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L’esperienza della sofferenza tra filosofia e pedagogia
Posted By Comitato di Redazione On 1 luglio 2022 @ 01:51 In Cultura,Letture | No Comments
Anche se – a giudizio di alcuni – la pandemia da Covid-19 è stata amplificata nel racconto pubblico, in ogni caso ha costituito un dato oggettivo nel biennio 2020-2021 (né, al momento in cui scrivo, sembra destinata a tramontare). Essa ha sottolineato anche agli occhi delle fasce benestanti dei Paesi occidentali ciò che in quasi tutto il resto del pianeta è esperienza quotidiana: l’esistenza umana è fragile, esposta a minacce di ogni genere.
La sofferenza è una buona educatrice? Nei mesi più duri lo si è ripetuto, su un registro linguistico oscillante fra la previsione e l’auspicio: “Alla fine, ne usciremo. E migliori”. Ma il trascorrere del tempo conferma l’opinione più cauta di quanti supponevano – e suppongono – che, dove è in gioco l’essere umano, non scatta nessun automatismo. I fallimenti esistenziali, le malattie psichiche, i dolori fisici…tutto è intrinsecamente ambivalente: può migliorarci o peggiorarci a seconda del nostro atteggiamento di fondo (in genere migliora i migliori e peggiora i peggiori).
È possibile individuare alcune condizioni favorevoli a una “pedagogia della sofferenza” , intendendo il genitivo sia come ‘soggettivo’ (la pedagogia esercitata su di noi dalla sofferenza) che come ‘oggettivo’ (o ‘di argomento’: la pedagogia che possiamo attivare, in noi prima che a vantaggio di altri, in rapporto alla sofferenza)? Il filosofo Orlando Franceschelli ci prova nel suo Nel tempo dei mali comuni. Per una pedagogia della sofferenza (con Prefazione di Telmo Pievani, Donzelli, Roma 2021):
Vediamo, più attentamente, di cosa si tratta.
Sopportare tutto, e solo, ciò che va sopportato
«Sopportare la sofferenza per quanto si deve»: già, infatti non tutte le sofferenze sono inevitabili e dunque da sopportare pazientemente. Molti mali vengono a noi mortali da altri mortali più forti fisicamente, più astuti, più spregiudicati, più prepotenti, più spietati, più egoisti: sono i mali che le strutture economiche, le istituzioni giuridiche, i meccanismi politici, le tradizioni culturali…cristallizzano e perpetuano nella storia. Sono quei mali a cui i grandi riformatori – dai profeti biblici a Gandhi, Che Guevara, Martin Luther King, Nelson Mandela, Giovanni Falcone e Paolo Borsellino (per citare quasi a caso e comunque nel limitato orizzonte di un occidentale) – ci hanno insegnato a ribellarci, facendo leva sull’indignazione individuale e soprattutto sulla mobilitazione di più o meno ampi aggregati sociali.
Tuttavia, al netto delle sofferenze che l’uomo-lupo infligge all’altro uomo (specie se agnello), l’esistenza umana rimane marchiata da limiti ontologici insuperabili, di cui il decesso fisico è sintesi e cifra. Lo aveva notato già Agostino d’Ippona: nasciamo e di questo moriamo (anche se, abitualmente, ci diciamo che l’uno è deceduto per un incidente sul lavoro, l’altra per un male inguaribile, l’altro ancora nel corso di una rapina in banca). Eppure, oggi, alcune correnti teorico-tecnologiche sembrano voler negare l’ineluttabilità di questi limiti costitutivi dell’esistenza umana. Franceschelli denomina, complessivamente, “futurismo dei vincitori” queste varie correnti che si presentano sia nella versione «forte del controllo tecnocratico di esseri viventi e ambiente (bio- e geo-ingegneria)» sia nella versione
Ci muoviamo, insomma, sul filo d’acciaio steso su un burrone: da una parte si può cadere nel “dolorismo” di cui non di rado le religioni monoteistiche – influenzate da certe correnti dello Stoicismo [1] – sono state agenzie educative (contribuendo alla passiva e inerte rassegnazione di intere generazioni di fedeli davanti a situazioni di sofferenza che, con blasfema narrazione, attribuivano alla volontà divina stessa); dall’altra si può precipitare nel super-omismo di chi interpreta la nietzschiana volontà di potenza come ineluttabile processo di auto-divinizzazione del mortale (meglio: di alcune minoranze elette [2]) , anche mediante gli strumenti della tecnica, al di là di ogni finitudine biologica e psicologica [3]. È interessante notare come da premesse onto-teologiche così distanti si possa convergere su esiti pratici, etico-operativi molto simili, se non identici: «preferire la sofferenza a ogni sua possibile riduzione» dal momento che «il piacere, il benessere, la felicità come sono intesi dai sostenitori della civilizzazione umana, da Epicuro a Darwin», sono “valori” meritevoli di essere perseguiti non dal santo/saggio/superuomo, bensì dalla gente mediocre inadatta a elevarsi sulle vette della vita intellettuale e spirituale.
Ridurre, per quanto possibile, le sofferenze
È proprio per evitare questo duplice, letale, pericolo che una pedagogia della sofferenza non può esimersi dall’indicare – subito dopo l’invito a sopportare le sofferenze davvero inevitabili, irredimibili – la necessità di impegnarsi a «ridurl[e] per quanto possibile». A tal fine è, innanzitutto, importante la completezza della diagnosi: i mali contro cui dovremmo schierarci non ci assediano in ordine sparso, ma in compagine compatta. In proposito Franceschelli tiene a precisare che
A una diagnosi così impegnativa non può non conseguire una terapia altrettanto complessa. L’autore la incentra sulla «sinergia pensare-fare» così come è ribadita nella tradizione filosofica occidentale da Goethe («Pensare e fare, fare e pensare. Ecco la somma di ogni saggezza») sino a Wittgenstein e Williams: una sinergia che eviti la riduzione del ‘fare’ a «un attivismo incondizionato» e il ‘pensare’ a «una contemplazione di entità soprannaturali più o meno solitaria, apatica, separata dalla vita» [4]. Ovviamente l’intreccio fra teoria e prassi non avrebbe senso se avessero ragione o gli idealisti negatori di una consistenza reale della natura extra-mentale, come Hegel e Croce (perché operare su un “fantasma”?) o i materialisti negatori di una qualche trascendenza del pensiero rispetto alle sue radici biologiche e socio-economiche (e dunque votati a un pragmatismo del “fare senza pensare”) [5], tra i quali ha rischiato, salvandosi solo in extremis, di ascriversi Marx. Rettamente intesa, al di là della depistante opposizione fra “interpretare” e “trasformare” il mondo [6], la “sinergia di pensare e fare” può alimentare “il concreto perseguimento” di quel «rapporto ragionevole e lungimirante tra ambiente naturale e storia della nostra specie» che «costituisce il nostro primo bene comune». Al di là dell’illusione antropocentrica – se non antropoteistica – di poter disporre della «sovrumana storia dell’universo» come si trattasse di una delle «nostre umanissime creazioni storiche», ma anche della tentazione di «rifugiarsi in determinismi (genetico, socio-economico, geo-ambientale) o in fatalismi, spesso invocati nel tentativo di legittimare il proprio non assumersi responsabilità appellandosi a riduzionismi biologici o ad argomentazioni sostanzialmente metafisiche su necessità sovrannaturali».
Accrescere sapere e saggezza
Sopportare i mali inevitabili e impegnarsi a ridurne al minimo l’impatto doloroso, su noi e gli altri viventi, sarebbero frutti pedagogici incompleti, per quanto preziosi, se non integrati da – o forse meglio: radicati in –un accrescimento di sapere e di saggezza. Di questa evoluzione cognitivo-etica fanno parte alcune acquisizioni.
La prima: non si può vivere alla giornata, senza una propria interpretazione della vita, Senza «maturare liberamente e criticamente anche una “propria concezione del mondo” (Gramsci)» grazie, innanzitutto, a un costante «dialogare socraticamente e laicamente con gli altri con-filosofanti». Le trasformazioni storico-sociali sono sì effetto di mobilitazioni collettive, ma tali movimenti macroscopici originano nella «coscienza dell’uomo singolo che conosce, vuole, ammira, crea (Gramsci)».
La seconda acquisizione è una specificazione/esplicitazione della precedente: l’attività filosofica a cui sono chiamati non solo i professionisti della storia della filosofia, ma i cittadini e le cittadine in quanto esseri pensanti, va intesa come indagine critica sui fenomeni illustrati dalle scienze empiriche e finalizzata a «vivere come si deve» (per dirla con Montaigne) o a fare degli “uomini”, non dei “libri” (per dirla con Feuerbach). Dunque una filosofia scevra da complessi di superiorità rispetto alle «scienze naturali e umane, la conoscenza storica, la cultura umanistica nel senso più ampio (arte, teologia, antropologia, diritto, economia)» e immune dalla tentazione del teoreticismo aristocratico (secondo cui si vivrebbe per filosofare, dimenticando che, invece, si filosofa per dare il proprio contributo alla «crescita individuale e civile»).
Si potrebbe aggiungere una terza acquisizione ‘sapienziale’: un simile modo di praticare la filosofia, per quanto concentrato sul presente e aperto alla progettazione del futuro, non si sottrae a
Una filosofia che non ripiega in una sorta di «anti-pedagogia della dimenticanza» pur di evitare il pungolo dell’interazione con «le testimonianze più significative delle sofferenze patite sulla Terra: quelle dei sommersi».
Una quarta lezione che potremmo trarre dalla “sindemia” in corso riguarda l’ampliamento del nostro orizzonte di preoccupazioni: «alle sofferenze che hanno sempre accompagnato la vita e la storia si stanno affiancando ferite ecologiche che ormai coinvolgono l’intero pianeta».
Alla globalizzazione dei mali non si può reagire frammentariamente, secondo la logica tribale, ma convertendosi – gradualmente – a «un cosmopolitismo all’altezza dell’Antropocene» consapevole del fatto che «nessuno si salva da solo»; che «le frontiere che contano ormai sono solo quelle del pianeta», tra i cui cittadini vanno inclusi gli «altri ‘agenti animati’ che vivono sulla Terra». Siamo entrati, infatti, nell’
Possiamo far finta di niente oppure – seguendo il pressante invito già di Jonas – assumerci la “responsabilità” di questa nuova condizione dell’uomo nel cosmo: attrezzarci di un’«etica dell’eco-appartenenza».
Una quinta lezione, infine, potrebbe riguardare più direttamente la consapevolezza dei rischi intrinseci alle nostre attuali risorse scientifico-tecniche:
E la fede biblica?
La pedagogia della sofferenza, proposta da Franceschelli, in quanto «collocata nel binomio mondo-uomo» è «certamente eterogenea e alternativa rispetto a ogni interlocuzione religiosa condotta nel trinomio Dio-uomo-mondo». Questa formulazione potrebbe dare adito ad almeno due interpretazioni.
La prima – che potremmo qualificare ‘polemica’– è esclusa dallo stesso autore:
Una seconda interpretazione – che potremmo chiamare ‘alternativa’ e che mi pare la più fedele all’intentio originaria dell’autore – vedrebbe la pedagogia ‘laica’ (o decisamente ‘a-tea’ almeno nel senso che prescinde totalmente e radicalmente dall’ipotesi di un Dio, trascendente o immanente o trascendente/immanente) come il sentiero prescelto da quanti, davanti al bivio di una «opzione fondamentale» (formula cara alla teologia morale cristiana), scartano il fiducioso abbandono dell’attesa della «redenzione delle sofferenze terrene promessa dal Padre celeste a chi confida in lui».
Capisco benissimo che, leggendo la stragrande maggioranza dei testi cristiani (dalla Bibbia a oggi), questa visione basata su un aut-aut possa essere considerata, da atei e da credenti, come l’unica adottabile. Il messaggio essenziale del vangelo (il “Discorso della montagna”) è stato anestetizzato e sterilizzato sin dai primi decenni dopo la sua proclamazione da parte di Gesù: affamati e assetati, poveri e perseguitati, devono gioire non più per una liberazione (“il regno di Dio”) anche socio-economica, collettiva e soprattutto immediata, ma per una liberazione solo interiore, solo individuale e soprattutto ultra-mondana (post mortem).
Tuttavia, personalmente, propendo per una concezione ancora diversa che potrei denominare, molto approssimativamente, ‘embricante’: sperare nel riscatto-guarigione-compensazione finale delle sofferenze umane e animali, ad opera di Dio stesso (un po’, secondo l’apostolo Paolo, come il parto di una donna riscatta-guarisce-compensa i fastidi della gravidanza e le doglie conclusive), non esclude – anzi, al contrario, implica ed esige – una “pedagogia della sofferenza” quale delineata da Franceschelli. Un’idea appena appena adulta del Divino esclude ogni intervento “dall’alto” a favore dell’umanità: come evidenziato da minoranze pensanti della tradizione cristiana (da Tommaso d’Aquino a Teilhard de Chardin), Dio agisce nell’universo non estrinsecamente, ma conferendo agli esseri ‘creati’ il potere di agire autonomamente.
In fondo, è la saggezza arcaica del detto popolare “Aiutati ché Dio ti aiuta” (dove il “ché” gioca, confusamente o embrionalmente, una funzione polivalente causale e finale: aiutati poiché è questo il modo con cui Dio ti può aiutare e aiutati affinché, mediante il tuo aiuto, Dio ti possa aiutare) [8]. Attendere dalla grazia imprevedibile del Mistero divino una liberazione, attuale o escatologica, dai risvolti dolorosi del processo evolutivo cosmico, senza mobilitare tutte le proprie risorse antropologiche, sarebbe manifestazione di fideismo più che di fede. Di superstizione infantile più che di utopia ragionevole.
Franceschelli scrive: «se collochiamo le nostre vite all’interno del binomio naturalistico mondo-uomo, allora dobbiamo educarci a interagire con le nostre sofferenze senza inserirle in prospettive di redenzioni storiche o escatologiche». Non vedo come si possa contestare questa affermazione quasi tautologica (se non ammetti Dio, neppure come ipotesi, non puoi aspettarti redenzioni che non vengano dall’umanità). Ma la mia attuale convinzione è diversa (se si considera con attenzione, non esattamente contraria): se inseriamo la nostra interazione con le sofferenze in prospettive di redenzioni escatologiche, non possiamo dimenticare che le nostre vite sono – intanto e prima di tutto – inserite nel binomio mondo-uomo. Nessuna speranza religiosa può fiorire fuori dall’humus di una spiritualità antropologia, basica, naturale (di cui, a mio sommesso ma convinto avviso, è parte integrante ogni ragionevole “pedagogia della sofferenza”).
Tutto il ragionamento precedente si è snodato all’interno di un orizzonte fondato sul presupposto che la natura, plasmabile e contraddittoria, dell’animale umano [9] vada educata [10] a rapportarsi, con la mente e con le braccia, in maniera criticamente costruttiva con le sofferenze di ogni genere che da sempre l’assediano. Ma questo presupposto è abbastanza solido o ci sono delle scorciatoie alternative alla via tradizionale della faticosa e incerta azione pedagogica? Il filosofo non può dare nulla per scontato e deve esaminare seriamente le
Ebbene, anche a concedere per comodità dialettica che tale «fabbricazione di esseri viventi (antropopoiesi bio-ingegneristica)» sia praticabile tecnicamente e legittima moralmente, «i creatori di questi algoritmi della saggezza (o dei farmaci finalizzati al bio-enhancement) non dovremmo essere comunque noi esseri umani»? E come saremmo in grado se non già educati nel presente – attraverso un cammino pedagogico ed etico-politico «più complesso e più impegnativo del manipolare direttamente i corpi» (altrui) – alla «graduale ma concreta transizione dall’attuale cosmopolitismo dei mali comuni al cosmopolitismo dei beni comuni»?
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