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Le voci del disagio

immigrati-libia-638x425di Alessio Angelo

Quello che si richiede all’Antropologia Critica è di mostrare attraverso le proprie etnografie il sé e l’altro, di capire i processi di costruzione delle realtà e dei mondi immaginati, di studiare le nuove forme d’integrazione, di penetrare le reti semantiche delle diverse società semplici o complesse, ma anche quello di riportare delle problematiche spesso volutamente nascoste o soltanto ignorate. L’etnografo è chiamato a compiere il suo lavoro che, a detta di Clifford Geertz, è scrivere, ed è inequivocabilmente vero, ma l’atto creativo della scrittura porta con sé irrimediabilmente il pensiero e le esperienze dell’autore. Quindi l’etnografia, come ci suggerisce Leonardo Piasere, è principalmente esperienza e deve essere almeno nel caso dell’antropologia critica indirizzata verso uno scopo, verso una funzione sociale.

Si tratta di denunciare le forme di violenza fisica, simbolica, strutturale; porre l’attenzione sulla sofferenza sociale; far discutere e mantenere acceso il dibattito sui dispositivi di potere e sulla loro pervasività, sulla marginalizzazione, sulle vecchie e nuove forme di schiavitù e di resistenza che oppressi e subalterni esperiscono quotidianamente per sopravvivere. Seguire insomma la “via media militante” di cui scrive Herzfeld, e farlo attraverso la denuncia e la raccolta di testimonianze di sofferenze e violenze subìte, che rischiano di cadere nell’oblio o di soccombere ai processi di rivisitazione storica.

Troppo spesso esperienze di vita vissuta nell’ambito della migrazione clandestina sono esposte ad analisi e interpretazioni statistiche e ne fuoriescono disumanizzate. È necessario allora ascoltare le voci del disagio prima che si dissolvano nell’indifferenza, o meglio nelle responsabilità disattese del nostro essere indifferenti. I corpi muti rivendicano la propria voce, non compassione né pena, solo la propria voce, la possibilità di parlare e raccontare le terre che sono stati costretti a lasciare, il mare che hanno attraversato, ricordando noi le parole di De Martino: “Coloro che, nella loro vita, hanno memorie anguste di comportamenti efficaci e una pesante eredità di scacchi subìti, di momenti critici non oltrepassati, sono presenze fragili, esposti alla crisi radicale”.

Muove da questa breve premessa la decisione di pubblicare qui di seguito la testimonianza di Bilal, uno dei dannati della terra, libico rifugiato in Sicilia durante la primavera araba, imbarcato in clandestinità e sbarcato in terra di uomini e donne che ostentano una secolare tradizione di ospitalità, a volte tradita o perlomeno “selezionata”.

Ho conosciuto Bilal nel dicembre 2011 a Palermo tramite S., siciliano di origine tunisina che lavorava presso un centro per rifugiati politici di Palermo. Il nostro incontro del tutto casuale si è trasformato in un seppur breve lavoro etnografico. Ho incontrato Bilal diverse volte e sempre alla presenza di S., amico comune e mediatore linguistico che ringrazio per avermi offerto questa opportunità. Non vi era nessun interesse o secondo fine, le nostre conversazioni avvenute in diversi momenti, dentro e fuori il centro per rifugiati, erano prive di scopi scientifici di una qualsivoglia specifica ricerca. Persone che s’incontrano e discutono, Bilal ha scoperto solo in un secondo momento quale fosse il mio lavoro e ha acconsentito che la sua testimonianza diventasse pubblica. Adesso, anche se dopo qualche tempo, si è presentata l’occasione per dar voce a un’esperienza vissuta, senza strumentalizzazioni o interpretazioni di sorta se non quella linguistica. Solo il racconto spontaneo avvenuto il 10 dicembre 2011, la prima sera che ci incontrammo, nel porto di Palermo e che ho trascritto con amarezza la stessa notte.

Il suo racconto ha inizio alla vista delle barche:

«Sono venuto in nave, come tanti, circa sei mesi fa, in piena guerra. Vengo da Misurata, ho 32 anni, non sono sposato e non ho figli. La mia famiglia è rimasta in Libia, se avessero potuto sarebbero fuggiti anche loro, fuggivamo tutti dalle atrocità della guerra. Sono riuscito a imbarcarmi tramite alcune conoscenze, tramite uno dei figli di Gheddafi, ma sono stato furbo, ho nascosto i miei documenti, fingendomi egiziano, affiancandomi a un altro uomo e facendo parlare sempre lui sono riuscito a salire sulla nave. I viaggi erano organizzati da Gheddafi tramite alcune organizzazioni algerine ed egiziane. La gente del Mali e dell’Africa sub-sahariana poteva salire liberamente sulle navi senza pagare ed era trasportata in massa verso le coste italiane. Lo scopo era arrecare problemi al governo italiano che si era schierato, in qualche modo, contro Gheddafi. A volte erano minacciati con fucili e quasi deportati. Il viaggio è durato quattro giorni, un viaggio infernale: provi tutte le morti, vedi tutte le morti. Senza cibo e senza acqua, in mare per quattro giorni. Le mie labbra erano prosciugate e le mie mani secche a tal punto che pensavo di morire. Siamo arrivati quasi tutti, alcuni non sono sopravvissuti, molti sono impazziti per la condizione in cui trascorrevamo quei giorni, altri si sono lasciati andare in mare, si sono suicidati. Ho attraversato il mare con 900 persone su un peschereccio. C’erano talmente tante persone e così poco spazio che alcuni erano costretti a sedersi sul timone, cambiando e modificando la rotta, è così che abbiamo cominciato a vagare per il mare. Ero insieme con altri libici che avevo conosciuto in viaggio, ma di loro non so più nulla. Sono a Palermo da qualche mese e sono pochi i libici che ho incontrato, qualche studente che viveva a Palermo da prima della guerra.

[Si ferma, respira e poi di nuovo]:

Ho visto tutti i tipi di morte, Gheddafi si è preso tutto, si è preso la nostra gioventù.

Quando c’era Gheddafi non c’era nessuna libertà: prendetevi il petrolio, i soldi, prendetevi tutto quello che volete ma dateci un po’ di libertà. La libertà va conquistata con il sangue. Non avevamo nessuna legge scritta e le truppe di Gheddafi facevano quello che volevano, senza nessuna legge. Lavoravo, gli affari andavano bene… ho lasciato tutto… Gheddafi si è preso tutto. Ero spaventato e impressionato dal tipo di armi che usava, le cluster bomb, bombe che esplodevano lanciando più di quaranta schegge. Le spargeva prima del suo arrivo in città, dove andava a tenere i suoi comizi durante il periodo della rivolta. Dopo che aveva ucciso e ferito centinaia o migliaia di persone, iniziava il suo comizio per la gente che era rimasta in vita. Ero terrorizzato, eravamo terrorizzati, volevamo scappare. All’inizio non c’erano armi ma si cercava di attentare ai militari, ai soldati e dopo averli attaccati e uccisi gli si rubavano le armi. Sparavano sulle popolazioni con armi che normalmente si utilizzano per abbattere gli aerei. Mio nipote, il figlio di mio sorella, è stato ferito da un missile del genere e adesso si trova a Roma in cura in un ospedale, ha perso tre dita della mano destra e ha ferite in tutto il corpo. Alcuni miei familiari sono scappati da Misurata e dopo mesi non so ancora nulla, ma i miei genitori e i miei fratelli stanno bene. La guerra ha distrutto le nostre vite.

[Piange]

In un palazzo della mia Città (Misurata), durante la guerra ho visto una bambina, pensavo che dormisse, una bellissima bambina che poteva avere sette anni. Volevo svegliarla e appena l’ho girata aveva un colpo nella testa [piange], era morta ed era una bellissima bambina. Odio i Kalashnikov, sono le armi peggiori del mondo, hanno ucciso, nel mio Paese, milioni di persone. Gheddafi aveva arruolato mercenari da diverse parti del mondo, dal Suriname, dalla Serbia, dal Mali, ed era gente che sparava su tutto, su ogni cosa si muoveva, il coprifuoco era continuo. Gheddafi si è preso ogni cosa. Quando c’era lui, nessuno si poteva permettere di esprimere la propria opinione, era come Mussolini, Hitler, Saddam e Bin Laden, era un dittatore. Quando è scoppiata la rivolta metteva paura alla gente dicendo che avrebbe stanato tutti i rivoltosi, strada per strada, vicolo per vicolo, angolo per angolo. Quando i ragazzi di Gheddafi ti fermavano, ti chiedevano se eri con loro o contro di loro. Se eri contro di loro venivi fucilato all’istante, se dicevi di essere con loro ti mandavano verso i ribelli, come scudo, così mentre loro non sparavano contro i civili, i ragazzi di Gheddafi aprivano il fuoco. I momenti della preghiera non venivano rispettati, mentre i ribelli pregavano, i soldati sparavano. Le moschee sono state distrutte per prima cosa, offendendo così i più religiosi, i minareti abbattuti per togliere persino la speranza alla povera gente. Io non volevo venire in Italia, volevo raggiungere la Tunisia dove sapevo che si erano attrezzati alcuni accampamenti. Nella confusione di quei giorni mi sono ritrovato a prendere questa decisione di partire. Adesso ho solo intenzione di studiare seriamente, di imparare l’italiano e tornare in Libia. Ho paura che passerà tanto tempo. E in questi mesi mi hanno spostato da un Centro a un altro…».

Dialoghi Mediterranei, n.2, giugno 2013
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Una risposta a Le voci del disagio

  1. GiovanBattista Certa scrive:

    Ciao Ale,

    Davvero un bel lavoro, con una scrittura lineare che riesce in maniera sensibile ed utile a dare accesso in un qualcosa che i potenti mass media spesso hanno messo in ombra e continuano a farlo. Grazie

    Gianni Certa

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