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L’etnografia in età fascista. Le Mostre d’arte popolare del 1936 a Siracusa e Catania
Posted By Comitato di Redazione On 1 maggio 2017 @ 00:36 In Cultura,Società | No Comments
di Luigi Lombardo
La scienza demologica è stata, e in parte è ancora oggi, una di quelle discipline che vedono coinvolti, accanto agli “addetti ai lavori”, tutta una schiera di ricercatori, studiosi, appassionati cultori di folklore impegnati nella (ri)scoperta delle proprie radici, delle tradizioni culturali legate al paese, città, comunità, in un fiorire di studi di storia locale, che combinano storia, arte, folklore in una produzione bibliografica, il più delle volte utile come materiale di compilazione, alla base di più corpose e a volte avvertite ricerche, e che hanno quantomeno il merito di salvare dall’oblìo importanti residui folklorici tradizionali.
Tale tendenza si può fare risalire in Italia alla fine dell’Ottocento, che vide tra le tante cose, la nascita della “Società nazionale per le tradizioni popolari italiane”, costituita nel 1893 sotto il patrocinio della monarchia. La società contava 800 soci in tutta Italia e produsse per alcuni anni la “Rivista delle Tradizioni popolari”. Venuta meno la “Società” fu sostituita, nel perseguimento dei medesimi fini, dalla “Società di etnografia italiana”, che organizzò l’Esposizione del 1911 e il primo Congresso di Etnografia. La Società curava la pubblicazione della prestigiosa rivista “Lares” prima serie. La prima guerra mondiale e la scomparsa di eminenti studiosi come il Loria, portarono alla chiusura della Società e della rivista. Il merito di queste prime iniziative nazionali fu quello di formare una classe di “professionisti”, di “educare quella massa di dilettanti” secondo criteri di ricerca uniformi [1].
Il Fascismo, una volta consolidato il proprio potere, si occupò anche della cultura popolare o meglio delle “Tradizioni popolari”, come ci si esprimeva allora, prima in modo assai blando attraverso organismi non organici al potere, poi più decisamente attraverso l’azione egemonizzante di strutture organizzative a carattere ricreativo quali l’Opera Nazionale Dopolavoro [2]. Gli studiosi, provenienti da basi ideologiche prefasciste, si muovevano liberamente all’interno di queste strutture culturali, quale fu il Comitato Nazionale per le Tradizioni Popolari (CNTP), presieduto da Paolo Emilio Pavolini, che ebbe il grande merito di promuovere congressi, e soprattutto mostre ed esposizioni su tutto il territorio nazionale.
Ma le intenzioni messe in campo da questo Comitato non erano suffragate da un appoggio statale in termini di finanziamenti, che il governo fascista rivolgeva in maniera sempre più massiccia in favore dell’Opera Nazionale Dopolavoro (da qui in avanti O.N.D.) [3], che già a partire dal 1927 aveva promosso tutta una attività folkloristica ramificata sul territorio. Lo slogan lanciato dal direttore dell’O.N.D. fu il «ritorno alle tradizioni». «Furono proposti con forza i termini ‘cultura popolare’, ‘usanza’, ‘tradizione’ di cui venivano messe in risalto le ‘autentiche funzioni educative’ contro certa pedagogia sociale che propugnava l’inutilità delle anticaglie» [4].
Lo strumento diretto di cui si servì sul piano scientifico l’O.N.D. fu la Commissione Nazionale per le Arti Popolari (CNIAP), all’interno della Commissione Nazionale di Cooperazione Intellettuale (CNICI), a sua volta legata, in un singolare incastro di scatole cinesi, alla Società delle Nazioni e istituita nel 1929. Le due istituzioni culturali operanti nel campo folklorico, cioè il Comitato operante a Firenze, attorno alla rivista Lares, e la Commissione operante a Roma, sotto la spinta governativa si fusero nel 1932. La rinata CNIAP fu così inquadrata più strettamente e organicamente in seno all’O.N.D., emanazione governativa con chiari intenti propagandistici [5]. Gli studiosi, che a grandissima maggioranza avevano scelto “l’inquadramento”, avevano raggiunto il loro scopo principale: veder legittimato il proprio ruolo e garantito il monopolio sull’area di competenze folkloriche. Questo “inquadramento”, se pur compromissorio, consentì agli studiosi di poter operare nel campo della promozione del folklore oltre che in quello dello studio con mezzi e gratificazioni: fu una scelta non priva di conseguenze, specie dopo il 1935 e le tristi aberrazioni ideologiche del fascismo (supremazie e leggi razziali, alleanza germanica, guerra).
Un risultato certamente conseguì la scelta di “inquadramento”: poter controllare, e in certo senso indirizzare con criteri scientifici le tante iniziative insieme ricreativo-propagandistico e culturali messe in cantiere dall’O.N.D., in particolar modo le tante mostre d’arte popolare promosse in modo massiccio dal 1936 su tutto il territorio nazionale, fra le quali qui voglio ricordare sia la prima “Mostra provinciale d’arte popolare” tenutasi a Siracusa nel maggio del 1936, che la prima “Mostra interprovinciale di Arti popolari siciliane”, tenuta a Catania (ottobre-novembre 1936) [7]. Le mostre avrebbero dovuto illustrare la vita del popolo italiano nella sua quotidianità, contribuire alla conservazione di oggetti in via di estinzione, fungere da incentivo per le industrie locali, come si poteva leggere nelle missive mandate ai Prefetti per incentivare le iniziative. Comunque, all’interno dell’apparato ideologico messo in campo dal regime, si facevano strada le finalità scientifiche dei promotori, che non erano trascurabili. L’errore maggiore fu costituito dal fatto che ci si muoveva sul piano dell’effimero propagandistico, se è vero che degli oggetti, così amorevolmente raccolti, non si conservò che una minima parte, che fu inviata al Museo di Arti e tradizioni popolari di Roma, per il resto niente cataloghi, niente scritti scientifici, niente inventari: soddisfatta la vis propagandistica del regime e il narcisismo degli intellettuali, delle mostre non rimase nulla in loco. Ma questo, a pensarci bene, succede anche oggi!
Le mostre provinciali e interprovinciali, che si sarebbero tenute di lì a poco in tutt’Italia, furono annunziate dal discorso programmatico del presidente della Commissione internazionale per le arti popolari Emilio Bodrero al IV Congresso di studi romani, tenutosi a Roma nell’ottobre del 1935. Egli delineò con precisione le linee guida delle future mostre etnografiche del 1936, i metodi di raccolta dei materiali e dell’allestimento delle mostre. Veniva prevista la costituzione in ogni capoluogo di provincia di un sottocomitato di tre persone: un rappresentante dell’O.N.D., il direttore del Museo locale e un “artista” cultore della materia. I sottocomitati si avvalevano del supporto dell’O.N.D., dell’Ente turismo e dell’Ente dell’artigianato che agivano nel territorio.
La mostra di Siracusa
La mostra di Siracusa fu la prima che si tenne in Italia. Seguì in settembre quella valdostana e in ottobre quella catanese. Nel gennaio del 1936 giungeva al Prefetto della Provincia di Siracusa la circolare dell’O.N.D., in cui si invitava a promuovere mostre di arte popolare, da tenere dal 22 aprile al 28 ottobre. Il Prefetto F. Falcetti inviò lettere ai comuni della provincia perché contribuissero economicamente alla riuscita della manifestazione [8]. La data di inaugurazione fu fissata al 22 aprile. La cura scientifica era del Comitato costituito in seno al Dopolavoro. Il quale aveva spedito in data 26 marzo 1936 ad ogni comune della provincia uno schema di «Classificazione generale per la mostra provinciale di arte popolare» [9].
Della mostra svoltasi a Siracusa fornirono un sommario resoconto, sulla rivista “Lares”, il segretario provinciale dell’Opera Nazionale Dopolavoro E. Di Lorenzo e il prof. A. Tropia del Comitato provinciale Arti e tradizioni popolari, in data 22 Maggio 1936:
La mostra di Siracusa era stata preceduta da un lungo dibattito e da tutta una serie di proposte e di iniziative tese a valorizzare il patrimonio storico, artistico ed etnografico della provincia. Fin dal 1934 su iniziativa dell’Azienda autonoma per la stazione di turismo era stato proposto un programma di attività che andavano sotto il titolo generale di “Autunno siracusano”. Lo scrive il presidente dell’Azienda Francesco Boccadifuoco, il quale presenta istanza al Ministero delle Corporazioni a Roma, di autorizzazione per una “Mostra annuale dell’arte e dell’etnografia siciliana”. La lettera è del 29 gennaio 1934. In data 25 aprile il neo presidente Francesco Maugeri scrive in proposito al Prefetto di Siracusa: «Oggetto: Mostra dell’arte e dell’etnografia regionale. Mi pregio rimettere alla E.V. l’unita istanza diretta a S. E. il Ministro delle Comunicazioni e tendente ad ottenere le riduzioni ferroviarie del 70% per Siracusa nel periodo dal 1° Settembre al 30 Ottobre in occasione dei festeggiamenti dello “Autunno Siracusano” […]» [10]. Nell’acclusa domanda al Ministero si precisano le sezioni della mostra: «Mostra di pittura, di scultura siciliana, delle arti fotografiche e del paesaggio, dell’artigianato e delle arti popolari, del costume». Viene accluso anche il Regolamento.
In verità in tutta la Sicilia è un pullulare di proposte per iniziative consimili. Fra tutte spicca il programma presentato dall’Ente “Primavera siciliana” di iniziative da tenere in tutta la Sicilia dal 15 ottobre 1934 al 15 maggio 1935. Per Siracusa si prevedono una serie di concerti al Teatro Greco il 22 ottobre 1934, il 15 aprile del ‘35 una Mostra dell’artigianato e dell’arte siciliana fino al XVII secolo, il convegno turistico regionale e a maggio, sempre del 1935, le “Feste floreali e concorso dei balconi fioriti” oltre alla “Corsa automobilistica coppa Siracusa e il IV giro turistico della Sicilia”. Per la manifestazione “Autunno siracusano” si prevedeva un costo di 167 mila lire. Alla mostra doveva collaborare anche la storica dell’arte Maria Accascina, come apprendiamo da alcune lettere della studiosa spedite al Minniti. Interessante la notizia, che leggiamo sempre fra le carte dell’archivio dell’Azienda Turismo di Siracusa, dell’esistenza di una collezione di “materiale etnografico” raccolto nella sede dell’Azienda. In data 26 marzo 1935 l’Opera Nazionale Dopolavoro scrive al Presidente dell’Azienda perché
Come si vede l’Azienda Turismo non ha una idea chiara di cosa debba reputarsi oggetto d’etnografia, intendendo ancora “corporativamente” ciò che denota l’etnos di un generico popolo siciliano (non si può parlare di classi, perché la parola era bandita dal formulario culturale). Pur coi suoi limiti sarà il “Comitato Prov.le arti popolari”, espressione del Comitato Nazionale per le arti popolari, nell’ambito dell’O.N.D., a precisare l’ambito della parola e i limiti oltre i quali non era possibile più parlare di oggetti d’etnografia. D’altra parte lo stesso Mussolini volle tracciare lo slogan da ripetere in tutte le mostre etnografiche: «Le particolari fisionomie e le attitudini delle singole regioni debbono fondersi nella insuperabile armonia dell’Unità nazionale»: che è tutto un programma.
La mostra di Catania
Se la mostra di Siracusa ebbe carattere provinciale, quella di Catania fu il passo successivo, poiché ebbcarattere regionale, o comunque “interprovinciale”. L’idea era stata lanciata fin dal 1934 dal Comitato per le Arti Popolari di Catania. La proposta partì dall’eminente folklorista catanese Salvatore Lo Presti [11]. Nel gennaio del 1936 giunse la circolare dell’ON D, di cui s’è detto, che invitava a tenere mostre di Arti popolari. Presidente del Comitato fu eletto Guido Libertini. Il Comitato volle superare la mostra siracusana ed ebbe l’ambiziosa idea di tenere, come detto, una “Mostra interprovinciale”. Il consenso fu dato dall’O.N.D. e in data 3 marzo il Comitato, nominato dal segretario federale secondo le indicazioni generali dell’O.N.D., si riuniva nella Casa del Fascio [12]. La mostra ebbe la pretesa di ripetere l’impresa felice della mostra palermitana del 1891-92 organizzata dal Pitrè.
La mostra catanese ebbe maggiore rigore scientifico di quella siracusana. Il merito fu del Lo Presti, ma anche di una giovanissima Carmelina Naselli, figura di spicco della futura etnografia siciliana, che ricoprì a partire dal 1949 la cattedra di Tradizioni popolari a Catania, oggi indecentemente chiusa.
Essa si pose subito il problema dei criteri espositivi: per aree geografiche o per tipologie? Si scelse un criterio non univoco:
«Il fatto che si disponeva di un numero maggiore di padiglioni anziché di costruzioni rustiche, fece scegliere come il più opportuno l’ordinamento per categorie, ma nelle categorie si cercò di applicare, il concetto geografico, in modo che fosse concesso [...] stabilire il raffronto tra le manifestazioni di una provincia e quelle simili delle altre, ricercando il luogo d’origine degli oggetti [...]» [13].
Il primo padiglione comprendeva oggetti delle “Arti domestiche”: ceramiche, soprattutto, da acqua come quartari, lanceddi, bùmmuli, mustichi; o da vino come çiaschi, cannati, caraffi. Si trattava di oggetti ceramici provenienti da Agrigento o Catania, Patti, S. Stefano di Camastra, Caltagirone. Poi ancora si esposero stampi per dolci (formelle maiolicate), bicchieri di corno, mentre non mancava anche qui come a Siracusa il vasaio, che dal vivo eseguiva lavori al tornio.
Il secondo padiglione era dedicato alle “Arti del Carretto”: vi era esposto un carretto di Viagrande dipinto ad Aci S. Antonio, mentre all’interno erano le bardature, le bisacce, le chiavi di carretto ecc.
Il terzo ospitava le “Arti sociali”: gli elementi artistici delle feste e dei riti, come il “vassoio del comparatico” colmo di frutta reale, i doni dei fidanzati (stecche da busto, conocchie, navette, cinture, fazzoletti, portafogli ricamati); spiccava un bellissimo aspo intagliato di Sortino; poi ancora i manipoli di grano intrecciato, maschere di carnevale, pupi, cartelloni e fondali dell’Opera, strumenti musicali, come zufoli dipinti o scolpiti, “brogne”, ciaramelle ecc.
Il quarto riuniva le “Arti religiose”: si potevano osservare i costumi delle confraternite, oggetti di devozione da chiesa, ceri votivi di Catania, i “miracoli” di Melilli in cera, tavolette votive di legno, di tela, di latta, i fanali processionali di Buscemi, le palme da altare di Ferla, di latta colorata. In un angolo era esposta una candelora dei macellai di Catania.
Il quinto padiglione era quello delle “Arti personali”: vi erano selezionati i giocattoli, come carrettini, i fischietti di Caltagirone, le trottole, riproduzioni di utensili, bambole, i vestiti della massaia, quello nuziale, quello degli “otto giorni” di seta scura, quello giornaliero, scialli, mantelline, il corredo, la robba della sposa. Risaltavano i costumi del massaro e della massara di Modica; e ancora bastoni, e gli ori della sposa.
Non mancava la ricostruzione del pagghiaru, di muri a secco e paglie, custodito da un vero pastore dell’Etna, intento a scolpire utensili in legno. Anche la casa rurale etnea fu ricostruita nei minimi particolari. Nel padiglione otto erano gli oggetti delle “Arti domestiche”: canestri, panieri, ceste ecc. in paglia, giunco, canna, palma, rafia, lavori pastorali a punta di coltello.
Il nono padiglione era quello della “Vita nei campi” e radunava attrezzi di lavoro, mentre il decimo era dedicato alla architettura rustica con archetipi di case coloniche del siracusano e del catanese, oltre a piante e fotografie.
Il padiglione undicesimo era occupato dai lavori tessili; in una sezione che prendeva il nome di “Il fuso, la spola e l’ago” vi spiccavano lavori al telaio di tutta l’Isola, fra cui le bianche coperte di Acireale o del Siracusano (cutri) a tessuto ammurgatu [14] o smicciatu. Vi si avvicendavano al telaio donne di Mascalucia, ma soprattutto di Sortino, considerato allora “il paese della tessitura popolare”, che presentava pregevoli lavori quali il famoso bancale. Infine un padiglione, l’ultimo, era dedicato alla pesca e caccia.
La mostra catanese fu inaugurata l’8 ottobre: numerosi furono gli spettacoli di “animazione” e “promozionali”, primo fra tutti quello dell’opera dei pupi.
Ma veniamo a quello che più per noi conta, cioè il raggiungimento degli scopi scientifici, fra cui rientrava certamente, nei più avveduti, quello di fornire un quadro completo delle arti popolari siciliane. Ma era soprattutto l’occasione perché nascesse il Museo Etnografico della Sicilia Orientale. Per il primo risultato non siamo in grado di esprimere un’opinione. Certo i limiti di queste iniziative stanno proprio nella metodologia e nella “filosofia” che le ispirava. Teniamo presente che gli anni successivi al ’36 furono terribili per l’Italia, dove si consolidava un regime sempre più oppressivo e intollerante (vedi leggi razziali). Certo in queste mostre mancò un altro Pitrè, che sapesse dare continuità e organicità scientifica alle iniziative e “custodisse” il materiale al fine di fondare l’auspicato Museo delle Arti e tradizioni.
È incredibile che solo un uomo che scriveva dal carcere riuscì a cogliere i limiti e gli inganni di tali mostre etnografiche: Antonio Gramsci. Così scrive con lungimiranza e lucidità:
Fu un’occasione perduta quella del 1936: fu enorme la quantità di materiale che in quelle mostre fu raccolto in ogni provincia d’Italia, da far dire ad un commentatore coevo che si poteva «costituire un museo in ogni provincia d’Italia» [16]. Bisognerà aspettare gli anni ‘70 perché nascesse, per opera di Antonino Uccello, a Palazzolo, un museo che documenta l’area etnografica della Sicilia Sud orientale.
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