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Le diatribe social e il teatro del degrado
Posted By Comitato di Redazione On 1 luglio 2020 @ 01:55 In Cultura,Società | No Comments
La mia generazione ha un trucco buono: critica tutti per non criticar nessuno (Baby fiducia, M. Agnelli, 1999).
Non ne volevo parlare. L’ennesima disamina social come limbo nel quale scivolare con facilità e sicumera. Poi i fatti di cronaca, la liberazione di Silvia Romano su tutti, hanno smosso qualcosa, una riflessione sul profondo degrado comunicativo e divulgativo come pericolosa deriva da riconoscere immediatamente. L’abitudine al contraddittorio, dentro a tribunali diluenti e svilenti, ha inevitabilmente creato assuefazione al punto di dover alzare il tono di qualche decibel rispetto alla volta precedente per sentirsi appagati. Pensavo a tutti coloro che leggo giornalmente, ai modi e ai contenuti di esternazioni che si riproducono sempre allo stesso modo: accade qualcosa, qualcuno ne parla bene, qualcuno ne parla male e subito dopo la questione si sposta sulla diatriba stessa, eludendo il dibattito e le analisi di sorta. Qualcuno offende qualcun altro, subito. Nel frattempo, c’è chi non se ne occupa ritenendosi al di sopra delle parti e custodendo la sua posizione all’interno della cerchia di contatti con cui ama intrattenersi e interagire, categorie protette. Rappresentazione sociale con bassissimi gradi di elaborazione concettuale, quadri interpretativi di cui si serve il senso comune per collocarsi all’interno di questo circo-lo sociale.
Mi sono interrogato sull’utilità delle proposte facebookiane e sulle diverse possibilità che queste possono produrre nell’interazione e valutazione dei fatti. Il risultato è spesso quello rimarcato dalla mia citazione: criticare tutti per non criticare nessuno. Dissenso facile e immediato come cassa di risonanza di bacheche monocromatiche, vetrine addobbate di superfluo. I like per rispetto, spolliciamento veloce in favore di chi se lo aspetta, garanzia di una personalissima claque che fomenti il proprio ego. Dissenso repentino, dunque, ed endorsement strategici come facce sbiadite e spersonalizzate di una medaglietta di cartone. La condivisione, termine quanto mai improprio, diviene l’emblematica rappresentazione di un inganno epocale: illusione di chi, appoggiandosi sul pensiero degli altri, si mette al sicuro, protetto dai margini di un branco che lo dequalifica.
Gli eventi raccontati e veicolati tramite social incoraggiano un’economia sinaptica ancorata ad una diegesi prevedibile, il trionfo del sentimentalismo crudo che cavalca l’efficacia di dispositivi emozionali pronti ad implodere in rappresentazioni incarnate nell’identico topos letterario. Liberi dall’onere di originare, schiavi di una dipendenza alienante, attori in un gioco delle parti che funziona per opposizione e delegittima il valore autorale nell’eco di un citazionismo inflazionato. Si ricama su pezzi di opinioni da montare come parti di un mobile Ikea del quale abbiamo metabolizzato le istruzioni di assemblaggio senza accorgercene. L’incipit è quasi sempre il contraddittorio che indossiamo, un falso d’autore che rema con forza verso l’anti-positivismo e non cura certificati di provenienza.
Mi è sembrato interessante riprendere un articolo di Francesco Farabegoli datato 5 dicembre 2017 dal titolo Ed è polemichetta, come esempio di abitudine alla polemica contraddittoria all’interno dei social. Nel testo l’autore prende spunto da un evento: un bellissimo tramonto a Milano, e dalla sua condivisione nelle bacheche di Facebook. Quello che si verifica immediatamente dopo è emblematico.
Sarebbe fin troppo facile calcare la mano sui bordi indefiniti di personalità asfittiche, che celebrano la propria presenza timbrando il cartellino giornaliero con gli auguri del giorno. Ho riflettuto molto sull’eventualità di ribadire un dissenso che rimbalza ormai nel dire collettivo sottoforma di sentenza fastidiosa, quella di chi si pone una spanna sopra tutto e tutti per ribadire la propria superiorità intellettiva, l’acume critico delle sue affermazioni e i giusti metodi di ricerca attraverso adeguate fonti. Ritengo, però, che alcuni eventi debbano obbligatoriamente concederci una pausa di riflessione, di quelle pericolose e dalle quali spesso non si torna.
Il 9 maggio la liberazione di Silvia Romano. Un fatto altamente significativo se non altro per il momento storico in cui avviene: gli italiani dopo mesi di notizie drammatiche e infauste, dopo promesse urlate dai balconi e manifestazioni di inaspettato patriottismo, riabbracciano una connazionale rapita, una giovanissima donna che torna a casa dopo mesi di silenzio e timore. L’occasione giusta, al momento giusto, per sporgerci ancora una volta dal balcone, per lenire le ferite e le sofferenze rappresentate dalla distanza. Mi concentro ancora una volta su cause ed effetti di tutto ciò che leggo e, col rischio di scivolare in eziologia spiccia, rilevo le stesse dinamiche di sempre; la sofferenza dei giorni passati svanisce grazie alla voglia di giudicare l’altro, l’odio diventa una cura miracolosa negli effetti di una rapida convalescenza.
Non mi soffermo sugli eventi che accompagnano il giorno dell’arrivo di Silvia in Italia, sono ormai noti. Ci sarebbe molto da scrivere rispetto al vomito mediatico che ha accompagnato l’intera vicenda, ma vorrei non crollare nell’esternazione rancorosa a sostegno dell’ovvio, troppo facile sedersi su ignoranza e disagio sociale facendosi paladini dei diritti umani. Mettere in evidenza l’inaccettabilità costituzionale, etica e culturale di certe manifestazioni d’odio sarebbe come sparare sulla Croce Rossa, sebbene questa continui a produrre inaspettato consenso gravando sulle spalle di chi ne sente tutto il peso. Mi accorgo, così, che anch’io sono assuefatto da certa carica emotiva e lascio scivolare qualsiasi amenità sulla pelle, stalattiti di una propaganda che esclude la dignità a priori.
La realtà non muta, nonostante tutto. Effetti prevedibili di una pandemia che non ci ha cambiati, legittimando l’acrimonia che avevamo dentro da tempo. Colpi di tosse che rivelano l’impostura della nostra essenza e caricano a pallettoni un fucile puntato contro il nemico di turno, capro espiatorio dei soliti noiosi e prevedibili sfoghi da pronunciare a memoria durante gli intimi processi del giorno dopo. Abbiamo sventolato il tricolore dalle finestre per rappresentare tutta la nostra ipocrita e inconsistente dottrina e, sotto le candide vesti del cristiano viejo, avremmo voluto percepire una sofferenza adeguata nelle immagini in diretta da Ciampino, degna di una martire e dei soldi spesi.
L’effetto della polemica continua e autocelebrativa non è l’unico segnale di disagio sociale e degrado intellettivo prodotto dai social. La dinamica razionale generata da queste piattaforme sta letteralmente modellando le nostre azioni quotidiane con esiti negativi sul processo di apprendimento di ognuno. Lo span d’attenzione si è ridotto notevolmente, siamo abituati a scorrere attraverso centinaia di immagini ogni giorno, il cervello è riprogrammato per stabilire velocemente quali sono quelle che veicolano informazioni da approfondire. Dall’altra parte chi pubblica è consapevole di avere pochissimo tempo, un battito di ciglia, per colpire lo spettatore affinché approfondisca soffermandosi su un’immagine, un video, o una breve lettura. La comunicazione, tutta, è riprogrammata per attirare in qualche secondo i possibili fruitori facendo leva su sentimenti primari come paura, eccitazione sessuale, curiosità. Nessuno sta più fermo a pensare, è un bombardamento di informazioni che ci sovrastimola creando continui deficit dell’attenzione.
Così i meme valgono più di qualsiasi riflessione e ricerca storica. Sull’argomento “Romano” ne trovo di inaccettabili, a sostegno di una volgare e immorale estetica del turpiloquio che si nasconde dietro ad una confusa ed impropria libertà d’espressione. Il problema, ahimè, non è unicamente legato all’offesa testé rilevata, bensì all’inappropriatezza dei contenuti, funzionali a sollecitare l’ilarità di un vasto pubblico solerte e responsivo alle proposte del cretino, per usare un eufemismo, di turno.
Tutto ciò chiaramente ci rende isterici ed emotivamente dipendenti. Il nostro cervello, in particolare quello dei più giovani, si sta riprogrammando per non pensare. Gli spot erano nati sfruttando i meccanismi della tempistica, brevi ed efficaci. Catturano l’attenzione sempre più rapidamente come in una sfida tra chi è tentato di cambiare canale, pagina o stazione radio e chi invece cede alla curiosità e concede il proprio tempo
Forse il deficit cognitivo è causato da un nuovo processo di formazione dell’individuo. Com’era bello privilegiare rapporti diadici, scorrere le caselle dei citofoni condominiali scoprendo i cognomi materni di tutti i nostri conoscenti. Com’era facile trovarsi d’accordo, uniti nell’esigenza aggregante nei tentativi di recupero dei supersantos incastrati negli anfratti più pericolosi del pianeta. Jack London diceva che «l’adolescenza è l’epoca in cui l’esperienza la si conquista a morsi», in questo caso, però, la vittima di tale voracità rimane l’argomentazione e il pensiero individuale. Hannibal Lecter con l’IPhone in tasca, dito veloce come sfogo di una rappresentazione smargiassa, vissuta con più o meno pertinenza.
La conseguenza è una confusione epocale: giovani che si danno un tono condividendo musica e prosa di altri tempi adducendo ad una ricchezza culturale smart e tutta da verificare. Meno giovani che sciorinano foto improbabili nel tentativo di strappare facili e dovuti complimenti prima del pisolino pomeridiano. Certificati di anacronismo e improvvisati fruitori di neologismi sotto l’eco dei frequenti «ok boomer!». Tutti in fila, ognuno con i suoi evidenti disagi, pronti e adusi al fuoco amico. Consoliamoci nell’accogliere tale, terribile tendenza come non del tutto nuova:
Non bisogna scavare in profondità per comprendere quanto tali congegni inquinino qualsiasi argomento tocchino e il trend sempre più diffuso risulti una sorta di «mordi e fuggi» controproducente ai fini di analisi e verifica. La censura, contro la quale l’uomo ha combattuto per secoli, oggi è talmente lontana che quasi ci manca. Poter parlare e soprattutto pubblicare ciò che vogliamo, ai limiti della legalità, ha sconvolto il modo di immaginare la nostra privacy, ma ha anche immesso in circolo una serie di pretese pericolose. Tutti possiamo parlare di tutto, un concetto che definire antidemocratico non risulta ossimorico per gli effetti immediati del dibattito da talk show che produce, in cui vince chi ha l’ultima parola, quasi mai quella giusta. Un duello in cui nessuno conta dieci passi prima di voltarsi e in cui i colpi vanno tutti a segno, registrati per sempre nella memoria collettiva, non volatile e ricattante. Riprendendo Le Bon, «Esagerare, affermare, ripetere e mai tentare di dimostrare alcunché con il ragionamento […]» (1895:76).
Così arrivarono i giorni del lockdown, tempo in più per pensare, leggere, significare ed esprimere le nostre inutili opinioni. Tanti i fatti di cronaca emotivamente significativi che richiamano con urgenza al compito ineludibile che ci impegniamo a portare avanti, noi moralizzatori e tuttologi pronti a realizzare il sogno di una vita: dispensare consigli e indottrinare una platea di finti amici con le nostre geniali intuizioni. In realtà, il prodotto di tali polluzioni è quasi sempre una bacheca dove si passa fin troppo in fretta dalla condivisione di drammi epocali ai consigli su come preparare il tofu. Una sceneggiatura horror degna di nota, il villaggio perbenista a sostegno del pervertito che si nutre di sangue e corpi dietro alla porta da non aprire. Facce pulite, complici di continue ghettizzazioni, si muovono con affanno alla ricerca degli standard minimi per rimanere nel giro, un pugno di centinaia di amici mai visti.
In questo, Facebook diventa lo strumento per eccellenza, un mezzo efficace con cui appiccicarsi addosso tutte le informazioni possibili. Le nostre sponsorizzazioni come proposte, apparentemente fuorvianti, che rivelano la vera essenza di ognuno e il fallimento delle auto categorizzazioni collettive, aspirazioni mancate, fallimenti identitari.
Alla fine, però, eccoci ancora qua consapevoli del fatto che in fin dei conti è all’interno del social che matura la percezione del pensiero comune, anche l’intolleranza verso lo strumento stesso. Una sorta di grande contenitore che accetta anche i disertori. Oggi rimane un veicolo essenziale e il mio scrivere, ovviamente, presuppone analisi e conoscenza dello stesso mezzo che demonizzo.
Comprendo come queste righe palesino un fastidioso presupposto, una frequentazione adultera. In realtà, da antropologo, rimango estremamente attratto dai fatti umani. La stupidità ha una tale profondità che non smette di stupirmi e lo stupore, mio malgrado, crea dipendenza. Combatto colpevolmente la noia di questi giorni affondando le dita nel fango di insulse manifestazioni collettive, scruto e assorbo tutte le incoerenze e le carenze dello scemo del villaggio, il villaggio degli scemi. E mentre ammiro i residui sotto le unghie mi beo come un bambino al luna park al quale viene concesso un giro gratuito sulla ruota panoramica più alta del mondo. Sorrido nel percepire i meccanismi che veicolano amicizie e iterazioni convinto del fatto che nessun social è socializzante bensì rappresenti un’eterotopia foucaultiana che comprende piccole, medie e grandi comunità. In un meccanismo perverso queste aggregazioni aumentano il grado di autostima rimbalzando esternazioni che rinforzino il proprio status, insomma si credono le migliori proponendo una fabula scontata e un intreccio categorizzante che funziona per confronto. È l’inganno dei moderni contatori a convincerci di avere un seguito, una panic room per sociopatici in cui la cura, a volte, è peggio della malattia.
Una volta destrutturati siamo carne da macello. Si verifica una vera e propria autodistruzione identitaria in cui l’empatia si trasforma in emulazione farneticante.
In questo stato confusionale nuovi miti e leggende all’interno di un Paese caleidoscopico dove teniamo conservate bandiere e lenzuola commemorative il giorno in cui manifestiamo vecchia intolleranza e solita agghiacciante reprimenda. Gli insulti ci appagano e godiamo nella valutazione del consenso negli effetti di un rinforzo vicariante che ci proietta verso nuove mete, giudizi no-filter e commenti sempre meno morigerati. Un ritorno al pensiero magico che propina un’idea tanto demagogica quanto pericolosa: è lecito scrivere, e condividere pubblicamente, ciò che si vuole. Nessuna esigenza di verifica o specializzazioni del caso nella proposta di un sottotesto ovvio e condiviso, il diritto di firma e di argomentazione per sentito dire. Il risultato è la critica fine a sé stessa, annacquante e svilente. Il 4 febbraio del 2004 l’avvio di un’esperienza che avremmo definito quantomeno distopica qualche decennio fa. Questa prende spunto da un’intuizione geniale: per sconfiggere definitivamente i principi libertari della democrazia basta dare parola a tutti e confinarli nelle prigioni dell’intolleranza.
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