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Le parole di Paraloup

Posted By Comitato di Redazione On 1 novembre 2017 @ 00:09 In Cultura,Società | No Comments

Paraloup #01di Pietro Clemente

Cerco un po’ di parole per fare il punto sulla esperienza di Paraloup, per scriverle su un tessuto, graffiarle nella memoria, perché restino in incontri futuri. Paraloup fine settembre 2017, quattro sessioni, tutte diverse (vedi scritto di Beatrice Verri, in calce): prima sessione a Vinadio, una grande fortezza che contiene un museo (un percorso multimediale) della montagna e quindi la offerta del ‘Forte con gusto’, ‘degustazioni montane’ (un surplus di metaforicità) con cibi locali in cui compare anche la produzione legata all’ecomuseo della pastorizia di Pietraporzio, i salumi di pecora sambucana, e infine un violoncello solista, di Lamberto Curtoni ‘Vox celli’ usato come uno strumento da concerto solo, nella cappella della Caserma dentro la fortezza.

5 Musei per il ritorno

Le parole da ricordare per la memoria della rete dei piccoli paesi possono essere tante, ma cerco di scegliere quelle più significative e insieme legate all’incontro: musei e vita attiva, lingue locali (nel Museo di Vinadio: una sequenza di volti di parlanti occitano), prodotti locali. Nel mondo dei piccoli paesi il nesso tra musei e territorio è importante; Monticchiello, Armungia, Cocullo hanno un museo, Paraloup si poggia al Museo della Montagna in movimento, ma diventerà anch’esso museo a breve facendo tesoro delle voci della gente raccolte da Nuto Revelli negli anni delle sue ricerche sulla campagna e la montagna, allestite scenograficamente. I musei, abbiamo scoperto, diventano attivi e si rilanciano quando c’è lavoro per lo sviluppo, quando il territorio si rianima, da soli non ce la fanno ad essere volano e traino di attività e di sviluppo, anche se questa sarebbe la loro vocazione.

Anche per il museo della montagna in movimento, che sente ormai il peso della obsolescenza tecnologica e il confronto col forte di Bard, ed ha bisogno di uscire dalle mura e viaggiare nella vita Paraloup, è una risorsa di riferimento importante.

Lo ha scritto Mario Turci:

«Il museo di comunità, spesso piccolo, a volte spontaneo e precario, si presenta ora più che mai prezioso nella sua potenzialità di avamposto di prossimità fra patrimonio e collettività. Se i beni culturali sono patrimonio collettivo, e quindi collettivo ne è l’usufrutto, il patrimonio nell’evidenza sociale della sua sostanza politica e culturale sarà innanzitutto (per i legittimi proprietari e nel bene e nel male) “così come è percepito”. Qui propongo un parallelo con quanto indicato nell’articolo 1 della convenzione europea del paesaggio che recita “il paesaggio designa una determinata parte del territorio, così come è percepita dalle popolazioni, il cui carattere deriva dall’azione di fattori naturali e/o umani e delle loro interrelazioni”, per sottolineare il rapporto fra comunità e patrimonio a partire dalla sua percezione (coscienza di appartenenza al patrimonio). Il Museo di prossimità ha il compito di partire dalla percezione del patrimonio, per attivare una “coscienza di appartenenza” che nasca da una negoziazione fra i suoi significati d’eredità e quelli di socialità, di risorsa patrimoniale disponibile alle qualità della vita e alle pratiche di cittadinanza attiva (interessante è notare come tali argomenti ed attenzioni siano espressi nelle nuove Indicazioni nazionali per il curricolo della scuola dell’infanzia e del primo ciclo d’istruzione, pubblicate il 4 settembre scorso). Il Museo di prossimità è un museo in cui la relazione si presenta come risorsa fondamentale, ma la relazione si nutre di tempo dedicato, pazienza, fiducia, presenza, ascolto, partecipazione, co-progettazione, disponibilità, sostanzialmente: dono» [1].

Per i nostri progetti musei ed ecomusei sono importanti senza distinzioni di tipologia, l’ecomuseo ha più vocazione e un quasi obbligo ad essere ‘di prossimità’, ma anche il museo DEA lo può essere, e ciò che conta è che siano attivi nel sostenere il ripopolamento, il ritorno. Il cibo è fattore centrale nei ritorni. Armungia ha mirato al biologico, e nei suoi festival si appoggia alla Cooperativa “Il nido dell’aquila” che da anni lavora su questi temi, e quindi sui colori naturali dei tessuti, le erbe e i medicamenti legati alla etnobotanica. Anche Flamignano, qui nelle pagine di Alessandra Broccolini, è luogo della biodiversità, e il cibo (la lenticchia) non è solo gusto, è anche diversità culturale, memoria, patrimonio immateriale. 

 ph. Clemente

Paraloup (ph. Clemente)

Memoria

«I bagagli patrimoniali sono portati a spalla. Ogni comunità, nella percezione della condizione e vicenda esistenziale dei suoi membri, può averne coscienza, ma il peso (grave o leggero) è del singolo, è individuale. Il bagaglio è individuale come individuale e il viaggio ed ogni esperienza, anche se condivisa, così come l’incontro e il dialogo. Se incontro e dialogo sono sostanzialmente fra individui. Se il dialogo è sostanzialmente nello scambio, inter- pretazione e negoziazione delle visioni del mondo e della realtà» [2].

La memoria, il patrimonio, li portiamo sulle spalle? Sono un peso? Lo dobbiamo assumere noi o ci è imposto e dobbiamo trascinarlo nostro malgrado?

A Paraloup la memoria è più lunga che altrove. Perché in quello spazio la Resistenza ci ha vissuto, e quindi la prima memoria non è quella dell’abbandono delle campagne e del Mondo dei vinti di Nuto Revelli. È la memoria della guerra, dalla quale Nuto torna avendo capito il mondo e scegliendo la Resistenza. I nonni che raccontano, Nuto che racconta ancora tramite i suoi nastri e i suoi libri, Nuto che si interroga e che ci interroga, sono un peso? Nella mia generazione di nati negli anni 40 ci trovammo per lo più negli anni ’60 a scegliere gli uomini della Resistenza come ‘antenati fondatori’ delle nostre ribellioni. Ma le generazioni dopo? Quella dei quarantenni ad esempio, che si sono trovati fuori dal mercato del lavoro, ha voglia di investire su questi ricordi?

Era stato Vincenzo Padiglione, lavorando sulla didattica scolare e sull’approccio delle nuove generazioni al mondo del museo etnografico e in specie quello del mondo contadino a problematizzare assumendo l’indifferenza di giovani come una forma di resistenza [3].

«Forse per i giovani l’indifferenza è una difesa dal rischio che: le loro sensibilità non siano riconosciute; le loro vite possano essere occupate, i loro destini orientati, non più neppure da utopie ma da memorie altrui (monumenti enciclopedie di precedenti generazioni)».

Contro questo rischio, oggetto reale di discussione tra noi, ci vengono date due indicazioni:

- sì al «museo come “zona di contatto” tra culture generazionali, spazio di performance, di libertà di movimento e di attribuzione di significato;

- no al museo «come luogo della divulgazione dove la storia si fa perentoria, veicola metanarrazioni autoritarie e un sapere impersonale e istituzionale» [4].

Anche la memoria torna a proporsi nella modalità della ‘salvaguardia’ , è qualcosa se ci si assume la responsabilità di portare sulle spalle, se entra nel circuito virtuoso che accresce le forme del fare, del passato che si fa risorsa del futuro.

Una riflessione di Claudio Rosati richiama a una idea di torsione tra passato e futuro nel mondo dei piccoli musei locali:

«Si tratta di un universo composito in cui si trovano esperienze diverse dal recupero delle identità dei migranti al sapere di mediatori di origine immigrata che allarga la fruizione delle opere con nuove interpretazioni, dai contributi delle memorie individuali agli oggetti visti non come segni del passato, ma espressioni di futuri vissuti da altre generazioni. Il patrimonio si costruisce così con un ricorso al passato, come produzione culturale del presente. L’estraneità di accumuli di oggetti se interpretata diventa una risorsa. Il museo si costituisce così come un palinsesto aperto a scritture plurime. È un luogo vocato all’incontro e non solo allo sguardo» [5].

Avevo cercato di dire qualcosa di simile in Graffiti di museografia antropologica italiana, con la formula: «i musei non servono a salvare il passato, servono a salvare il futuro» [6].

A Paraloup la memoria è più leggera, ed è già in un processo di trasmissione e reinterpretazione attivate da varie iniziative, la nascita della Fondazione, la realizzazione dei volumi in CD e in scrittura [7] dedicati a nodi e a testimoni particolari delle storie dei vinti, l’avvio di Paraloup come una ricapitolazione di tutta la vicenda di Nuto Revelli, la collaborazione alla memoria di molte altre fondazioni e associazioni legate alla Resistenza, la presenza del figlio Marco Revelli. Ed ora è in atto la ‘taggatura’ del fondo registrato che ne consentirà l’ascolto. Nel tempo, man mano che le distanze cronologiche pesano, le fonti orali assumono anche nuovi valori, sapori, stili, capacità di sorpresa. Tramano contro la banalizzazione della storia. Diciamo che qui la memoria ha buone gerle per essere portata nel futuro. Ed è da quella memoria che prende il via anche l’idea della ‘educazione’, della formazione, come uno dei tratti forti del ‘riabitare’. Il rifugio Paraloup può infatti essere considerato una ‘scuola’ della Resistenza, perché dopo il primo gruppo fondatore che vi si riunì, esso fu utilizzato per accogliere i giovani che sceglievano di andare in montagna, per prepararli e quindi mandarli in altre zone di azione. Una scuola di Resistenza.

3Educare

Educare è la parola più propria del mondo Paraloup e forse anche del mondo Fondazione Revelli. Il riabitare la montagna viene connesso con “una scuola di memoria attiva”; un focus group è dedicato alla “comunità del ritorno e l’educare”. Un intero film di una associazione che si chiama Banca del fare, è dedicato a corsi di apprendimento dei saperi delle antiche case di montagna, in particolare ai tetti, in una forma partecipata e collaborativa con i pochi esperti rimasti in ambito edilizio.

Nell’ambito della rete dei piccoli paesi c’è di fatto una pratica educativa intergenerazionale, la trasmissione delle competenze del teatro a Monticchiello, l’apprendimento che Barbara e Tommaso Lussu fanno della tessitura tradizionale dalla nonna di lei ad Armungia. Ma in altri luoghi della rete non c’è insistenza sull’educare, piuttosto sul fare. Forse si ha timore di una idea dell’educare che sia ‘pedagogica’, più concettuale che pragmatica. Tommaso Lussu e Barbara Cardia fanno corsi di tessitura presso il Museo, e anche il mondo dei richiedenti asilo è traversato da attività formative spesso connesse con l’artigianato.

Ma a Paraloup credo che educare significhi qualcosa di più del fare corsi, e che vada nella direzione di una grande consapevolezza delle scelte che si fanno, della filosofia del riabitare, che non è  fare come i nonni ma semmai – anche con il loro aiuto e i loro ‘saperi’– inventare un nuovo mondo in compagnia dei nonni che non potevano accedere ad esso in un altro tempo pieno di limitazioni oggi superate anche per  le nuove enormi risorse tecnologiche.

Ho appreso queste idee anche nel movimento del riabitare i paesi in Corsica. Le pratiche che nessuno sa fare più vengono studiate e riconquistate, tutti i saperi, dalla lingua alla agricoltura, vengono riesaminati come possibili per il presente, adottati, praticati con creativa distanza rispetto a  un modello filologico impossibile. Per vivere il ritorno nella sua complessità ci vuole quella che Gramsci aveva a suo tempo chiamato una “Riforma intellettuale e morale”. Forse educare è apprendere a fare e al tempo stesso entrare in un orizzonte di senso più grande, sia nel rapporto con la memoria che nel rapporto col futuro. È una ‘riforma intellettuale e morale’.

Fare scuola, essere una scuola, crescere cambiando e cercando di capire in che direzione, è una delle cose che colpisce di più negli incontri della rete dei piccolo paesi, c’è una autoformazione (educazione?) per contagio, per suggestione, per transfert generazionale. L’incontro di Paraloup è stato il più ricco e intenso di quelli della rete e, nella varietà delle narrazioni, pareva di cogliere come lo scorrere di vari torrenti che scendono in un unico corso d’acqua. Personalmente sento molto la presenza di un orizzonte di senso complesso e significativo negli scritti di Alberto Magnaghi, che riprendono tante tematiche del passato: dall’ambientalismo alla democrazia federativa, ai beni comuni, alla critica dei consumi, alla biodiversità, e orientano questi vari temi verso un orizzonte comune che ha al centro chi abita i luoghi, la coscienza di luogo. Un orizzonte che aiuta molto a pensare anche questa piccola mappa in crescita di realtà locali e minime assai diverse.

4Abitare

Forse la parola abitare è la sintesi del ‘ritorno’, e domenica 1 ottobre a Paraloup nella seduta Architettura e montagna se ne è avuta la percezione. Tra invenzioni straordinarie ispirate al passato ma assai avveniristiche e sconnesse però da comunità reali, a modelli di abitazione ‘organica’ al territorio, il mondo degli architetti è sempre praticamente legato allo spazio reale. Gioca la montagna tra turismo estremo e possibilità abitative reali. Su una gamma che è in effetti quella che si ha oggi.

Quasi ogni gesto di costruire o ricostruire in questi spazi marginali o anche solo abbandonati, richiama il concetto di ‘gentrification’, assai usato dalla sociologia e dall’antropologia. Esso viene usato per indicare il recupero di spazi urbani da parte di ceti colti che hanno risorse finanziarie e ‘capitale culturale’, sottratti o a ceti popolari che non possono permettersi investimenti né invenzioni di riuso, o a ex spazi industriali dismessi. In genere, la gentrification è accompagnata da un atteggiamento radicale che la vede come scelta dei ricchi contro i poveri, e la condanna politicamente.

Credo che è stato proprio Alberto Magnaghi in alcuni suoi testi a mostrare che in questo mondo delle piccole comunità, non conta più il gioco di società: ‘è di destra o è di sinistra’. Il bell’articolo che ci ha donato e si può leggere in questo numero di Dialoghi Mediterranei si apre con le parole di un grande della storia della sinistra francese André Gorz:

«ogni politica… è falsa se non riconosce che non può esserci più la piena occupazione per tutti e che il lavoro dipendente non può più restare il centro dell’esistenza, anzi non può più restare la principale attività di ogni individuo» (A. Magnaghi, Alzare lo sguardo e poi sorvolare o guardare a terra ).

Io ho coniato per scherzo l’espressione ‘gentrificazione felice’, pensando anche alle differenze tra Monticchiello, dove una forte ‘gentrification’ ha caratterizzato la crescita della comunità creando anche problemi ai ‘nativi’ ma per lo più condividendo e rafforzando  le linee culturali della comunità, e Armungia dove il fenomeno non è visibile ancora; ma in queste pagine c’è l’esempio più significativo che io conosca e riguarda Pigna in Corsica. Dove la gentrification nasce dal ‘capitale culturale’ più che da quello finanziario, e dove col prezzo di una chitarra ci si potè comprare una casa. Pigna è cresciuta nel tempo attirando e diffondendo musica, lingua corsa, saperi tradizionali, equilibrio tra abitato e territorio, rigore contro l’assedio automobilistico, diventando un punto di riferimento europeo. Artisti, artigiani, appassionati di una vita diversa creano la alternativa per cui − come dice Toni Casalonga in queste pagine −  gli amici dicono: “è bellissimo ma mica starete qui davvero tutto l’anno?”.  E a quelli che restavano, gli altri ponevano sempre la stessa domanda con una punta di compassione: “Restate qui tutto l’anno?” Come dire: per passare qualche vacanza, va bene ma… andatevene, scappate! Invece ora è con uno sguardo di invidia che gli stessi ci pongono la domanda».

1A Pigna si viaggia, si fa musica e arte e si vive nel mondo del nostro tempo. Gentrificazione felice. Il mondo dell’abitare è forse il problema più complesso del ritorno, perché richiede equilibrio, spirito di comu- nità, scelte non individualistiche, ma già la scelta di abitare è, al di là di chi sia l’abita- tore, una risorsa per una diversa idea di civiltà futura.

«Quando scompare un modo di vivere, si creano vuoti, si aprono spazi che sono la prima condizione necessaria per la mutazione: così scompaiono anche gli ostacoli, e nasce la libertà di fare. Alloggiare con la propria famiglia, avere un laboratorio, a Parigi, Roma o Aiaccio, è difficile, è caro. A Pigna, villaggio quasi vuoto, possiedo tutti gli spazi che voglio con poca spesa».

La prima delle condizioni, la possibilità di fare, non nasce dalla nostalgia del passato ma dalle opportunità aperte dalla sua dipartita. È ancora la voce di Toni Casalonga in queste pagine, e ancora:

«Salvarsi nella mutazione, e non dalla mutazione, e scegliere ciò che noi vogliamo trasportare dal vecchio mondo al nuovo, e che porta il bel nome di cultura.
È da quel momento che si riannodano i fili strappati dell’identità, che si intrecciano con quelli della creazione per una nuova tessitura, e che i saperi antichi, innaffiati dalle nuove conoscenze, fioriscono di nuovi colori».

Sembra già il ‘manifesto’ dei piccoli paesi condito però con la saggezza e la esperienza della generazione che ha cominciato a fare questo lavoro in Corsica negli anni 60. Credo che Pigna e Monticchiello siano tra le esperienze più precoci del costruire una comunità nella crisi demografica con mezzi prevalentemente legati alla cultura e al suo uso sociale. E due esperienze di abitare che si sono confrontate con la ‘gentrification’ in modo positivo.

 ph. Clemente

Paraloup (ph. Clemente)

Musica

Non so se questa sia una parola importante per la rete dei piccoli paesi. La musica, per paesi come Pigna, è vitale. Lì c’è un auditorium in mattoni di terra ispirato dalla architettura egiziana, un Festivoce, un mondo di suoni estivi. Tra Mondovì e Paraloup la musica non è stato solo un incipit e un excipit, ma qualcosa di più difficile da valutare. Che aiuta a pensare che stai usando bene il tuo tempo, che sei in una comunità che ti resterà nel ricordo e nelle azioni, come una musica.

Nella tarda mattina di domenica 1 ottobre, una ragazza bruna vestita da sera, lieve e graziosa, si è affacciata ai nostri lavori di architetti-antropologi-storici vestiti da rifugio alpino di settembre. Difficile capirne il mistero, attendeva che qualche cosa finisse, che un segno la riguardasse. E quando è stato, qualcuno per lei ha condotto un’arpa pesantissima al centro della stanza e lei ha suonato per noi, dandoci il senso dell’essere stati insieme, della connessione col tempo e con la memoria. Ci ha chiesto di non registrare perché alcuni brani erano d’autore attuale, ma quasi nessuno le ha dato ascolto. Eravamo stupiti e conquistati da quei suoni che a loro modo ci parlavano di noi.

Avevamo desiderio che la musica continuasse quando ci hanno chiamati per il pranzo (prodotti locali). La musica dall’inizio alla fine era stata con noi.

Dialoghi Mediterranei, n.28, novembre 2017
Note
[1] M. Turci, Valori di legame e dono partecipativo. Appunti per una discussione in “A.M. Rivista di Antropologia Museale”, n.30, 2013: 51-53
[2] M. Turci, What happens to ethnography in the Museum’s embrace? The Expographic nature of Ethnographic Writing, in S. Ferracuti, E. Frasca, V.Lattanzi, eds., Beyond Modernity. Do Ethnography Nuseums need Ethnography?, Roma, Espera, 2013: 209-218, consultato e citato nella versione italiana inedita fornitami dall’autore
[3] Sam Pezza è un pseudonimo scelto da Vincenzo Padiglione, il testo è Riflessivo, nota finale al volume di “Antropologia Museale”, n.14, 2006, dedicato alle Culture Visive: parole chiave degli antropologi
[4] Ivi: XXII
[5] C. Rosati, Amico museo. Per una museografia dell’accoglienza, Firenze, Edifir 2016: 312
[6] P. Clemente, Graffiti di museografia antropologica italiana, Siena, Protagon, 1996
[7] A. Tarpino, a cura di, Il popolo che manca, Torino, Einaudi, 2016; Andrea Fenoglio, Diego Mometti, Il popolo che manca. Tre film, fondazione Nuto Revelli, 2011

 

Una Scuola di Memoria attiva a Paraloup

7   di Beatrice Verri

L’ultimo fine settimana di settembre si è svolto a Paraloup, la piccola borgata di montagna della Valle Stura, in Piemonte, protagonista della Resistenza ora rinata come centro turistico-culturale, la “Scuola di memoria attiva”. Tre giorni intensi, organizzati dalla Fondazione Nuto Revelli in collaborazione con  Rete del ritorno e Simbdea, dedicati al ruolo propulsivo che può avere la memoria in operazioni di ritorno alla vita in luoghi marginali, come per esempio quello montano.

Venerdì 29 i relatori, provenienti da tutta Italia grazie al coinvolgimento della “Rete dei piccoli paesi” tessuta dal prof. Pietro Clemente, sono stati accolti con una visita al percorso multimediale “Montagna in movimento” allestito all’interno del Forte albertino di Vinadio e valorizzato dalla Fondazione Artea: un’immersione visiva ed emozionale nella storia delle montagne cuneesi che le ha svelate nel suo complesso, agli occhi di chi veniva da lontano, sotto il profilo artistico, culturale, tradizionale, storico. La serata è proseguita nella Caserma Carlo Alberto con le vibrazioni sonore di “Vox celli”, concerto per violoncello solo del bravissimo Lamberto Curtoni.

Un-momento-della-Scuola-che-a-fine-settembre-ha-coinvolto-la-rete-dei-piccoli-musei-ph.-Fondazione-N.-Revelli

Un momento della Scuola che a fine settembre ha coinvolto la rete dei piccoli musei (ph. Fondazione N. Revelli)

La giornata di sabato 29 è stata aperta, la mattina, dalla carrellata dei paesi ospiti della Rete, introdotta da Pietro Clemente, che con instancabile entusiasmo continua a mettere insieme piccole comunità che in angoli nascosti d’Italia si fanno custodi di memorie e tradizioni e promotrici di cambiamento. Si sono ascoltati i racconti di Monticchiello e del suo teatro povero, della Sardegna con Casa Lussu di Armungia e le Realtà virtuose di Padru, di Soriano Calabro con il suo sistema museale che racconta anche il terremoto, dell’affascinante Cocullo con i suoi “serpentari”, per risalire poi fino ad Altavalle in Trentino con i lavori sulla memoria di Puntodoc. Queste comunità si sono presentate a quelle cuneesi dell’Ecomuseo della pastorizia di Pontebernardo, raccontata da Stefano Martini, e del progetto Una casa per Narbona, presentato da Angelo Artuffo e Flavio Menardi Noguera. Un intervento di Mario Cordero, intitolato “C’è museo e museo” ha poi illustrato l’idea originale per l’allestimento del Museo dei racconti di Paraloup, che proprio da un giacimento di memoria prende le mosse per “far parlare” un luogo-testimone.

Nel pomeriggio di sabato Antonella Tarpino ha approfondito il significato della Scuola di memoria attiva: una “scuola” che non sia trasmissione verticale di saperi ma condivisione di elementi cruciali della tradizione e della memoria collettive che possano diventare le fondamenta e, perché no, l’innesco stesso del cambiamento di una società resiliente che torni ad abitare i “troppi vuoti” della geografia italiana. Un ritorno ai luoghi marginali non come movimento all’indietro ma, anzi, come riappropriazione di una memoria che restituisca identità, un’identità che sia da slancio per la costruzione di nuove comunità, di nuovi mondi in grado di riabitare luoghi a torto rimasti ai margini. Renato Grimaldi e Antonella Saracco hanno poi portato un caso specifico: quello, mostrato in un emozionante filmato, del ritorno in un piccolo paese delle Langhe dei paracadutisti americani che, durante la Seconda Guerra Mondiale, avevano collaborato con i partigiani per mettere in atto le azioni in grado di porre le basi per la liberazione di Alba: un caso pratico di ritorno attraverso la memoria. Lucia Carle ha quindi fatto da trait d’union fra le relazioni introduttive del pomeriggio e la sessione di brainstorming presentando il caso esemplare dell’Archivio sonoro di Nuto Revelli: un serbatoio di oltre mille ore di testimonianze, da poco restaurate e digitalizzate, che può servire (letteralmente) alle comunità in ricostruzione delle valli cuneesi per “fare pace” con la propria storia e la propria memoria e per sviluppare strategie consapevoli di ritorno. La sessione di braistorming, moderata da Beatrice Verri, ha lasciato scritte sulla lavagna alcune parole-chiave da cui partire come tracce per possibili percorsi di lavoro. Eccone alcune: memoria attiva e passiva, vecchi e nuovi testimoni, scuola come veglia, responsabilità, strumenti di accompagnamento della scuola (archivio sonoro), partecipazione della comunità, catene creative, accompagnamento alle scuole, dialogo con la politica, montagna bene comune, rinascita della montagna, infrastrutture e servizi in montagna, mobilità sostenibile.

Domenica la mattinata è stata dedicata al rapporto fra arte, architettura e montagna, con il coordinamento di Daniele Regis del Politecnico di Torino. Sono state inaugurate tre mostre temporanee che resteranno esposte a Paraloup fino al mese di dicembre:

· A.L.P. S Atelier e Laboratori per il Progetto Sostenibile, Il Politecnico di Torino e la Valle Stura;

· Un’alleanza italo francese, progetti per il Colle dell’Agnello;

· A passi lenti Progetti nelle Alpi del Piemonte sud occidentale e nelle Alpi francesi;

· Paraloup e il premio Architetti Arco Alpino 2017. Le Alpi Apuane e dintorni: un percorso in immagini e versi di Claudia Ciardi;

· Paesaggi disegnati Opere dello studio C&C di Paolo Albertelli e Maria Grazia Abbaldo.

In conclusione, la Scuola di memoria attiva è riuscita, anche grazie al contributo della Rete dei piccoli paesi –  che ormai al suo quinto raduno è diventata una comunità a sé in grado di creare relazioni e percorsi – a porre le basi per un indirizzo utile dell’uso vitale e attivo dei serbatoi di memoria.

Dialoghi Mediterranei, n.28, novembre 2017

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Pietro Clemente, professore ordinario di discipline demoetnoantropologiche in pensione. Ha insegnato Antropologia Culturale presso l’Università di Firenze e in quella di Roma, e prima ancora Storia delle tradizioni popolari a Siena. È presidente onorario della Società Italiana per la Museografia e i Beni DemoEtnoAntropologici (SIMBDEA); direttore della rivista LARES, membro della redazione di Antropologia Museale, collabora con la  Fondazione Archivio Diaristico Nazionale di Pieve Santo Stefano. Tra le pubblicazioni recenti si segnalano: Antropologi tra museo e patrimonio in I. Maffi, a cura di, Il patrimonio culturale, numero unico di “Antropologia” (2006); L’antropologia del patrimonio culturale in L. Faldini, E. Pili, a cura di, Saperi antropologici, media e società civile nell’Italia contemporanea (2011); Le parole degli altri. Gli antropologi e le storie della vita (2013); Le culture popolari e l’impatto con le regioni, in M. Salvati, L. Sciolla, a cura di, “L’Italia e le sue regioni”, Istituto della Enciclopedia italiana (2014).
Beatrice Verri,  ha studiato a Torino ed è laureata in Filologia italiana nella Facoltà di lettere, già traduttrice editoriale, è direttrice della Fondazione Nuto Revelli, per cui coordina il progetto di recupero della borgata Paraloup (www.paraloup.it) e il laboratorio-archivio L’anello forte sulla memoria femminile. Collabora con la Rete del ritorno ai luoghi abbandonati (www.retedelritorno.it). Ha curato la redazione dei volumi della collana Quaderni di Paraloup e il volume Resistenze. Quelli di Paraloup.

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