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L’estate dei piccoli paesi

Posted By Comitato di Redazione On 1 settembre 2019 @ 00:13 In Cultura,Società | No Comments

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Tricase, 2019 (ph. Pietro Clemente)

di Pietro Clemente

In giro

L’estate è una stagione speciale per i paesi che hanno perso i loro abitanti, che continuano a vivere l’erosione, e la denatalità. È una stagione di rinascita in un certo senso fittizia, come se si rinascesse d’estate e si rimorisse d’inverno. Temi anche assai discussi già dai tempi del Ramo d’Oro di Frazer e dei ‘riti agrari’. Tornano gli emigrati, molti giovani nati altrove conoscono il paese  per la prima volta, oppure per essi il paese di origine diventa paese di vacanza. Ma già da parecchi anni il desiderio di molti emigrati di non lasciare spegnere le tradizioni, o di cercare di richiamare al paese non solo il proprio popolo, ma anche gli altri, i turisti, i visitatori, ha fatto dell’estate la stagione dei festival, della cultura, del cinema, delle manifestazioni, del trekking, delle sagre gastronomiche. Se ne parla talora come mero consumismo, superficiale impatto ai grandi problemi dello spopolamento.

In Sardegna l’esperienza autunnale delle ‘Cortes apertas’ (l’apertura delle corti interne e sovente la vendita dei prodotti locali) ha dilagato, e ha avuto successo fuori della stagione in cui l’isola è invasa dal popolo delle coste e del mare. Se ne può parlare criticamente, è un fenomeno vario e differenziato, ma certo è un fenomeno socialmente significativo. Produce anche un turismo interno di scambi. Forse anche un senso riflessivo sulla storia e sulle previsioni demografiche che lasciano così poche speranze di futuro alla Sardegna.

Anche la mia estate di cercatore di tracce di piccoli paesi, è stata una estate di incontri con festival ed eventi. Usuali e quasi rituali, o nuovi, appena nati. Molti eventi cui non ho potuto partecipare li  ho avuti sullo schermo del computer. Il ciclo dei miei incontri è stato più lungo dell’estate. È cominciato in Sardegna a Ittireddu, ai primi di maggio. In questo piccolo paese, ricco di documenti archeologici, con un sindaco archeologo, vitale e attivo nel campo della cultura e della partecipazione  sta nascendo un Archivio memorialistico della Sardegna. Quindi la Calabria, a metà maggio,  a Soriano Calabro, partner della rete dei piccoli paesi, luogo di musei e di storia culturale, dove nella varia offerta museale, sta per nascere un museo dei terremoti. Qui (e poi a Cosenza) eravamo per il giro di presentazioni di Riabitare l’Italia, il volume che è diventato una sorta di guida ai temi  di un futuro che torni a guardare alle zone interne dell’Italia. E poi giugno ad Armungia, da dove la rete dei piccoli paesi ha preso l’avvio, e che era al quarto festival, nel dialogo tra Riabitare l’Italia, le esperienze di turismo leggero e originale basato sui paesaggi, e il tema centrale che è sempre la tessitura, l’artigianato. Luglio comincia con Tricase in provincia di Lecce, una scuola estiva dedicata ai cantastorie, e la scoperta di Liquilab, un mondo di ricerca che è anche di ritorno  a ‘riabitare’ i luoghi natali da parte dei promotori. Luglio continua con  Loreto Aprutino (Pescara) e il suo festival neonato Paesemadre: l’emigrazione che si fa teatro nella storia di vita di Ginetta Fino, il dibattito su come riabitare, il conflitto tra tutela e creatività adattiva, i festival musicali come luoghi dei giovani per il ritorno, in un mondo abruzzese dominato dagli arrosticini, tra mare e monti. Monticchiello (frazione di Pienza, Siena) ai primi di agosto è stato invece la partecipazione a un rito condiviso, che non ho quasi mai mancato in questi ultimi anni, in cui era incluso anche un rito di passaggio di generazione. Uno di quei riti difficili ma fondamentali nei mondi locali.  Poi ho seguito altre tracce di viaggio, senza festival. Ma a Introd (Aosta) incontrando il Musée Maison Bruil, già attivo nella rete, e attivo nel legare il museo ai produttori locali di generi alimentari ed estetici di qualità, ho anche incontrato il racconto de La Nuits des temps, una sorta di teatro notturno che si fa d’ottobre, fuori dalla classica stagione turistica valdostana, e cerca di interpretare la memoria del territorio e farla condividere anche a un limitato mondo di turisti che sono anche amici del luogo, e che ne condividono la storia.

Ad agosto ho visitato anche Ostana di cui si parla in queste pagine in un testo di De Rossi e Mascino, il Museo dell’emigrazione Piemontese a Frossasco, guidato dalla direttrice Carlotta Colombatto, il nuovo allestimento del Museo della Storia Valdese di Torre Pellice. Avrei potuto girare l’Italia una mattina in un luogo e il pomeriggio in un altro, ma non sarei mai riuscito a catturare l’immagine di questa Italia dei piccoli mondi che si offrono all’estate per ritrovare se stessi e farsi ritrovare da altri.

Spesso nei  ritorni estivi al paese da ragazzi, coi genitori, maturano, come in una semina lenta, anche idee di ritorno che appaiono alla luce anche dopo vent’anni, o trenta. L’avere visto un altro mondo o un altro modo di vivere questo stesso mondo, lascia tracce.

Pensando a queste estati e connettendole con gli scritti che sono arrivati a Il centro in periferia ho pensato a due percorsi per il mio editoriale.

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Armungia, 2019 (ph. Simone Mizzotti)

Persone e innovatori

 A leggere la storia della rinascita di Ostana, del suo coraggioso affrontare l’abbandono e costruire l’esperienza del riabitare (a Ostana abbiamo incontrato al Rifugio, nello spazio libreria e prodotti locali,  Pablo un bimbo di tre anni, il primo nato lassù dopo 28 anni, e abbiamo scoperto e portato via un consistente sacchetto di prodotti del forno ‘Quel poco di pan’ aperto da pochi mesi da due giovani), vengono in mente, si immaginano uomini, donne, persone che hanno la forza di provare a capovolgere un ‘destino’ demografico, sociale, statistico.

Nel leggere il testo di Silvia Passerini e del lavoro dell’Associazione Thara Rothas e della Rete del Ritorno si trovano in evidenza i nomi delle persone che sono e fanno la pratica del riabitare: Riccardo, Francesco, Elena, Giacomo, Fabio, e l’autrice ci racconta cosa fanno. E lei che li racconta è coinvolta in quel fare. De Rossi e Mascino che raccontano Ostana e raccontano di Edoardo, Giacomo, Renato, Marco, Fredo, Giorgio, Silvia e naturalmente Pablo, sono anche loro nella scena. Alessandra Passeri è una giovane protagonista di Paesemadre, ma parla di due persone come indispensabili e fondatrici dell’evento: sono Fausto e Giacomo. E poi Eugenio Imbriani racconta un evento organizzato da Liquilab, ma Liquilab è anche l’autobiografia familiare di Ornella Ricchiuto che subito dopo ne racconta. La famiglia Ricchiuto è tornata a Tricase dal Lago di Como, dove ha vissuto molti anni, per riabitare il paese. Anche gli altri luoghi che ho visitato condividono questo tema: il ruolo delle persone nell’attività delle comunità e nell’impegno nel riabitare i luoghi. Potrei fare una lunga lista di nomi e cognomi. Nel farsi di una nuova ‘coscienza di luogo’.

L’ultimo articolo della sezione, quello di Settimio Adriani, Riccardo Fornari, Dario Santoni, non riguarda la nuova fondazione dei luoghi da ‘riabitare’, e le persone che se ne fanno protagoniste, ma il dibattito sui modi di farlo. Ci colloca in una scena di scelte politiche locali, di agenzie e soggetti della società civile che vengono privilegiati o non. Di eventi locali che i politici scelgono contro l’evidenza del valore per il territorio e per autopromozione. Con molto spirito critico si discute di una festa intercomunale legata alla pastorizia, che tende – per una scelta esterna ed estranea – a diventare una festa della transumanza nel quadro di una ipotesi di riconoscimento Unesco della transumanza come patrimonio immateriale. Ma con la marginalizzazione dei produttori locali i quali rispondono con rassegnazione con gli antichi metodi della satira in versi. Anche qui, dietro le agenzie e le istituzioni ci sono persone, e ci sono anche diverse idee di come si fa sviluppo locale quando l’alternativa è la condivisione dal basso, o la sottrazione dall’alto di una festa per un uso importante ma sottratto alla vita reale del territorio. Ci sono persone dietro le pasquinate in versi, e ci sono persone dietro le sigle della cattiva politica locale, ma soprattutto sono persone i tre autori, coinvolti fortemente nella vita del territorio e nelle iniziative sulla biodiversità, che hanno sentito il dovere di denunciare una situazione quasi esemplare della complessità dei contesti e delle scelte che si possono fare per ‘riabitare l’Italia’.

‘Persone’ è il titoletto che ho voluto dare a queste considerazioni. Ed è da un po’ che lo vedo centrale.  Ci sono molti casi in cui chi ha il coraggio di ‘riabitare il paese’ non viene accolto positivamente. Mi vengono alla mente due film: Il vento fa il suo giro, di Giorgio Diritti, e I cento chiodi di Olmi, come due paradigmi della grande difficoltà delle comunità locali a condividere la trasformazione, anche quando questa appare l’unica risorsa perché una comunità non frani totalmente. Ricordo nel nostro stage delle Università di Siena e di Aix en Provence in Val Germanasca, il racconto dei piccoli appezzamenti montani, incolti perché i parenti emigrati in North Carolina, in Uruguay o in Francia non volevano né venderli né darli in uso. È il problema del ‘monte terre’ che anche Paraloup ha dovuto affrontare, con una buona soluzione di concessione in uso. Un tema che era presente anche nella Sardegna del tentato e fallito Piano di Rinascita.

Chi è rimasto nei paesi spesso non condivide una coscienza ecologica, a volte difende piccolissimi privilegi o diritti di proprietà del tutto inutili. Il film di Giorgio Diritti ne fa una casistica sconvolgente e franca. Perché ciò che viene difeso nel film contro il pastore filosofo che viene dai Pirenei, l’estremo opposto dell’Occitania rispetto al cuneese, fa parte di ciò che anche nella nostra vita quotidiana, ed eventualmente condominiale urbana, possiamo considerare legittimo. Tagliare un albero dentro una casa diroccata che non è mia è una violazione del diritto di proprietà. Colpisce che sono persone non benestanti, legate alla storia della comunità, ad ostacolare la vita produttiva, criticando il nuovo anche su altri fronti, lo stile familiare diverso, la estraneità alla vita religiosa locale. Chi complotta contro il pastore francese – ‘l’estraneo’ che ridà vita al paesaggio vivendolo produttivamente con le sue capre e i suoi formaggi – vorrebbe lì un turismo tipico, un ristorante, non una vita produttiva. Ne I cento chiodi l’estraneo diventa invece una sorta di guida religiosa della comunità, al quale però è legata la capacità di trasformazione delle coscienza, che non è anche qui interna alla vita quotidiana della gente. Lo ho segnalato altre volte, la coscienza di luogo sembra venire dall’esterno in molti casi, e avere bisogno dello spazio locale per radicarsi. Spesso è più facile agire in uno spazio vuoto, come era Ostana trent’anni fa, e come ha teorizzato in queste pagine Toni Casalonga per la rinascita di Pigna in Corsica:

«Quando scompare un modo di vivere, si creano vuoti, si aprono spazi che sono la prima condizione necessaria per la mutazione: così scompaiono anche gli ostacoli, e nasce la libertà di fare.La prima delle condizioni, la possibilità di fare, non nasce dalla nostalgia del passato ma dalle opportunità aperte dalla sua dipartita» (DM n.28, 2017).

Questi problemi riguardano da un lato la democrazia, la partecipazione, la condivisione, la capacità di costruire ‘comunità patrimoniali’, il rapporto tra ‘avanguardia’ e gruppi locali che spesso nel Novecento ha avuto esiti negativi (tra questi il riabitare le campagne legato alla generazione di nuovi agricoltori degli anni 70, anticipatori, ma anche drappello rarefatto e mutato, a guardare questo fenomeno ora a quaranta anni di distanza). Se ne è già parlato in queste pagine. Spesso il conflitto è la condizione stessa della vita di nuove comunità locali, ma deve essere contenuto dentro una prospettiva comune. Se no l’effetto de ‘il vento fa il suo giro’ diventa micidiale, uccide l’iniziativa, a vantaggio dei più che sono però quelli che vogliono la fine della comunità: dopo di noi il diluvio.

L’altro tema è quello della innovazione e degli innovatori. Possiamo considerare i protagonisti delle iniziative dei piccoli paesi come ‘innovatori sociali’? È uno dei temi che hanno aperto Filippo Barbera e Tania Parisi, sociologi, nel loro saggio dentro il volume a cura di A.De Rossi Riabitare l’Italia, (Donzelli 2018): Gli innovatori sociali e le aree del margine. Nel paragrafo dedicato a “Le aree interne come laboratori di innovazione sociale”, ridiscutono una tradizione di studi che vuole l’innovazione sociale legata solo ai grandi centri urbani e alle nuove tecnologie, e cominciano a disegnare una nuova dimensione dell’innovazione, che non rinuncia alla formazione urbana, ma la orienta verso nuovi territori e progetti, avvalendosi tuttavia di tecnologie avanzate. È un tema sul quale continuare a fare indagine. Decisivo per le nostre prospettive. Da approfondire anche alla luce più ampia del loro libro Innovazioni sociali. La sindrome di Prometeo nell’Italia che cambia (Il Mulino 2019).  Cercare un po’ di Prometeo nei nomi delle persone che hanno scommesso la loro vita nelle realtà delle zone interne è una bella idea.

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Monticchiello, paesaggio cretoso (ph. Pietro Clemente)

Intermezzo da Monticchiello

Nel testo teatrale Stato transitorio e nella perfomance che si è svolta nella piazza del paese con attori, registi, tecnici, sceneggiatori locali stanno questi brevi dialoghi che segnaliamo per riposizionarci sui problemi elementari dei luoghi:

Daniele – Per fa sta aperto l’ufficio postale du’ mezze giornate a settimana c’è toccato andà a protestà fino a Roma…E ‘un si sta mai tranquilli. Eppure le tasse si pagano anche noi, come tutti

Rosanna- La scuola, la banca, i negozi…Qui i numeri so quelli che so: i servizi per noi è da un pezzo che so un miraggio. Io devo andà all’ospedale tre volte al mese, e se ‘un fosse per la mi’ nipote che si fa in quattro…l’autobus qui ‘un arriva mica.

Scritture nei viaggi. Armungia, Loreto, Tricase, Monticchiello su Facebook

Da qui lascio la parola ai miei post del viaggio estivo, da Armungia a Monticchiello, passando per Loreto Aprutino e Tricase, messi su Facebook da giugno ad agosto. Alla scrittura da viaggio che Facebook mi rende più facile. E che qui propongo come riassunto dell’estate dei piccoli paesi, ma anche come poetica della mia antropologia di quiescente parzialmente girovago.

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Armungia, 2919 (ph. Simone Mizzotti)

Armungia (Cagliari)

Ancora Un caffè ad Armungia: il 15-16 giugno 2019

A quattro anni un festival è già adolescente, anche se non ancora adulto. E infatti sta cambiando: quest’anno è diventato a tappe, come un gioco dell’oca, e comunque più lungo, diluito nel tempo dell’anno, e si è inoltrato soprattutto nei percorsi naturali per i quali Armungia è davvero un luogo speciale. Ma a giugno il 15 e 16 è ancora lo stesso: al centro il tema di Riabitare l’Italia così come Tommaso e Barbara hanno deciso di riabitare Armungia, e consentito ad Eva a nascerci. È la quarta edizione di Un caffè ad Armungia. La lotta allo spopolamento, ma anche la riflessione su cosa è giusto fare, il festival cerca di mantenere una dimensione di intrattenimento culturale di qualità, e soprattutto di orientare i suoi temporanei ‘abitanti’ sui temi della diversità culturale connessa con la biodiversità. Mangiare, leggere, camminare, pensare ‘diversamente’ e biodiversamente. Al centro ci sono i due musei e il nuraghe urbano che osservano (e vengono osservati) e proteggono il festival ogni anno. Il nuraghe nella sua saggezza millenaria è per Armungia anche il ‘palo totemico’, portatore dell’idea, che piaceva a Ernesto de Martino, che ogni cultura e società ha bisogno di un suo centro del mondo per vivere. I tre festival già fatti ad Armungia dal 2016 sono stati per il nuraghe come un battito di ciglia temporale, anche di meno. Solo lui saprà se saremo riusciti in futuro a ripopolare l’Italia e il suo orizzonte prossimo armungese.

Musei e laboratorio di tessitura, visita ai murales, a Casa Lussu, cibo biodiverso fanno da ordito alla trama di riflessioni sul turismo, sulla cultura del ritornare (tra libri e film), e del camminare la natura. Voce e chitarra la sera sono di Ferrara e Macis, ma è anche il luogo speciale che fa l’incanto, aspetteremo il tramonto e l’apparire delle stelle nello spazio aperto di Casa Lussu. Forse Tommaso ci mostrerà ancora il video del festival 2018 facendoci volare su un drone a vedere il paesaggio mozzafiato del Flumendosa.

Per me il tema centrale dell’evento è la presentazione del libro Riabitare l’Italia, lo stiamo presentando in città e paesi, perché lo scopo di questo libro è quello di farci invertire lo sguardo, e cominciare a vedere il futuro a partire dall’Italia delle zone interne, immaginare uno sviluppo che abbia al centro i luoghi, se l’Italia vorrà ancora somigliare a quella dei suoi tempi lunghi, unici e prestigiosi. Per me infine Armungia resta quella dei miei allievi e colleghi e mia, conosciuta dappresso alla fine degli anni ’90, ricca di persone e di storie, come di capre e di pecore. Quella che mi è cara già da prima di conoscerla per i racconti di Emilio Lussu, e che ora sento anche mia per il lavoro che vi si svolge, tra tessitura, associazione Casa Lussu e musei per tenerla viva. Quella Armungia che allora volli chiamare “Il paese di Emilio Lussu e delle rose”.

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Loreto Aprutino, 2019 (ph. Pietro Clemente)

Loreto Aprutino (Pescara)

Paesemadre

Paesemadre è un giovane festival che si è svolto lo scorso week end a Loreto Aprutino, era alla sua seconda edizione. Si parlava anche di zone interne, di paesi in via di spopolamento. Mi sentivo di rappresentare la rete dei ‘piccoli paesi’ nata nel 2016 e sono partito con Ida in auto da Siena. Già il viaggio è stato una scoperta, un ripasso della vita. La strada, oggi più scorrevole, traversa l’Umbria e le Marche, per arrivare all’Abruzzo. Traversa l’Appennino, pieno di ricordi. Quante volte sono passato da Pieve Santo Stefano. Un luogo che ho ricordato a Loreto perché, grazie all’Archivio diaristico nazionale, è un paese che contiene tanti paesi ed è una miniera di memorie. I bombardamenti a Pescara, deportati in Germania, la guerra, la fame, via degli Scalpellini, compaiono tra le tante voci pescaresi del catalogo di Pieve (Archivio dei Diari).

Ma ecco che da subito il viaggio, dopo Cortona (dove morì sfollata mia nonna materna Erminia), è Lago Trasimeno, luogo della Scuola di Specializzazione in beni DEA, di tanti allievi, di incontri, di pesci di lago, Gianni Pizza, e Giancarlo Baronti, toscano che ha schedato la cultura popolare umbra quasi palmo a palmo. L’Umbria, il lungo dialogo con Tullio Seppilli (la visione di Spello: forse – diceva Tullio – il luogo di origine del suo nome ebraico). La memoria della marcia della pace ad Assisi e di Aldo Capitini conosciuto a Cagliari, le iniziative fatte in Val Nerina, sui musei, paesaggi, colture a chilometro zero, con Cristina Papa, Luciano Giacchè e tanti altri. Norcia vista prima del terremoto. Le patate di Colfiorito e le lenticchie di Castelluccio. E poi le Marche, Fermo, Porto San Giorgio, Porto Sant’Elpidio sono luoghi della mia amicizia inquieta e ammirata con Joyce Lussu, la moglie di Emilio, mamma di Giovanni, nonna di Tommaso Lussu. Un pezzo anche della mia storia: qui ho conosciuto anche Antonietta Langiu, scrittrice e poetessa sarda, e il circolo legato a Joyce, con Gilda Traini.

Quando arrivo a Loreto, contro la volontà del navigatore satellitare, è già stato – con Ida – un viaggio di ricordi, un ripasso del tempo, accompagnato ad un certo punto dalla visione favolosa del mare, che continua a mancarmi. Loreto è un paese irto, luminoso, accaldato, pieno di attività per il festival. Ci si arriva in un paesaggio contadino assolato fatto di viti, di olivi, di stoppie. Ci accoglie Alessandra Passeri, organizzatrice già incontrata nei mondi dei piccoli paesi a Monticchiello. Ma c’è anche Ginetta Maria Fino, che presenterà dopo il tramonto il suo racconto di vita diventato teatro autobiografico, Fino a Cahors. Una storia emozionante di partenze, migrazioni e scelte di vita. Dal Giardino delle Monache si va ora alla Piazzetta del Silenzio, dove si ascolta la musica delle “Lame da barba”, un gruppo di musicisti che suonano in mille modi il Mediterraneo, e la mia memoria va a Mediterranean pipe lines, al Canzoniere del Lazio, ai dialoghi tra Salento e Siria, tra Tunisia e Sicilia: sono strumentisti di grande talento, i loro suoni familiari ed insieme estranei, si fanno ritmo, ricordo, viaggio, carovana come il festival che a suo modo viaggio e carovana.

Loreto con paesemadre è veramente benvenuta nella rete dei piccoli paesi. Pur essendo un paese contadino e turistico consistente, vive le partenze dei giovani, ma anche i loro ritorni, il disagio di un centro storico dove ci sono ancora tracce dei bombardamenti della guerra e poi del terremoto. Cerca investimenti per un turismo più finalizzato. In un Abruzzo ricco di sagre e di offerte di risalita dalla costa. Oggi spesso la generazione adulta propone sagre alimentari, e quella giovane festival musicali. Ma il turismo deve essere progettato: ed è questo forse il nodo più forte sul quale ancora lavorare nella rete dei piccoli paesi. Un bel dialogo con l’architetto Lucia Serafini, dell’Università di Pescara, nel toccare temi comuni, le diseguaglianze territoriali, le iniziative, il restauro, il valore della memoria come ricchezza di possibilità future. E il dibattito mette in scena una generazione di millennials, tanti interventi di giovani, impegnati nella cultura e nella politica locale. Questo è il ricordo più forte, la speranza che questi giovani restino in rete, che ci guidino– noi dello scorso millennio – perché sappiamo guidarli quando può essere utile innestare il futuro nel passato.

Il festival continua. Abbiamo l’impressione che la Maiella abbia cura di ‘paesemadre’ e sorvegli affettuosamente gli incontri. Sulla via del ritorno, quasi a Siena, incontro a una stazione di servizio Gabriella Donati, con suo marito, che tornano a Pisa. Gabriella fu allieva e collaboratrice negli anni ‘80 all’Università di Siena, e partecipò alla mia prima ricerca sui paesi, quella su Castiglione d’Orcia. Sta venendo dalle Isole Tremiti, abbiamo fatto più o meno la stessa strada. Per una buona mezz’ora ripassiamo le intersezioni delle nostre storie. La strada da Siena verso il mare d’Oriente, verso i colli e i monti d’Abruzzo, è piena di buoni pronostici e segni di futuro, oltre ad essersi rivelata lastricata di memorie profonde, quelle di cui sono fatto, di cui siamo fatti, memorie dei luoghi, coscienza di luogo.

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Tricase, 2019 (ph. Pietro Clemente)

Tricase (Lecce)

Liquilab 12-21 luglio.

Scuola estiva, un convegno-festival, laboratorio di antropologia

Cosa mi ricorda questo viaggio verso Tricase, in auto da Siena, con Ida e Giovanni, lungo tutto il Sud? Qualcosa della mia storia. Certo. Ma la luce che ci accoglie a Tricase è come quella della Sardegna assolata d’estate. Il paesaggio è simile anche se qui la storia ha lasciato più tracce. L’amico pittore toscano Primo Pantoli, a Cagliari mi diceva: «non potrò più dipingere in Toscana la luce qui in Sardegna è così satura, i colori sono diversi». Lo ho capito solo dopo avere vissuto a Siena ed essere tornato a Cagliari d’estate. Questi colori saturi ritrovo qui a Tricase incorporati nella storia e nella natura stessa della pietra leccese, che cattura e trattiene la luminosità.

La Scuola estiva è già cominciata, arrivo negli ultimi giorni, ma da subito mi colpisce lo spazio di Liquilab, perché sta dentro una struttura storica conventuale, che dà su una piazza, così che il chiuso (seminari) e l’aperto (concerti, eventi) della Scuola quasi non hanno confini (l’ultima foto). Arrivo nella sera e mi accoglie la musica travolgente di Moustapha Denbélé, il tema dell’anno è quello dei cantastorie e lui è un Griot del Mali. Mi colpisce la qualità del musicista. Tutte le sere la qualità della musica è stata altissima. Nel cuore ci è rimasta Daniela Ippolito, arpista e cantante, ispirata dai viaggi nel mondo degli arpisti di Viggiano (e dagli studi di Enzo Alliegro). Nel caldo intenso dei pomeriggi abbiamo lavorato su vari temi: a me toccava una idea di nuove iniziative per l’anno prossimo, il tema del paese, della zone interne e del loro sviluppo. Ci coordinavano Eugenio Imbriani con Giuseppe e Ornella Ricchiuto, padre e figlia fondatori di Liquilab. Nei seminari e in piazza c’era anche Pietro di tre anni, figlio di Ornella, con la nonna. Segno di una familiarità, di una presenza della vita quotidiana lungo tutto l’incontro, fatta anche dai cibi preparati per l’occasione, legati e raccontati con la memoria delle donne del posto.

Una sera c’è l’Opera dei pupi a fare da cantastorie, con il Museo delle Marionette di Palermo e il Direttore Rosario Perricone e con la compagnia Brigliadoro. Si fa un laboratorio sul come costruire le marionette, e qui i bambini diventano protagonisti. Liquilab ha una storia più che decennale di ricerca, di storie di vita e di fonti orali, ha un archivio rilevante. È un luogo di riferimento per il territorio. Ce ne erano diversi e importanti in tutta Italia negli anni ‘70, ma questa è un’altra e nuova storia che rilancia il lavoro sul territorio e fa da polo e presidio per reti regionali e nazionali sia della cultura popolare, sia del patrimonio culturale come risorsa per lo sviluppo locale.

Ma dovrò scrivere ancora di questo giro tra Puglia e Campania che è anche una memoria degli antenati, passiamo in auto davanti a Mola di Bari, luogo natale di mio nonno, del mio cognome e di una famiglia dispersa. Campania: Portici l’infanzia e la giovinezza di mia madre. Sono connesse cinque generazioni in questo mio percorso che ci porta a Tricase, lingua estrema d’Italia che si sporge su due mari del Mediterraneo, terra di partenze e di arrivi. Storie di storie di storie passate e future si immaginano in movimento da qui, davanti alle quali la mia storia impallidisce e confluisce nei percorsi e flussi della lunga vicenda di queste terre.

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Monticchiello, 2019, Generazioni in scena (Archivio Teatro Povero)

Monticchiello (Pienza- Siena)

Una notte di agosto piena di stelle


A Monticchiello si ripete il rito e lo spettacolo del Teatro Povero, sempre lo stesso, sempre diverso. Quest’anno ‘Stato transitorio’ racconta, come spesso negli ultimi anni, la crisi. Ma non solo quella dell’Italia e della comunità locale, anche quella del teatro stesso. È un tema da vari anni, nella scena, almeno dal 50° compleanno. Crisi di identità, crisi di futuro possibile. Qui il teatro lo fanno abitanti ed amici, vecchie e nuove generazioni, è alto artigianato locale, creazione individuale e collettiva. Sempre in bilico. Per rendere più radicale il racconto della crisi, in scena c’è il palco non ancora finito, l’urgenza di completarlo, ma anche il disagio che emerge per la perdita del senso, delle persone, della solidarietà. La paura di non farcela più. Sarà una giornalista romana, una sorta di terribile Santanchè, provocandone le reazioni con cinismo, a restituire per contrasto significato al lavoro dei costruttori del palco.

Passione, gratuità, riflessione sulla propria storia, valorizzazione del passato, sostegno della comunità e dell’accoglienza, tornano come ragioni interne ed esterne del teatro. Ragioni ineludibili per questa comunità di resistenza. Il senso c’è ancora, dicono gli attori-cittadini, e viene ritrovato in molteplici connessioni con il passato e il futuro: storie della guerra e del passaggio del fronte ancora vive nella memoria, storie dell’abbandono della comunità e dei poderi, del bisogno simbolico di continuità con gli antenati (è la storia della trasmissione tra generazioni di un oggetto di cultura materiale contadina: l’accettone), ma anche storie dell’oggi: il buco nell’ozono la lotta contro il riscaldamento globale, la figura di Greta bambina, come sono bambini molti dei protagonisti di questa edizione. Queste storie tra passato e futuro si intrecciano e il racconto teatrale decolla limpido nella notte, colpisce il cuore, la parte riflessiva diventa anche narrativa, ed è una comunità più larga che si ritrova davanti, un pubblico amico, molto più largo degli abitanti del paese, che si ritrova qui tutti gli anni, che capisce la lingua del parlato teatrale, un valdorciano ben costruito, e che sente che in questo spettacolo estivo c’è molto di più che l’identità locale.

Nella scena finale un bambino mima un ‘capoccia’ contadino con una battuta in lingua: ‘Quando s’indette vie del pudere…Noaltri’ . Il pubblico la capisce al volo, ride, sente che dentro questa battuta viene vissuta nel presente una lunga difficile eredità. Un passaggio di generazioni. Ci sono tanti ragazzi in scena. In questa battuta gli antenati sono presenti e vivi, tutti insieme nella piazza con gli attori vecchi e giovani. In questo evento-apparizione non c’è solo la comunità monticchiellese, c’è anche quella più larga. Quella fatta da ‘noi’ che in queste sere d’estate ci riconosciamo nel Teatro Povero come in una piccola patria culturale. Noi che sentiamo che questo è un laboratorio anche di politica sociale, di modo di gestione (la cooperativa), di solidarietà e inclusione (anziani, immigrati, malati). Un’isola vitale di mondi possibili. E speriamo che resista tra vita e teatro e che si allarghi a travolgere tedeschi, fascisti, padroni oppressivi ma anche governanti inumani e immagini di futuro tristi basate sull’egoismo. Una ragazza nel finale dello spettacolo mette in cima al pagliaio del passato contadino (delle lotte per la bandiera) il cartello di oggi della lotta per salvare il pianeta. Un rito di passaggio ancora una volta.

Quest’anno a raccogliere i nostri applausi non c’era Andrea Cresti. Il regista che ha vissuto il teatro per un lungo ciclo, da attore e cantore, a ideatore creativo di una formula di messa in scena e di comunicazione di grande efficacia. Andrea ha dato una impronta che si sente e si vedrà ancora. Credo che vedere la nave del Teatro Povero, così legata alla sua vita e alla sua arte di timoniere, prendere il largo in questa estate stellata, sia stata per lui come per noi una emozione, un altro intenso rito di passaggio: «un padre che ama i figli/ può solo vederli andar via» (Rocco Scotellaro).

Dialoghi Mediterranei, n. 39, settembre 2019
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Pietro Clemente, professore ordinario di discipline demoetnoantropologiche in pensione. Ha insegnato Antropologia Culturale presso l’Università di Firenze e in quella di Roma, e prima ancora Storia delle tradizioni popolari a Siena. È presidente onorario della Società Italiana per la Museografia e i Beni DemoEtnoAntropologici (SIMBDEA); membro della redazione di LARES, e della redazione di Antropologia Museale, collabora con la Fondazione Archivio Diaristico Nazionale di Pieve Santo Stefano. Tra le pubblicazioni recenti si segnalano: Antropologi tra museo e patrimonio in I. Maffi, a cura di, Il patrimonio culturale, numero unico di “Antropologia” (2006); L’antropologia del patrimonio culturale in L. Faldini, E. Pili, a cura di, Saperi antropologici, media e società civile nell’Italia contemporanea (2011); Le parole degli altri. Gli antropologi e le storie della vita (2013); Le culture popolari e l’impatto con le regioni, in M. Salvati, L. Sciolla, a cura di, “L’Italia e le sue regioni”, Istituto della Enciclopedia italiana (2014).

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