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Le spiagge dal Chiatamone a Posillipo: dalla pesca al loisir

Chiaia. pescatori, Attilio Pratella, fine Ottocento (collezione privata)

Chiaia. Pescatori, Attilio Pratella, fine Ottocento (collezione privata)

di Maria Sirago 

I pescatori e pescivendoli della marina di Chiaia e Mergellina

Il borgo di Chiaia, detto da Giuseppe Sigismondo di San Leonardo, la Plaja spagnola, fuori dal perimetro urbano, si estendeva dal Chiatamone alla collina di Posillipo e comprendeva le spiagge di Chiaia, Mergellina e Posillipo (Gravagnuolo, 1990).

Nel borgo tra il Cinquecento ed il Seicento si era formato un antico villaggio di pescatori, sito vicino alla spiaggia definita da Giuseppe Maria Galanti nel 1792 “la più deliziosa di Napoli” (Galanti, 2000: 139); i pescatori abitavano nell’odierna Riviera di Chiaia, cui si accedeva dalla Porta di Chiaia, costruita in prossimità dell’attuale via Filangieri. Lungo la spiaggia vi era un isolotto dove nel 1028 il nobile castigliano Leonardo d’Orio, scampato a un naufragio, aveva costruito la chiesa dedicata a San Leonardo “in insula maris”, patrono dei naufraghi, prigionieri, carcerati, fabbri e delle partorienti, affidata prima ai monaci basiliani poi alle suore domenicane dei Santi Pietro e Sebastiano che avendo giurisdizione sulla spiaggia riedificarono la chiesa.

Qui si formò un piccolo borgo separato dal litorale con una spiaggia, un ormeggio per i pescatori e qualche abitazione popolare. A fine Cinquecento fu costruito un monastero che le suore affidarono ai frati domenicani e fu aperta la taverna di Florio. Nel 1648 il convento divenne rifugio dei ribelli napoletani. Tra Seicento e Settecento le stanze del convento vennero occupate da soldati, contrabbandieri e malviventi per cui ai primi dell’Ottocento era in rovina.

 Monastero di San Leonardo, pianta Baratta, 1670, particolare

Monastero di San Leonardo, pianta Baratta, 1670, particolare

Fu dunque abbattuto per ampliare la Villa Reale, edificata a fine Settecento da Carlo Vanvitelli (oggi Villa Comunale) e fu creato un belvedere o “Loggetta a Mare”, intitolata nel 1936 al generale Armando Diaz (oggi rotonda Diaz, Alisio, 1993). All’isolotto si accedeva da un arco sormontato da una croce e si percorreva una lunga banchina costruita sul mare, usata dai pescatori di Chiaia, che il giorno del Santo organizzavano una splendida festa (Sigismondo, 1789, III: 86; Langella, 2013).

La Loggetta, inizi Ottocento (oggi Rotonda Diaz)

La Loggetta, inizi Ottocento (oggi Rotonda Diaz)

Fin dalla fine del Cinquecento in numerose parrocchie lungo la costa erano stati fondati dei Monti, sul tipo delle Confraternite, di “padroni di barca, marinai e pescatori” e di pescivendoli: erano particolari associazioni lavorative di tipo religioso create per costituire un fondo da utilizzare in caso di malattia o morte o di maritaggio per le figlie nubili o anche per il riscatto in caso di cattura da parte dei turchi. I lavoratori iscritti si obbligavano a versare un quarto del guadagno ottenuto dalla loro attività per tutelare questo pericoloso mestiere. A Chiaia all’altezza dell’odierna via San Pasquale, era stata costruita una “pietra del pesce” dove era stata fondata una confraternita di pescivendoli. Anche nella chiesa di Santa Maria in Portico, edificata nel 1632, era stata fondata una confraternita dei “pescatori, capiparanze (pescivendoli) e capiari”.

Fig. 4 Santa Maria in Portico

Santa Maria in Portico

Verso la zona della Torretta, detta così per una torre di guardia costruita nel 1564 in difesa dagli attacchi turchi, nel 1571 i pescatori avevano costruito la chiesa di Santa Maria delle Neve in San Giuseppe (Sigismondo, 1789, III: 89). Anche qui era stata fondata una confraternita di pescatori (Sirago, 2022d) e a metà Seicento fu aperta una scuola di prima alfabetizzazione, trasformata nel 1770 nel collegio per pilotini di San Giuseppe a Chiaia (Sirago, 2022c). 

In epoca spagnola le donne dei pescatori solevano offrire ceste di pesci alle dame e cavalieri che venivano a passeggio nella bella stagione per partecipare alle feste dette “Posillicheate” o spassi di Posillipo (Sirago, 2022a e 2022b). Inoltre, lungo la spiaggia erano stati costruiti dei lavatori pubblici usati dalle donne del borgo che stendevano i panni lungo la spiaggia.

Chiaia, S. Maria della Neve

Chiaia, S. Maria della Neve

Anche l’antica spiaggia di Mergellina era abitata da una nutrita comunità di pescatori. Ai primi del Cinquecento il poeta Jacopo Sannazaro dalla sua villa poteva ammirare lo splendido panorama, traendo dagli abitanti del luogo la materia per le sue Ecloghe Piscatorie in cui aveva sostituito i pastori con i pescatori (Sannazaro,1995). Poi nel corso degli anni la spiaggia venne usata dai viceré per allestire spettacoli marini in cui si recitavano “egloghe piscatorie”, sia quelle composte dal Sannazaro, sia quelle di poeti che ne seguirono l’esempio: Bernardo Tasso, Bernardino Rota, Giulio Cesare Capaccio, ecc. E i visitatori stranieri solevano recarsi quasi a mo’ di pellegrinaggio alla chiesa di Santa Maria del Parto, fatta costruire dal Sannazaro per la sua sepoltura, gestita dai padri serviti (Sirago, 2007).

Fig. 6 Mergellina, Chiesa di Santa Maria del Parto

Mergellina, Chiesa di Santa Maria del Parto

Il poeta nelle Ecloghe menzionava una serie variegata di prodotti ittici, cozze ed ostriche a Castel dell’Ovo, ostriche a Mergellina e Miseno, ricci a Mergellina e Nisida, pescati nel bellissimo Golfo di Napoli, una città che gli appariva come un incantato giardino in riva al mare, dove i marinai si dissetavano alle fonti e i contadini alternavano le reti all’aratro. La stessa tematica è presente nella canzone O guarracino, una tarantella anonima scritta probabilmente a metà Settecento, in cui si descriveva il matrimonio tra un guarracino (pesce castagnola) e una sardella (sardina) a cui assistevano tutti gli altri pesci del golfo, una canzone popolare che descriveva il poliedrico mondo ittico napoletano (Groeben, Gambi, 1992). Naturalmente quella del Sannazaro era una visione idilliaca, poco realistica, visto che il mestiere del pescatore era il più duro in assoluto. 

L’erudito Jean Jaques Bouchard, forse una spia francese, che aveva dimorato a Napoli  nel 1632 per circa otto mesi (Sirago, 2017) descriveva i miserabili pescatori che si immergevano nel mare di Chiaia in cerca di cannolicchi per cinque o sei ore e poi stremati dal freddo, “la chair toute retirée, mollifiée” (con la pelle tutta raggrinzita e flaccida), si gettavano sulla sabbia bollente quasi seppellendosi, simili agli “indiéns, qu’on nous peint dans les chartes du nuveau monde”, come indiani selvaggi  fieri del loro mestiere di pescatori tanto da rifiutare qualsiasi altro lavoro,. (Bouchard, 1976, II: 413), primi “sommozzatori” ante litteram (un termine di derivazione napoletana).

Fig. 7 Pescatori di Mergellina, anonimo, gouache, fine Settecento

Pescatori di Mergellina, anonimo, gouache, fine Settecento

I pescatori di Chiaia e Mergellina, i più poveri, erano addetti soprattutto alla raccolta dei frutti di mare, vongole, ostriche, cannolicchi, angine (ricci), patelle, scongigli, sia con i rastrelli che in apnea, sommozzando. Nel 1576 i gongolari o vongolari del Quartiere Porto avevano creato una Confraternita sita nella chiesa di Santa Caterina che controllava la pesca dei molluschi lungo tutto il litorale, da San Giovanni a Teduccio a Posillipo. Nel nuovo statuto del 1661 era stata richiesta una regolamentazione della pesca dei cannolicchi, praticata dai pescatori di Chiaia con i “manganelli” o rastrelli che distruggevano la fetazione, per quanto proibita. Il contenzioso in merito all’uso dei rastrelli e alla difesa del territorio si protrasse fino ai primi dell’Ottocento. Quando furono abolite le corporazioni, nel 1825, i vongolari chiesero che nelle nuove leggi si stabilisse che la pesca doveva essere effettuata secondo gli antichi sistemi previsti dagli statuti, una pesca controllata dai dodici “guardiamari” preposti.

Così l’ingegnere Carlo Afan de Rivera, direttore generale del “Corpo di Ponti e Strade, Acque, Foreste e Caccia del Regno delle Due Sicilie”, propose di riportare in vigore le regole dello statuto di Santa Caterina, che prevedeva una turnazione nella pesca. Ma la questione insieme a quella dei pescatori che esercitavano il mestiere con gli antichi sistemi, fu risolta definitivamente solo quando fu emanato il regolamento per la pesca, il 7 agosto 1847, in cui veniva anche regolamentata la “pesca speciale” con i paranzelli, due barche affiancate con reti a strascico, proibita in alcuni mesi dell’anno per non distruggere la fetazione (Sirago, 2014, 2018 e 2022d).

I pescatori di Chiaia, Mergellina e Posillipo praticavano anche una pesca di sussistenza con vari sistemi: gli sciabicari usavano le reti “sciabiche”, tirate da terra, i palanghesari (i più poveri) usavano il palangrese per pescare il merluzzo e il pesce bandiera; i cannucciari pescavano, col volantino (bolentino) o cannuccia a cui era attaccato un amo piccolissimo, spigole, vope, aringhe, ecc.; i cotiatori o lanzaturi catturavano il polipo di scoglio con il lanzaturo o fiocina o col ferretto (rampone)  soprattutto presso il Castel dell’Ovo con le fiaccole (poi lampare), torce alimentate col carbone di un braciere posto a poppa sulla barca per pescare di notte; i nassaioli, pescavano crostacei con le nasse di giunchi,  soprattutto  a Capo Posillipo (Sirago, 2018). I pescatori più poveri in assoluto erano quelli con “cannuccia e lenza”, gli unici che non pagavano gabelle. Ma dalla metà del Seicento anche questi pescatori tentarono di utilizzare strumenti più adatti, il che provocò un lungo contenzioso, non ancora risolto dopo un secolo. Difatti i pescatori con tale sistema potevano pescare solo da terra o dagli scogli per   prendere solo “pesci minuti”; se invece prendevano del pesce più grande, con l’aiuto del “coppo o de’ filacciuni” dovevano pagare le dovute gabelle. L’esenzione per i pesci piccoli era stata concessa per alleviare il miserabile stato dei poveri pescatori; ma, dato il loro aumento in pochi anni, il controllo si era fatto più severo, anche perché essi pescavano un tipo di pesce non consentito con sistemi più elaborati, frodando il fisco, che aveva fatto ricorso contro molti di loro (Sirago 2013 e 2018).

Questi pescatori erano molto amati da re Ferdinando che aveva appreso da loro le tecniche di pesca usate nel “sito reale di pesca” di Posillipo, un lungo tratto di costa che si estendeva dal molo beverello, presso la darsena, fino al capo di Posillipo, possesso feudale delle monache di San Sebastiano, acquistato dal re per 300 ducati annui. Il re aveva un casino per la pesca a Mergellina nell’odierno palazzo della funicolare dove conservava gli attrezzi da pesca e le reti per il calo della tonnara a Posillipo ed era coadiuvato dai pescatori del luogo e da un gruppo di liparoti (provetti pescatori provenienti dall’isola di Lipari) per i quali aveva costruito un villaggio a Portici, presso la reggia (Sirago, 2023a).

51lbufegvql-_ac_uf10001000_ql80_Data la problematica situazione dei pescatori e dei marinai, che vivevano ai limiti della sussistenza, dalla seconda metà del Settecento si cominciò a discutere della loro poca perizia e si sentì la necessità di porvi rimedio. In quel periodo l’economista Antonio Genovesi aveva formulato l’ipotesi della creazione di “scuole pubbliche e gratuite per il lavoro” in modo da garantire una istruzione per tutte le categorie lavorative. Perciò, sulla scorta delle teorie genovesiane in merito all’istruzione pubblica, nel 1770 fu fondata una scuola “tecnica” in cui pescatori e marinai potevano imparare il mestiere, insegnamento fino ad allora tramandato di padre in figlio, il Collegio per gli orfani di marinai di San Giuseppe a Chiaia, una zona in cui vivevano molti pescatori. Nel regolamento istitutivo del 1770, oltre all’insegnamento delle arti nautiche e del “pilotaggio”, fu previsto anche quello di «pescare, notare e far le reti, le sarzie [sartie o cordami]».

I ministri, in prima istanza Bernardo Tanucci, si rendevano infatti conto della necessità di formare non solo un ceto marinaro abile a navigare in mari lontani e pericolosi come il Mar Nero ma anche un ceto di pescatori che imparasse la tecnica in modo da poter esercitare meglio il mestiere. Erano state costruite  una barca detta “costarella” e una barca «sciabica nova  … per far andare a pescare li 29 convittori» ed erano state acquistate, alcune reti; inoltre si pagava un salario ad un marinaio che doveva «istruire li figlioli a notare pescare e far le reti»; infine erano state acquistate una “rezza grande” ed una piccola, la tintura per tingere gli “spedoni” della “sciabica” (tinta necessaria per rendere le reti scure in modo da nascondersi tra i fondali), i cappelli di paglia per i convittori ed i !collari .. per tirare la sciabica” a riva.

In pochi anni l’attività divenne produttiva, tanto che nel 1771 rese 566,35 ducati Ma i guardiani della gabella del pesce commettevano abusi, sequestrando il pescato dei convittori, per cui si doveva richiedere l’intervento dello Stato. La scuola comunque permise di istruire non solo numerosi pilotini ma anche molti pescatori: questi, infatti, raggiunta la maggiore età, uscivano dal collegio con una gratifica di 50 ducati «da impegnarsi in compra di tanti ordegni da Pesca» o per esercitare l’arte di lavorare le reti (Sirago, 2022c).

All’arrivo dei francesi, nel 1806, la situazione mutò radicalmente in seguito alla promulgazione della legge eversiva della feudalità, che aboliva l’esazione di ogni diritto. In realtà i problemi rimasero perché l’isola di Capri era stata occupata dagli inglesi per cui si sviluppò un fiorente contrabbando, specie tra la costa sorrentina e l’isola, tanto che fu vietata la pesca notturna (Sirago, 2004). Inoltre, questa situazione fu aggravata dal “Blocco Continentale”, emanato da Napoleone Bonaparte il 21 novembre 1806 a Berlino, con cui era vietato l’attracco in qualsiasi porto dei Paesi soggetti al dominio francese alle navi battenti bandiera inglese. Ma dopo la “presa” dell’isola dalle truppe di Murat, nell’ottobre del 1808 il settore della pesca mostrò una netta ripresa.

Difatti nel 1807 a Napoli si contavano 362 pescatori, 2194 marinai e 405 pescivendoli su circa 300.000 abitanti; e nel 1811, secondo i dati della “Statistica murattiana”, nella Capitale si contavano 1459 pescatori e 6552 marinai su 309.633 abitanti, cioè il 6,99% della popolazione, un nutrito numero rispetto ai secoli precedenti. Dopo la Restaurazione, nel 1816, fu emanata una normativa per favorire la ricostruzione della flotta mercantile e da pesca, in gran parte distrutta durante il periodo bellico.  In pochi anni si ebbe un notevole incremento, specie delle imbarcazioni da pesca, adibite talvolta anche al piccolo cabotaggio. Difatti nel 1838 nella Capitale si contavano 1502 imbarcazioni di cui 1212 da pesca, quasi tutte di piccolo tonnellaggio, tranne i 214 paranzelli, dediti alla “grande pesca”. Ed anche la popolazione dedita alle attività marinare era aumentata: nel 1845 su 359.126 abitanti si contavano infatti 1129 pescatori, 2926 marinai, 437 pescivendoli, a cui si dovevano aggiungere 383 “barcaioli”. Allo stesso tempo, mentre si continuava ad esercitare una pesca costiera, si sviluppava anche una pesca più specializzata, sia con le tonnare, sia con le paranze o “gaetane”, a strascico. Ma, malgrado si fosse cercato di riorganizzare il settore della pesca, vi erano continue controversie per cui il governo il 7 agosto 1847 emanò un decreto per dare un definitivo assetto normativo (Sirago, 2004 e 2014).

Dopo l’Unità la popolazione napoletana era ulteriormente aumentata. Si contavano infatti 417.463 abitanti, di cui 3815 marinai “barcaiuoli pescaiuoli ostricari”, 36 “cannucciari”, 1230 marinai della marina mercantile e 1318 di quella militare, 238 “pesciaiuoli” e 11 “pesciaiuole”, 8 “negozianti di baccalari”. Comunque, lungo le spiagge di Napoli si continuava a pescare in modo tradizionale visto che il golfo partenopeo era ancora molto pescoso. Negli anni ‘70 nel  distretto di Napoli, che comprendeva il circondario di Procida, con le isole di Procida e Ischia, il territorio da Pozzuoli a Mondragone, in cui era compreso l’isolotto di Nisida, quello da Pozzuoli a San Giovanni a Teduccio, e quello da San Giovanni a Teduccio a Torre del Greco si contavano circa 4000 barche da pesca, di cui 1000 nella sola Napoli, divise in tre categorie, “barche paranze”, più grandi (circa 30) dei pescatori di Resina e Torre del Greco, barche di media stazza e gozzi più piccoli; inoltre nel golfo ci contavano circa 100 “palangresare”. Quanto agli addetti si contavano circa 10.000 pescatori in tutto il distretto, di cui 2200 nella Capitaneria di Napoli. Ma spesso essi erano iscritti come marinai e, come per il passato, esercitavano il mestiere solo in alcune stagioni dell’anno. Si continuavano comunque ad usare le reti tradizionali. Anche se la pesca era abbondante, non era bastevole per i numerosi napoletani; perciò, molto pescato arrivava dai porti pescherecci di Gaeta e Pozzuoli.

Fig. 8 Chiaia, Pescatori con la sciabica, 189

Fig. 8 Chiaia, Pescatori con la sciabica, 1899

Nel 1864 Giustino Salvatore propose di impiantare un vivaio per l’allevamento di pesci a Posillipo, tra la Gaiola e Trentaremi, idea ripresa nel 1870 dalla “Società De Negri & C., che stilò uno statuto con tutte le clausole per tale impianto. Ma il tentativo fallì a causa delle proteste dei pescatori napoletani e puteolani che vedevano limitata la loro possibilità di pescare con profitto. Dalla fine dell’800, con la messa in atto della legge del Risanamento e l’ampliamento del porto di Napoli, usato dagli emigranti in partenza per l’America, pian piano sparirono le spiagge e con esse anche i pescatori, che non poterono più esercitare i loro antichi mestieri (Sirago, 2014 e 2018).

La zona tra Chiaia e Posillipo, preferita dagli artisti della “Scuola di Posillipo” per il suo panorama, ancora a metà Ottocento era descritta come una «contrada … abitata da barcaioli»; e sulla spiaggia si vedevano «le reti e in acqua i piccoli legni destinati alla pesca». Ma anch’essa pian piano fu riqualificata a scapito dei pescatori, che dovettero allontanarsi per pescare altrove, anche perché il porticciolo in cui erano ormeggiate le barche da pesca era stato tramutato in approdo per le barche da diporto e il territorio era stato modificato in seguito alla costruzione della strada di Posillipo, iniziata nel 1812 (Sirago, 2004).

La vendita del pescato

La vendita del pescato nella Capitale era regolata da rigide norme: i parsonali o capi paranza, incettatori di pesce sul mercato, quasi sempre di Santa Lucia, dove avevano fondato un “Monte”, davano il denaro per l’acquisto della barca e degli attrezzi ai padroni di barche, gozzi o feluche, tipiche imbarcazioni tirreniche (Sirago, 2024), detti anche fellucari. Questi dividevano il prodotto della pesca in 12 parti, la metà per loro e il resto diviso tra l’equipaggio, consegnando tutto il pescato ai parsonali in un luogo stabilito. Inoltre, i capiparanza esigevano altri diritti, tra cui uno per la mediazione tra i padroni e i pescivendoli che andavano in giro a vendere per le vie, venditori ambulanti, detti bazzarioti.

51x1z6224yl-_ac_uf10001000_ql80_Il pescato veniva poi portato nei luoghi deputati per la vendita, le pietre del pesce site nella Loggia dei Genovesi, nella zona degli orefici, al Mandracchio, o porto mercantile, a Santa Lucia ed a Chiaia, dove i parsonali trattenevano la parte migliore per venderla in loco, cedendo il residuo ai bazzarioti, venditori ambulanti di scarti. Questo sistema generava un’enorme miseria tra i pescatori; perciò, a fine Settecento fu proposto di abolire l’assisa e dare precise norme sulla libertà del commercio del pesce. Per la vendita del pescato i cittadini dovevano pagare dei diritti ai possessori della gabella del pesce, detta “del reale”: questa gabella, posseduta dalla città di Napoli, nel 1495 fu venduta per 330 ducati, a cui se ne aggiunsero altri 400 l’anno seguente. Nel 1538 la gabella fu acquistata da Alfonso Caracciolo duca di Brienza per 20.000 ducati; e ai primi del Settecento era ancora in possesso di alcune famiglie nobili con una rendita annua di 11.000 ducati. In quel tempo, dati gli abusi commessi, fu fatta istanza di esigere quanto stabilito, un cavallo per ogni grano di pesce venduto, solo dal pesce pescato nel distretto di trenta miglia di mare interno alla città.

Nel 1486, in epoca aragonese, il sovrano aveva fissato l’“assisa” cioè una fissazione arbitraria del prezzo del pescato e l’attribuzione dei permessi di vendita (matricole) da parte del Tribunale di San Lorenzo. Le “assise” di solito erano determinate nel periodo di Quaresima, quando si richiedeva maggiore quantità di pescato, per ottemperare agli obblighi religiosi. Ma i ruoli erano categoricamente divisi: i pescatori non potevano vendere il pescato direttamente; perciò, si era creata una rigida separazione tra i pescatori e i venditori che costituivano una corporazione a se stante rispetto a quella dei pescatori e marinai. Il mercato era così gestito da un ristretto numero di mercanti, i pochi “capiparanza” o “parsionali” che potevano impiegare il loro capitale per acquistare le “matricole”; ed essi a loro volta potevano rivendere il pescato in piccoli lotti ai “bazzarioti”. Ma la vendita doveva essere effettuata solo nelle “pietre del pesce” (mercati) cittadine.

Questo rigido sistema rendeva i pescatori, già angariati dalle limitazioni di tipo feudale esistenti nel golfo, sempre più poveri. Perciò i riformisti della seconda metà del Settecento cominciarono a discutere su questo sistema che impoveriva una classe di lavoratori, quella dei pescatori, già di per sé la più povera, soggetta com’era alle variazioni climatiche che ne impedivano un lavoro stabile. Così, per riorganizzare il sistema di vendita del pescato sulla scorta delle dottrine liberistiche del tempo, il 25 ottobre 1788 il Tribunale di San Lorenzo abolì l’“assisa” del pesce concedendone la “libertà del commercio” a tutti indistintamente. Ma tutti i parsonali o capiparanza, che vivevano dello sfruttamento dei poveri pescatori, opposero una fiera resistenza; la questione fu rimessa al Tribunale dell’Ammiragliato e consolato di Mare, dove il giurista Francesco Maria Pagano, “avvocato dei poveri”, intervenne in difesa dei pescatori, descrivendone diffusamente le tristi condizioni nel suo “Ragionamento” sulla libertà del commercio del pesce, definendoli “agricoltori del mare …[quasi] ascritti alla gleba”. Solo con la promulgazione della legge eversiva della feudalità e la relativa abolizione degli antichi privilegi feudali l’attività peschereccia ebbe un certo incremento, testimoniato dall’aumento dei marinai e pescatori registrato nella Statistica Murattiana del 1811. Ma per tutto il corso dell’800 molti degli antichi conflitti rimasero irrisolti (Sirago, 2014 e 2018). 

Fig. 9 Chiaia, pescivendoli

Chiaia, pescivendoli

Il Carnevale dei pescivendoli 

Durante il Carnevale nelle quattro pietre del pesce della Loggia, del Porto, di Santa Lucia e di Chiaia l’Eletto del Popolo insieme con i capiparanza organizzava i festeggiamenti ed allestiva delle cuccagne con i migliori prodotti ittici. In occasione della festa erano distribuiti alla popolazione dei “cartelli di quadriglia”, fogli volanti, attualmente conservati presso la Società di Storia Patria di Napoli o presso la Biblioteca Nazionale di Napoli. Su questi fogli erano stampati componimenti letterari che appartenevano al genere dei canti carnevaleschi (sul modello di quelli di Lorenzo il Magnifico “Quant’è bella giovinezza…, diffusi in Toscana), di cui vi sono testimonianze dalla metà del Seicento. Questi fogli si diffusero enormemente nel corso del Settecento, quando il Carnevale era organizzato dai più importanti mercanti impegnati nel rifornimento alimentare, come i fornai, i macellai, i “cedrangolari” (venditori di agrumi).

I canti erano composti da poeti di mestiere, con un certo grado di istruzione, mostrata con dotte citazioni, probabilmente notai. Il titolo del componimento riportava la categoria del mestiere e il testo si concludeva con una lode ai sovrani, che permettevano lo svolgimento della festa. Di solito i pescivendoli, vestiti “alla turchesca”, ballavano la “moresca” o la “tarantella”. A titolo di esempio nella “Quatriglia de li piesciavienole de Chiaia” del 1767, si decantava la 

«Marina … a cchiù bella e grande …longa, laria (larga), fresca e spaziosa, o da terra o da mare ampia, e vistosa … Addò cò niente magne, vive (bevi) e sciale (ti diverti) … (ricca) di petaffie, statoe, e fontane” con giardini simili a quelli di Armida nella Gerusalemme Liberata di Torquato Tasso (ancora presente nell’immaginario collettivo napoletano): qui si mangiava ad ogni ora del giorno ogni tipo di pesce saporito, alici, gamberetti, calamaretti, aguglie, pescati da “chi fa l’arte de lo pescatore» (Colella, 2019/2020). 
Fig. 10 Carnevale dei pescivendoli, Diego Fabris, 1772

Carnevale dei pescivendoli, Diego Fabris, 1772

I villaggi di Posillipo 

La collina di Posillipo (nome greco, “pausa dagli affanni”) era abitata da pescatori, rinomati sommozzatori come quelli di Chiaia, e contadini, che praticavano soprattutto la viticoltura ed avevano splendidi frutteti. Vi erano alcuni casali, o villaggi, quello di Santo Strato con la chiesa omonima, detta di Santo Strato, abitata da una colonia greca che nel 1266 aveva costruito una cappella, poi trasformata in chiesa, ingrandita nel 1572 dall’abate di San Giovanni Maggiore Leonardo Basso; il villaggio di Marechiaro con la cappella di Santa Maria del Faro, edificata su ruderi romani, dipendente fino ai primi dell’800 dalla diocesi di Pozzuoli, e il più recente, di Villanova, con la parrocchia di Santa Maria della Consolazione, costruita nel 1737, tutte collegate col mare da numerosi sentieri,  individuabili nella pianta del duca di Noja del 1775. Sul Capo, alla Gaiola vi erano dei resti romani, ancora esistenti, definiti “Scuola di Virgilio” (Sigismondo, 1789, III: 99).

Nel 1643 il duca di Medina de las Torres Ramiro Felipe Nuňez de Guzmán aveva ampliato e sistemato le “Rampe di Sant’Antonio” per collegare il convento di Sant’Antonio, fondato l’anno precedente (dove il 13 giugno si celebrava una festa popolare), con Mergellina (odierna piazza Sannazaro) e i villaggi posti alla sommità. Nello stesso periodo aveva fatto costruire per la moglie Anna Carafa un “casino di delizie”, il “palazzo donn’Anna” sul terreno in cui era stata edificata la villa Sirena che aveva ospitato qualche anno prima Maria d’Aragona, sorella di Filippo IV, regina d’Ungheria, la quale aveva sostato a Napoli prima di raggiungere il marito. Il palazzo è rimasto però incompiuto per la morte di Anna e il ritorno del marito in Spagna (Visone, 2017). Ma da quel momento molti aristocratici cominciarono a costruire i primi “casini di delizia” come quello (villa Emma) preso in affitto a metà Settecento dall’ambasciatore Hamilton, che amava nuotare nelle acque cristalline imitando gli abili sommozzatori posillipini che gli avevano insegnato a compiere spericolate evoluzioni natatorie (Sirago, 2023b).

Fig. 11 Palazzo donn’Anna, cartolina d’epoca fine Ottocento

Palazzo donn’Anna, cartolina d’epoca fine Ottocento

Nel corso del Settecento molti pescatori di Posillipo, come avevano fatto i puteolani, con le imbarcazioni da pesca utilizzavano le loro barche e gozzi per trasportare i forestieri fino alla spiaggia della Gaiola e far ammirare lo splendido paesaggio e i resti archeologici di cui è disseminata tutta la costa rocciosa (Dalbono, 1857).

Poi nel 1812 iniziò la costruzione della strada, terminata nel 1823, per cui si ebbe un mutamento del territorio: venne stravolto il borgo sorto presso palazzo Donn’Anna e cancellato un buon tratto della spiaggia utilizzata dai pescatori; gli antichi casini cominciarono ad essere trasformati in splendide ville prospicienti il mare, spesso dotate di approdi e moli, come quello di villa Rosbery, che sarà residenza privata del Presidente della Repubblica. E cominciò a popolarsi anche il borgo di Marechiaro, prospiciente il mare (Alvino, 1845). 

Dalla pesca al loisir 

Dall’arrivo degli spagnoli (1503) il mare tra Posillipo e il porto era stato usato in modo scenografico soprattutto quando arrivava il nuovo viceré, che sostava a Posillipo sulla sua galera mentre il suo predecessore si avviava in Spagna con un’altra galera: questo cerimoniale si svolgeva in modo da non far incontrare i due gentiluomini per evitare questioni di precedenza. Il nuovo viceré entrava in porto dove veniva fatto scendere su un “puente” riccamente addobbato e portato in corteo a palazzo reale. Pian piano i viceré in estate cominciarono a prendere l’abitudine di fare delle “passeggiate” a Posillipo con le feluche reali scortate dalle galere della flotta e da barche con musici e cibarie, seguiti dai cortei di feluche degli aristocratici riccamente addobbate (Sirago, 2022a).

Le prime notizie di cortei di barche con musica si hanno nella raccolta di novelle Fuggilozio di Tommaso Costo ambientate verso il 1571 a Posillipo nella villa Sirena del priore Giovan Francesco Ravaschieri (Costo, 1989: 16), trasformato poi in Palazzo Donn’Anna (Belli, 2017). Il Costo raccontava che nel mare brulicante di barche tutte ornate di stendardi piene di gentiluomini e gentildonne 

«soglion venire raunanza di musici eccellenti, i quali con diversi strumenti sonando e cantando riempiono l’aria, il mare e la terra di più armonie; ed il simile facendo altri musici dentro di Sirena [Il Palazzo della Sirena del Ravaschieri] condottivi qui da que’ signori convitanti, per appunto che e le Driadi e le Napee, con tutte le ninfe così terrestri come marine, si siano qui a cantar adunate» (Costo,1989: 16). 

palazzo_donn_anna_pietro_belliQuesta “moda” fu ripresa dai viceré che in estate lungo le spiagge di Santa Lucia, Chiaia e Mergellina sulla gondola reale, o bucintoretto, celebrava il rito dello “spasso di Posillipo” seguito dai cortigiani e dagli aristocratici che navigavano accanto su agili feluche parate a festa (Sirago, 2022b: 51ss.). Jean Jaques Bouchard descriveva lo spettacolo delle galere della flotta che scortavano la gondola del viceré affiancata da un lato dalla feluca in cui vi erano i musicisti della Cappella Reale che cantavano dolci canzonette e dall’altro lato da una feluca in cui i servitori in livree sgargianti avevano sistemato i panieri pieni di vivande prelibate. Il francese osservava che uno dei momenti cruciali era la solenne cerimonia del mangiare: i servitori degli aristocratici in colorate livree che richiamavano il casato dei loro padroni attingevano da grossi panieri elaborate vettovaglie, spesso a base di prodotti ittici, che acquistavano anche in loco, dai pescatori che li raggiungevano in mare con le loro barchette, servendoli con eleganza. Egli faceva riferimento anche ai polipi, consumati dai ricchi arrosto, diversamente dai popolani, che lo mangiavano bollito in grossi pentoloni, posti vicino alle abitazioni dei venditori (Bouchard, 1976: 426ss.).

Fig. 12 Le Posillicheate, Pietro Fabris, Napoli, Museo di San Martino

Le Posillicheate, Pietro Fabris, Napoli, Museo di San Martino

Il viceré conte di Oňate, Inigo Vélez de Guevara amava molto gli “spassi di Posillipo”. Giunto a Napoli dopo i moti masanelliani aveva deciso di fare delle migliorie in tutta la città per ripristinarla al meglio dopo i tumulti, facendo eseguire molti lavori urbanistici. Perciò  tra maggio e giugno del 1652 fece  “abbellire” la marina di Chiaia con fontane e “fabbriche deliziose”, e con la piantagione di “due ali di alberi”, olmi e salici, dalla “Torricella” (Torretta) al palazzo Carafa incompiuto, per «dar comodità alle dame che all’estate [andavano] a diporto a Mergellina, e per quella riviera, a vedere  il corteggio delli viceré nel passeggio …acciò l’incendio del sole non avesse forza di travagliarle e con più comodità fussero accudite dalla …servitù» che portava «collazioni di diverse sorti». Egli però a volte si ritirava a Posillipo in segreto, senza tutto l’apparato, «sotto colore di ricrearsi in quella deliziosa riviera, godendo quelle amenissime sponde del suo tranquillo mare» (Fuidoro,1932: 177-178 e 197).

Ulteriori lavori furono fatti fare nel 1697 dal vicerè Luigi de la Cerda, duca di Medinaceli, che ordinò di ripiantare gli alberi e sistemare le fontane dal palazzo di Satriano (odierna Riviera di Chiaia) a Piedigrotta, dalle quali durante le feste scaturiva vino (Confuorto, II: 237).

Anche Pompeo Sarnelli nella Posillicheata descriveva la festa del 26 luglio 1684 (Sant’Anna): 

«… co l’accasione … della bella festa, che se faceva a maro vierzo Mergoglino (Mergellina) [andammo] dinto a la falluca (feluca), pe gaudere de chille spasse. … E bèccote lo mare quagliato (pieno) de tante falluche … non sulo chelle de Napole, ma de l’isole e de li paise vecine … vecino a lo palazzo de Medina [palazzo donn’Anna] nc’era no carro trionfante … tutto ‘nnaurato (dorato), co’ quattro rote rosse, terato da duje cavalle marine che parevano vive: ‘ncoppa ‘ncoppa a lo carro nc’era na quaquiglia (gabbiano) granne d’argiento, che serveva pe trono a Nettuno et a la mogliere: tutto lo carro era attorniato da personaggi che rappresentavano Tretune e Nereide, ed aute Ninfe e Dee marine, le quale co baie sorte de stromiente sonavano e cantavano de museca che a l’àjero (arria) sereno de la sera facevano n’armonia de stopore … Cchiù ‘nnanze … a Mergoglino nc’era na machena granne ‘n forma de teatro che stava ‘mmiezo mare tutt’attorniata de frunne verde». 

Il carro, costruito sulla spiaggia di Mergellina su modello di quelli costruiti durante il Carnevale, era circondato da barche, gozzi, tartane, su cui era assiepato il popolo. Poco dopo apparve la gondola del viceré attorniata dalle imbarcazioni dei cortigiani mentre altro popolo si assiepava sui balconi delle abitazioni, poste a mo’ di “bellissimo teatro”. Poi fu dato “fuoco a la machena” e le scintille parevano stelle, una luminaria di fuochi d’artificio che durò un’ora” (Sarnelli, 1986). Un anno dopo Domenico Antonio Parrino nella sua “Guida” ricordava: 

«Per la marina si trova la deliziosa riviera di Mergellina, così detta forse dal guizzare e mergersi de’ pesci; vi sono diversi palagi, … e l’estate, nel luogo detto lo Scoglio, si vede popolato di carrozze per chi abborrisce il mare, e di feluche per chi ne gode, facendosi sontuosissimi banchetti» (Parrino, 1700). 

Gli “Spassi di Posillipo” si chiudevano con la festa della Madonna di Piedigrotta celebrata l’otto settembre dal viceré con tutta la sua corte secondo una scenografia marina lungo la spiaggia di Chiaia e la marina di Mergellina. Il culto della Madonna di Piedigrotta è antico: si fa risalire alla venuta di San Pietro a Napoli dove aveva deciso di costruire una piccola cappella in onore della Madonna nella grotta in cui in epoca romana si celebravano i riti orgiastici di Priapo. Anche in questo caso c’è una sovrapposizione dei culti cristiani su quelli antichi che riaffioravano nel momento della festa. Il poeta Francesco Petrarca, a Napoli nel 1338, ricordava che a questa chiesa confluivano «in gran numero i naviganti», a lei devoti. Nel 1493 la chiesa fu affidata ai canonici lateranensi che la accrebbero e abbellirono. Durante la dominazione spagnola i viceré ebbero a cuore la festa durante la quale si organizzava una spettacolare parata di carrozze lungo la spiaggia.

Il corteo era seguito dalla numerosa popolazione che infiorava i balconi delle case e danzava per strada. Nel quartiere di Chiaia, dove alloggiavano i soldati, si svolgevano parate militari volte ad esaltare la magnificenza della monarchia spagnola. Al tramonto vi erano poi i consueti giochi pirotecnici a mare e le galere della flotta napoletana e quelle dei Doria, duchi di Tursi, schierate in forma di combattimento, sparavano a salve. La festa si protraeva di solito fino alle tre di notte, quando il viceré dava ordine di rientrare a Palazzo.

Fig. 13 Piedigrotta 1880, manifesto pubblicitario, canzone Funiculì Funicola’ per l’inaugurazione della funicolare del Vesuvio, aperta nel 1879

Piedigrotta 1880, manifesto pubblicitario, canzone Funiculì Funicola’ per l’inaugurazione della funicolare del Vesuvio, aperta nel 1879

Jean Jaques Bouchard annoverava la festa tra quelle più importanti per sfarzo e apparati scenografici: la mattina vi concorreva il popolo napoletano che danzava e cantava mentre venivano allestite delle “bancarelle” traboccanti di ogni sorta di cibo. Nel dopopranzo arrivava anche il viceré con tutta la nobiltà per cui a partire dalla porta di Chiaia per due miglia si snodava una lunga fila di carrozze tanto compatta da impedire il passaggio ai pedoni, una vista simile a quella del Louvre di Parigi (Bouchard, II: 426). La festa continuò ad essere celebrata con le stesse modalità anche durante il periodo borbonico, lungo la via Mergellina, aperta nel 1745 da Carlo di Borbone (Lancellotti, 1842: 9). assumendo sempre più la funzione di parata militare, pur conservando le modalità di una festa popolare (Mastriani, 1857, I: 267-271). 

L’eco degli antichi riti pagani è rimasta viva nell’ambito dello svolgimento della festa, caratterizzata non solo dalla devozione alla Madonna ma anche da balli tradizionali, in primis la tarantella, e da canti popolari, che nell’Ottocento assunsero il carattere di un vero e proprio festival.

Nel corso del Settecento la zona di Chiaia venne prediletta dai “grandtouristi” per il suo paesaggio. Uno dei più bei “casini”, una incantevole dimora neoclassica, era quello di Michele Imperiali, principe di Francavilla, prospiciente il mare, di fronte al Castel dell’Ovo, circondato da un boschetto di platani e lecci, che aveva una bella terrazza sul mare. Qui il principe organizzava “feste marine acquatiche” in cui gli adolescenti di entrambi i sessi si esibivano in evoluzioni natatorie che gli invitati potevano ammirare dalla terrazza che affacciava sul mare. Il libertino veneziano Giacomo Casanova, venuto a Napoli nel 1770, partecipò ad una di queste feste accompagnato dal suo anfitrione lord Hamilton, rimanendo affascinato e sbalordito alla vista di questo meraviglioso spettacolo. Poi poté gustare un sontuoso banchetto a base di prodotti ittici preparato in modo coreografico con particolari architettonici e artistici dal filosofo letterato e gastronomo Vincenzo Corrado, “capocuoco” del principe, autore di un famosissimo libro di cucina, Il cuoco galante, pubblicato nel 1773 (Sirago, 2023c).

Fig. 14 “Veduta del Casino della Regina nella strada delle Crocelle”, raffigurazione su una gelatiera del “Servizio dell’oca”, Museo di Capodimonte, Napoli (Carola, 1986, p.449, scheda 376)

“Veduta del Casino della Regina nella strada delle Crocelle”, raffigurazione su una gelatiera del “Servizio dell’oca”, Museo di Capodimonte, Napoli (Carola, 1986: 449, scheda 376)

Casanova era amico dell’avventuriera Sara Goudar che in quel periodo era a Napoli e aveva aperto una bisca clandestina nel suo alloggio, l’“Albergo delle Crocelle”, dove risiedeva anche il veneziano, molto frequentata dagli aristocratici e dai sovrani. Ferdinando si invaghi della bella Sara suscitando le ire della moglie che fece allontanare Sara e il suo coniuge (Hauc, 2010).

Dopo la morte del principe, senza eredi (1782) il “casino” fu incamerato dalla Regia Corte ed usato da re Ferdinando come “Casino Reale di pesca”. Egli soleva trasferirsi lì con la famiglia nel periodo estivo. L’edificio era stato ampliato dal principe a metà Settecento. Poi a fine secolo era stato costruito un caffeaus sul davanti, all’estremità del piccolo promontorio, era stato ampliato il terrazzo e rinforzato il piccolo molo. Il luogo era molto amato dalla regina Maria Carolina che lo aveva fatto raffigurare in una “gelatiera” del “Servizio dell’oca” eseguito nella Real fabbrica di Capodimonte tra il 1793-95 utilizzato per imbandire la tavola reale. Dopo l’Unità Garibaldi lo regalò a Alexandre Dumas padre che vi installò la redazione del suo giornale “L’indipendente” fino al 1863. Poi fu fatta la colmata per creare il lungomare, i cui lavori furono affidati ad una società belga fondata dai fratelli du Mesnil, per cui il casino fu allontanato dal mare e trasformato in un albergo, Hotel Washington, poi Hassler, in esercizio fino al 1915. Verso il 1920 il boschetto fu abbattuto per ampliare via Chiatamone e sull’antico casino venne sovrapposta la facciata della nuova Facoltà di Economia e Commercio, inaugurata nel 1928 e risistemata nel 1937. Oggi è sede dell’Università Federico II di Napoli ed è utilizzato come Centro Congressi (Fe Fusco, 2004).

Fig. 15 La Villa Reale 1857 circa

La Villa Reale 1857 circa

In quel periodo si sentiva l’esigenza di creare luoghi di loisir come si stava facendo nelle più importanti capitali europee. Perciò Ferdinando diede incarico all’architetto Carlo Vanvitelli di creare una Villa Reale lungo la riviera di Chiaia, il luogo più incantevole del golfo, su modello del Paseo del Prado fatto realizzare dal padre Carlo a Madrid. Tra il 1778 e il 1780 la spiaggia prospiciente il largo Vittoria fu trasformata in un passeggio disegnato dall’architetto la Vanvitelli che curò anche l’allestimento dei giardini. Poi in tutta la Riviera vennero costruire ville e alloggi di lusso e alberghi dotati di ogni comfort per cui cominciarono lentamente a sparire dalla spiaggia le reti e le barche da pesca e si cominciò a limitare anche il lavoro delle lavandaie, con un regolamento del 1781 (Sirago, 2013 e 2020). 

Nel corso dell’Ottocento fu allestito un giardino d’inverno, custodito da una guardia militare che stava accanto alla garitta all’ingresso della villa, delegata al controllo degli ingressi, permessi solo a persone “vestite convenientemente”. La struttura, voluta da Ferdinando II, fu realizzata con le pareti di vetro e la cupola di cristallo a copertura. All’interno vi erano fontane, piante tropicali e diverse sale per la lettura, concerto e accademia di musica e un teatro, all’esterno tavolini e splendidi giardini al largo della Vittoria. Tutto questo fu abbattuto a fine Ottocento quando fu fatta la colmata per creare il lungomare. Nel 1861 fu costruita anche la Cassa Armonica con 12 colonne di ghisa e copertura in vetro colorato, con quattro rampe di accesso, che poteva contenere almeno 40 suonatori, ancora esistente (Alisio, 1993). 

La Cassa Armonica (1861)

La Cassa Armonica (1861)

Dalla fine del Settecento gli inglesi, in primis il ministro plenipotenziario inglese William Hamilton, cominciarono a diffondere la moda della balneazione, diffusa in epoca francese anche tra i napoletani. Perciò anche lungo la spiaggia che costeggiava la Villa Reale sorsero le prime “capannette” per la balneazione, mentre in tutta la zona si continuavano a innalzare alberghi di lusso. Da metà Ottocento la villa fu illuminata e si costruì la Cassa Armonica dove si svolgevano i concerti. Poi, seguendo i dettami del “Risanamento” (Alisio, 1980), anche questa zona, come quella di Santa Lucia, venne riqualificata a scapito dei pochi pescatori rimasti che ormai potevano stendere le reti solo sul nuovo lungomare (Sirago, 2013). 

Anche a Posillipo a partire dal Seicento accanto al palazzo dei Carafa della Roccella, detto di Donn’Anna, vennero costruiti dei bei “casini di delizie”, quello di Titta Coppola e quello detto di Cantalupo dei fratelli Antonio e Domenico di Gennaro (il primo duca di Belforte, il secondo duca di Cantalupo), che sul lato mare aveva una splendida loggia ad arcate sotto le quali passava il sentiero pedonale che portava al Palazzo Donn’Anna, distrutta quando fu costruita l’odierna via Posillipo. Ed esisteva anche un “Casino del re” usato da Ferdinando di Borbone quando veniva a pescare.

 Chiatamone Grand Hotel Royal 1930

Chiatamone Grand Hotel Royal 1930

Per tutto l’Ottocento si costruirono casini di delizie e stabilimenti balneari, visto che il turismo borghese si stava incrementando. Nel secondo Ottocento, malgrado Napoli avesse perso il suo status di Capitale, vennero edificati numerosi palazzi che segnarono definitivamente la separazione con la spiaggia, sulla quale fu realizzato poi il lungomare (via Caracciolo e via Partenope). Nel 1882 fu costruita la piazza di Sannazaro e fu creato il viale Elena (oggi via Gramsci), parallelo al secondo tratto del lungomare. Perciò nel 1873 l’architetto Enrico Alvino aveva stilato un progetto per una “Spiaggia e Rione per Marinai a Posillipo” con bagni pubblici, lavatoi e spanditoi per le lavandaie e rifugi per le barche, da costruirsi all’inizio di Posillipo, tra il diruto Palazzo Donn’Anna e l’ospizio marino per vecchi pescatori fondato lo stesso anno da Padre Ludovico da Casoria, nell’ex seminario degli Scolopi, in cui avrebbero dovuto trasferirsi un migliaio di pescatori. Ma il progetto non fu realizzato perché nel primo tratto della strada nuova fin dal 1820 erano state aperte trattorie, come quella dello “Scoglio di Frisio”, e stabilimenti balneari, come il “Bagno Elena” ed erano state impiantate delle ville per la villeggiatura (Sirago, 2013). Pian piano i pescatori dovettero abbandonare il luogo dove avevano esercitato il loro mestiere da tempo immemore per trovare luoghi più idonei per la pesca mentre l’antico casale Posillipo si andava urbanizzando. Sparivano così lungo tutta la costa i “quartieri marinari” e con essi si cancellava tutta la tradizione secolare dei sistemi di pesca (Sirago, 2014 e 2018). 

 Costumi da bagno di fine Ottocento

Costumi da bagno di fine Ottocento

La balneazione

La “moda” della balneazione, con i suoi riti e il suo abbigliamento, pian piano si diffuse nel ceto borghese ed anche in quello popolare. Sorsero così lungo la costa numerosi stabilimenti balneari, soprattutto tra il Chiatamone e Posillipo, dove vi erano i più eleganti.

Uno degli stabilimenti balneari più a la page era quello dei “Bagni del Chiatamone” (odierno Grand Hotel Vesuvio), in cui si potevano praticare sia bagni termali che marini. Lo stabilimento era stato aperto nel 1882 sul nuovo lungomare, costruito in quegli anni, dal belga Oscar de Mesnil, un ricco finanziere, mecenate ed urbanista: tra il 1872 ed il 1779 aveva coordinato insieme al fratello Ermanno la costruzione del lungomare, futura via Caracciolo, realizzando la colmata a mare per estendere la terraferma della città da Santa Lucia a Mergellina. Per il loro lavoro i due fratelli avevano ottenuto la concessione di poter edificare sui nuovi suoli, dove innalzarono numerosi edifici, tra cui il Palazzo du Mensil, odierna Università Orientale. L’hotel dei bagni di Chiatamone fu organizzato sul modello di simili stabilimenti francesi ed inglesi, che il barone du Mesnil aveva visitato e studiato, ed offriva ogni comfort all’elegante clientela: tra questi si annoveravano la regina Victoria di Svezia col suo medico personale Axel Munthe e lo scrittore Guy de Maupassant, ospite nel 1885. Il complesso termale era stato costruito in stile neoclassico sulle fonti del Chiatamone, “in diretta comunicazione con l’Hotel du Chiatamone” e nei piani dell’imprenditore doveva far diventare Napoli una “stazione balnearia” di prim’ordine.

Il resort era pubblicizzato per le sue proprietà terapeutiche dal dottor Domenico Franco, medico dello stabilimento, che in quel tempo stava studiando i benefici effetti delle cure termali. Il medico riteneva infatti che Napoli, come “stazione balnearia” «[aveva] con sé un complesso di circostanze favorevoli che la rend[evano] superiore forse a tutte le altre consimili». E a tali benefici si aggiungevano anche “isvariati stabilimenti per bagni marini” e numerosi altri importanti alberghi. Lo stabilimento diventò subito un centro di ritrovo molto frequentato sia dai napoletani che dagli stranieri, dando lustro alla spiaggia del Chiatamone (Franco, 1880). Furono poi impiantati molti stabilimenti termali e balneari come il “Premiato stabilimento Balneare Chiatamone Mansi”, sorto sulle antiche “sorgenti lucullane carbonico – ferruginose – alcaline”, diffusamente pubblicizzato fin dai suoi primi numeri dal nuovo quotidiano cittadino “Il Mattino”, fondato da Matilde Serao e Edoardo Scarfoglio nel 1892 (Sirago, 2010).

Un altro elegante stabilimento balneare era l’“Eldorado”, costruito “alla punta del forte Ovo” dall’imprenditore Gabriele Valenzano, con circa 350 “camerini”, di cui la metà femminili, dotati di lavabo con acqua corrente e specchi, attrezzato “in modo moderno” con ogni comfort, “caffè, buffet, vaporino, barche, carosello, fontana luminosa, doccia, ginnastica, servizio medico”. Qui durante le serate estive sulla bella terrazza affacciata sul mare si esibivano le più importanti compagnie teatrali o si organizzavano eleganti serate danzanti. Anche questo stabilimento era pubblicizzato da Matilde Serao, con lo pseudonimo di Gibus nei suoi “Mosconi”, come “Grande Stabilimento Balneare di prim’ordine”, dai “prezzi modici da non temere la concorrenza”, costruito da Gabriele Valenzano, che aveva avuto la lungimiranza di costruire «un ottimo stabilimento balneare, con una sala d’aspetto più bella  di quella del famoso Lido Pancaldi di Livorno» ed aveva in progetto di realizzare un “restaurant a mare … su svelte colonne di ferro” e sostituire le strutture in legno dello stabilimento con simili in  muratura.

Ai primi del Novecento, quando i lavori erano quasi terminati, la Serao rimarcava l’abilità imprenditoriale del Valenzano, che «per la sola lavanderia a vapore [necessaria per lavare e stirare gli asciugamani forniti aveva] speso 25.000 lire». Ancora nel 1904 nel nuovo quotidiano Il Giorno da lei fondato ricordava le parole dell’imprenditore: I miei inglesi sono i Napoletani. Il famoso stabilimento era frequentato anche da importanti personalità come la duchessa Elena d’Aosta, che aveva la sua residenza a Capodimonte (Sirago, 2010).

Un altro industriale dalle mille attività, legate al commercio del legname, col quale aveva cominciato a costruire i suoi stabilimenti balneari è Gerardo Limongelli, nativo di Salerno, dove era stato nominato “presidente del Consorzio Balneare”, e nel 1873 aveva costruito uno stabilimento balneare all’avanguardia. Poi si era trasferito a Napoli, continuando ad occuparsi della sua attività industriale del legno, creando il 7 settembre 1915 una società “per il commercio e la lavorazione del legno” col figlio Mattia. Tra le sue molteplici attività, per le quali nel 1920 fu nominato Cavaliere della Corona, aveva intrapreso anche la realizzazione di stabilimenti balneari, come “Il Risorgimento”, alla Rotonda di via Caracciolo (l’antico isolotto di San Leonardo), per il quale pagava una concessione di 6000 lire annue. Lo stabilimento, definito dalla Serao “Il più elegante e solido”, era dotato di ogni comfort, docce, ginnastica, luce elettrica, “trattenimenti musicali”, restaurant, tiro al bersaglio, ed era molto comodo da raggiungere perché sito presso la fermata del tram elettrico. Negli anni seguenti egli si era unito con i proprietari dei migliori stabilimenti balneari, “Santa Lucia”, “Castello”, “Vittoria” (tutti presso via Caracciolo), “Sannazaro”, “Città di Napoli, “Giovane Italia” (a Mergellina) e “Posillipo”, creando le “Società Balneari Riunite”, che pubblicizzavano su “Il Mattino.  i loro stabilimenti dotati di ogni comfort. Nel 1898 avevano rifondato la “Società Balneare Partenopea”, rappresentata da Giuseppe Conforti, con sede nel palazzo Francavilla a Chiaia, richiedendo licenze per gli stessi stabilimenti, tra cui “Il Risorgimento”.  Nello stesso anno la “Ditta Limoncelli e C. si era notevolmente ingrandita tanto da possedere, oltre al “Il Risorgimento”, anche l’antico stabilimento di Posillipo a Villa Quercia, a cui fu poi dato il nome di “Bagno Elena” e lo stabilimento “Vittoria”, di fronte alla Villa, a via Caracciolo. Inoltre dai primi del Novecento possedevano anche il “Savoia”, nella odierna via Cesario Console, dotato di un’ampia rotonda e una vasca per le signore di 70 metri, definito da Gibus il “bagno ideale per l’élite napoletana.       

Un altro stabilimento balneare à la page era il “Sannazaro” sulla spiaggia di Mergellina, aperto da Luigi Manetta nel 1876, la cui licenza fu ereditata dal figlio Domenico, poi ribattezzato “Risorgimento” ed inserito nelle “Società Balneari Riunite”. Anche sulla spiaggia di Sannazaro, a Mergellina, era stato costruito uno stabilimento che ebbe un rapido incremento, gestito da Antonio Rizzo e Gennaro Cuccaro, i quali nel 1892 avevano ottenuto una concessione per la sua costruzione, pagando 1500 lire annue. Poi nel 1899 si erano associati con l’industriale Guglielmo Barrowes e avevano costituito la “Società Balneare Partenopea” per intraprendere una “industria balneare” in cui il Barrowes forniva i capitali per acquistare il legname e la biancheria occorrente e gli altri due imprenditori la loro capacità tecnica “in tale industria”. Nel 1898 si annunciava la riapertura dello stesso stabilimento, che avrebbe preso il nome di “La Giovane Italia”. Poi, col nuovo nome di “Città di Napoli” fu pubblicizzato entusiasticamente dalla Serao ne “Il Mattino” come lo «stabilimento … più adatto per signore e bambini, dotato … di servizio inappuntabile» (Sirago, 2010).

Una zona molto esclusiva era quella di Posillipo. Verso il 1820, nella “Contrada Cantalupo”, mentre si ultimava la costruzione della nuova strada, iniziata nel 1811, in epoca francese, Giacinto di Bernardo aveva ristrutturato il palazzo, o “casino”, acquistato dal principe della Roccella Carafa Branciforte e lo aveva trasformato in una struttura ricreativa, in cui poter alloggiare per trascorrere dei periodi di villeggiatura. Aveva fatto sistemare una grande sala d’ingresso da utilizzare anche come sala da bigliardo, ed un loggiato, dove si poteva prendere il fresco prima di entrare nei “camerini”; erano stati costruiti dei bagni di acqua dolce calda e fredda e d’estate “bagni di legno” (cabine) erano utilizzati sia “dagli inquilini [che] dagli avventori”. Egli non aveva dovuto pagare alcuna tassa al Municipio per i “camerini” che costruiva ogni anno perché la nuova strada non era stata consegnata ufficialmente alla città. Nella stessa zona erano state innalzate molte “case da diporto”, tra cui la villa Didace Ayala e la villa di Roccaromana, fittate ai “villeggianti” in estate, con «dei luoghi molto comodi per la facilità de’ bagni» (Sirago, 2010 e 2013).

Louis Lancellotti nella sua “Guida” del 1842 consigliava i “turisti” di scendere per la strada di Marechiaro in carrozza ed arrivare a Coroglio, ricca di resti romani, ed alla Caiola, “la più bella passeggiata del mondo”, un giardino incantato ricco di vigne e agrumeti.

Fig. 18 Stabilimenti balneari a Posillipo, 1900, cartolina d’epoca

Fig. 18 Stabilimenti balneari a Posillipo, 1900, cartolina d’epoca

La balneazione a Chiaia, Mergellina e Posillipo, praticata dal ceto medio-alto, si sviluppò ancor più nel secondo Ottocento. Il biologo Anton Dohrn, che nel 1872 aveva fondato a Napoli la “Stazione zoologica”, nei suoi appunti citava lo stabilimento balneare del dottor Maximilian Malbranc, un medico tedesco che aveva introdotto le cure a base di bagni di mare. Nel 1892 il commerciante Vincenzo Ardia ottenne la concessione per il suo “Bagno Donn’Anna”, sulla spiaggia dell’omonimo palazzo, costruendovi una solida struttura, ingrandita nel corso degli anni, pubblicizzato dalla Serao.  La scrittrice nel 1895 invitava la popolazione a recarvisi per assistere comodamente alla festa a mare organizzata quell’anno; nel 1899 pubblicizzava le matinées surprise, attraentissime per gli amatori del ballo artistico”; e nel 1902 descriveva una bellissima serata danzante a cui aveva partecipato “il fior fiore dell’aristocrazia”.

Negli anni seguenti, anche quando era gestito dalla signora Emma Ricciardi Ardia, aveva continuato ad essere frequentato dall’aristocrazia cittadina, per cui erano state aumentate le cabine e Matilde Serao continuava a pubblicizzarlo entusiasticamente. Nel 1908 Vincenzo Ardia, per incrementare la sua attività, aveva costituito una società, la “V. Ardia e C.”, per gestire un altro stabilimento balneare, “Il Lido”, verso Mergellina, dal 1909 al 1917. Ma, fallito l’Ardia e sciolta la prima società, se n’era formata un’altra, allo stesso scopo e per gli stessi anni, in cui l’Ardia si impegnava a “prestare la sua opera” per la direzione dello stabilimento, data la sua provata esperienza in questo settore (Sirago, 2010).  

Posillipo, Bagno Elena

Posillipo, Bagno Elena

Uno dei più antichi stabilimenti balneari era l’antica “Villa Quercia”, dal 1899 ribattezzato “Bagno Elena” in onore della futura regina da uno dei soci di Gerardo Limoncelli, Pasquale D’Alessio, sorto su quei lidi frequentati fin dagli anni’ 20. Il bagno, appena fuori città, era pubblicizzato con entusiasmo dalla Serao sul quotidiano “Il Mattino”, anche se la giornalista consigliava di coprire la rotonda con un tendone, in modo che “il pubblico elegantissimo” non avesse noia dal sole estivo.  Nel 1900 ebbe modo di definirlo “elegante e civettuolo”, “simpatico ritrovo dei più ricconi bagnanti”, con “una bella vasca” come quella de “Il Risorgimento”, e numerosi camerini, per adeguarsi agli standard degli altri stabilimenti delle  “Società Balneare Partenopea”, in cui aveva una partecipazione anche il Limoncelli. Lo stabilimento era diventato tanto famoso che nel 1906 era stata organizzata al “Cinematografo Internazionale … alla Carità” una proiezione dal titolo “Una giornata al bagno Elena” per far conoscere al vasto pubblico il “grande mondo dei bagni”. Infine vi era lo stabilimento “La Sirena” di Luca Ciaramella, ancora in funzione (Sirago, 2010). 

Chiaia, Spiaggia

Chiaia, Antica Spiaggia

In totale nel 1897 tra il Castel dell’Ovo e Posillipo si contavano otto stabilimenti balneari, l’elegante “Eldorado” di Gabriele Valenzano e quello di Luigi Maurelli, lungo la spiaggia del Castel dell’Ovo, quello di Pietro Pinelli, alla Vittoria, quelli di Gaetano Palumbo e Gennaro Cuccaro, a Mergellina, quelli di Vincenzo Ardia e Luca Ciaramella, all’inizio di Posillipo, a Palazzo Donn Anna e l’elegante complesso di “Villa Quercia” di Gaetano Bruno [1]. Nel 1906 se ne contavano ancora otto, l’“Eldorado” del Valenzano, quello del Cuccaro a Mergellina, tre di Vincenzo Ardia, uno a Mergellina e due a Posillipo, quello del Ciaramella e la “Villa Quercia”, acquistata da Gaetano Limoncelli, che aveva ampliato la sua “industria”. Ma nel 1927 la situazione era notevolmente cambiata. Spariti gli “stabilimenti popolari”, rimanevano solo quelli da Posillipo a Marechiaro. Si contavano infatti solo cinque stabilimenti balneari, uno a Palazzo Donn’Anna, di Argia Argia, uno a Posillipo di Vincenzo Ciaramella, il “Bagno Elena, di Roberto D’Alessio, il “Bagno Lido” di Anna Maria Ricciardi ed un bagno a Marechiaro di Pasquale Vitiello [2].  

Con la sparizione delle spiagge erano spariti i pescatori e gli stabilimenti balneari: ne erano rimasti solo alcuni arroccati sulle rocce posillipine, dando il passo alla nuova città borghese (Alisio, 1989; Buccaro, 2001). Come ha sottolineato Marco Armiero (2004), Partenope non abita più qui. 

Dialoghi Mediterranei, n. 73, maggio 2025
Note
[1] Archivio di Stato, Napoli, d’ora in poi ASN, Questura di Napoli, AG, II serie, 2475, 1897.
[2] ASN, Disposizioni di Massima, 27/488, 20/6/1906 e 15/6/1927. 
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Maria Sirago, dal 1988 è stata insegnante di italiano e latino presso il Liceo Classico Jacopo Sannazaro di Napoli. Dal primo settembre 2017 è in pensione. Affiliazione: Nav Lab (Laboratorio di Storia Marittima e Navale), Genova. Membro della Società Italiana degli Storici dell’Economia, della Società Italiana degli Storici, della Società Napoletana di Storia Patria, Napoli, della Società Italiana di Storia Militare. Ha scritto alcuni saggi e numerosi lavori sulla storia marittima del regno meridionale in età moderna. Tra gli ultimi suoi studi si segnalano: La scoperta del mare. La nascita e lo sviluppo della balneazione a Napoli e nel suo golfo tra ‘800 e ‘900, edizioni Intra Moenia, Napoli, 2013; Gente di mare Storia della pesca sulle coste campane, edizioni Intra Moenia, Napoli, 2014; Il mare in festa Musica balli e cibi nella Napoli viceregnale (1503-1734), Kinetés edizioni, Benevento, 2022.

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