze tra la disciplina antropologica e il campo letterario. Si occupa in particolare di seguire autori, tendenze e stili della letteratura delle migrazioni.

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