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Le “comunità di eredità” come democrazie del fare

copertinadi Alessandra Broccolini

Il dibattito antropologico che si muove intorno al patrimonio culturale, da diverso tempo si interroga sul cambiamento intervenuto negli ultimi anni, portato soprattutto dalle Convenzioni, in primis quella UNESCO del 2003, la Convezione per la Salvaguardia del Patrimonio Culturale Immateriale, che ha spostato in modo sostanziale l’attenzione dall’oggetto materiale (il bene), dal monumento, alle pratiche, quindi al processo e agli aspetti immateriali. È stato definito un anthropological turn nel campo del patrimonio [1], che ha mostrato che ciò definiamo come patrimonio culturale non è qualcosa che esiste indipendentemente dai processi, non è un’essenza, un “dato” metastorico, ma è parte attiva dei processi sociali, della vita sociale della gente comune e dei gruppi, che coinvolge nella sfera pubblica istituzioni politiche e società civile in un complesso intreccio di pratiche, interessi, significati, affetti e conflitti che in genere costituiscono l’oggetto delle analisi antropologiche. A questo flusso va quindi restituito e in esso va collocato e riconosciuto.

Questo mutamento di prospettiva sul patrimonio, se è centrale come pratica di ricerca [2], in Italia si fa ancora fatica a riconoscerlo a livello non solo istituzionale, ma anche di mainstream, con l’antropologia che si trova spesso costretta a lavorare al margine, non certo aiutata da un Codice dei Beni Culturali e del Paesaggio ancorato ad una dimensione oggettuale e conservativa che non lascia molto spazio a letture processuali, al ruolo delle comunità e all’immateriale, tantomeno a sguardi e spiragli di letture critiche. È tuttavia un mutamento di prospettiva che non trova concordi gli addetti ai lavori, soprattutto quella antropologia critica che vede negli strumenti internazionali che abbiamo menzionato una nuova forma di egemonia e di essenzializzazione culturale dettata da macro processi di tipo politico-economico [3]. E non sono mancate critiche e diversi momenti di dibattito, soprattutto in relazione alle Liste UNESCO delle quali abbiamo discusso le criticità e le contraddizioni, sottolineandone i rischi, ma anche le potenzialità [4].

Una delle conseguenze che questo scenario in mutamento sta producendo è però quella di sottrarre il patrimonio culturale al solo dominio delle competenze esperte, restituendo legittimità ai soggetti protagonisti, ai territori, alle comunità, come anche ai gruppi e agli individui evocati dalla Convenzione del 2003, con tutta la complessità che ciò significa sul piano della ricerca. Si tratta di uno scenario che, almeno nelle intenzioni (o almeno nelle sue retoriche), ha messo i soggetti più al centro (comunità, territori, gruppi, cittadini) rispetto al passato ed ha quindi spostato la definizione del patrimonio – nella sua accezione di patrimonio immateriale – all’elemento in sé alla forma di vita. Tale cambio di passo nello scenario internazionale è stato ribadito e rafforzato anche a livello europeo dalla Convenzione Quadro sul Valore dell’Eredità Culturale per la Società (Convenzione di Faro 2005), che ha introdotto all’articolo 2 una espressione che è diventata “virale”, oggi si direbbe, quella di heritage comunities (comunità di eredità): «una comunità di eredità è costituita da un insieme di persone che attribuisce valore ad aspetti specifici dell’eredità culturale, e che desidera, nel quadro di un’azione pubblica, sostenerli e trasmetterli alle generazioni future».

La-Mascarata-serinese-Serino-ai-Cento-Carnevali-Irpini-Avellino.

La Mascarata serinese, Serino ai Cento Carnevali Irpini, Avellino

Sull’enfasi posta dalle Convenzioni internazionali sulle comunità “di eredità” (ma anche su gruppi ed individui), sui processi e sulla trasmissione abbiamo scritto ormai diversi contributi e avviato diversi dibattiti sia nell’ambito del lavoro che l’associazione SIMBDEA, la Società Italiana per la Museografia e i Beni Demoetnoantropologici [5], sta conducendo da diversi anni sul patrimonio culturale immateriale, ma anche attraverso i numeri della rivista Antropologia Museale [6]. Al di là delle criticità che sono nella traduzione in italiano del termine heritage communities (comunità “di eredità” o “patrimoniale”), la definizione che viene data di questo concetto sottolinea con chiarezza la dimensione processuale e politica del patrimonio, sia perché vediamo in essa un «insieme di persone che attribuisce valore ad aspetti specifici», e perché il patrimonio «si sostiene e trasmette nel quadro di un’azione pubblica». Si tratta quindi di una definizione che non separa il patrimonio oggetto dal suo farsi nell’agire sociale dei soggetti. E attraverso questo shift  il patrimonio culturale entra nella sfera dei diritti, in primis dei Diritti Umani.

In questo senso, come aveva suggerito qualche anno fa l’antropologo brasiliano Antonio Arantes in un convegno veneziano [7], la Convenzione di Faro appare più inclusiva rispetto alla Convenzione UNESCO perché presenta un quadro di soggetti articolato, di mediazione, un quadro sostanzialmente politico che converge sulla società civile, laddove colloca il patrimonio culturale in un quadro: «giuridico, finanziario e professionale che permetta l’azione congiunta di autorità pubbliche, esperti, proprietari, investitori, imprese, organizzazioni non governative e società civile» (articolo 11). Non più quindi l’enfasi sull’”elemento”, sull’oggetto (anche immateriale), da tutelare, conservare, documentare da parte degli esperti, ma l’enfasi è sui soggetti collettivi che si “prendono cura”, appunto le comunità patrimoniali, sia quelle che nascono avendo come finalità consapevole quella della “presa in cura”, ma anche soggetti già esistenti che sono diventati coscienti della loro finalità del “prendersi cura” in uno scenario più ampio.

Carnevale Princeps Irpino 2014.

Carnevale Princeps Irpino 2014

Prendersi cura

Prendersi cura di qualcosa che sentiamo ci appartiene, questa mi pare la parola chiave. Che sia un elemento espressivo, che siano più elementi eterogenei materiali, immateriali o entrambe le cose, che sia un piccolo paese. È in questa consapevolezza del “prendersi cura”, che possiamo leggere la cifra di attualità del patrimonio culturale nel contemporaneo. Ed è in essa che si realizza quella dimensione politica della nozione di comunità patrimoniale intesa come forma di “democrazia del fare”. Oggi, infatti, chi si muove nel campo delle espressioni immateriali e dei territori si alimenta di una energia nuova: c’è una nuova consapevolezza valoriale, si beneficia di nuovi strumenti di condivisione, c’è un allargamento dello sguardo (i social network, le reti) e c’è il senso di un esserci e di condivisione nell’ecumene globale che in precedenza si esprimeva in modi e forme differenti, che andrebbero maggiormente esplorati.

Non so dire se sono state le Convenzioni internazionali ad avere determinato un’accelerazione in questa direzione, stimolando un nuovo protagonismo (anche strumentale) dei soggetti locali, o se sia stato il contrario e cioè se l’universo delle Convenzioni abbia invece intercettato un cambiamento in atto. Comunque sia, stiamo attraversando una fase importante (ancora probabilmente di nicchia), di presa di coscienza dei soggetti collettivi territoriali di una volontà di prendere voce in una scena globale e di fare sentire questa voce attraverso forme di patrimonio che non sono solo il portato di una elite e della sua storia, della sua sensibilità, ma che appartengono alla gente comune. In passato, negli anni Settanta e Ottanta, erano le “politiche dell’identità”: quelle dei diritti civili, delle identità etniche, indigene; la variabile era quella della razza, della cultura, del genere. Erano questi gli assi che orientavano queste “democrazie del fare” in una chiave culturalista e che in Italia orientavano il dibattito sulla cultura popolare in una prospettiva politico-sociale tra critiche dell’egemonia e valorizzazione della subalternità. Oggi è, al contrario, la dimensione del territorio, in una forma più inclusiva rispetto al passato, meno esclusivista, culturalista, più svincolata per certi aspetti dal paradigma della subalternità sociale, ma più consapevole forse – o perlomeno nei casi più virtuosi – di un valore civile del proprio agire e del proprio fare “cultura”.

Ed è un mondo complesso quello delle “comunità” che si muovono intorno al patrimonio, che da un lato ci mostra l’universo delle candidature UNESCO, dove si moltiplicano i casi di riattivazione di soggetti collettivi che si muovono per o intorno alla candidatura per il patrimonio immateriale, dove ad essere centrale nell’azione collettiva è l’”elemento” da iscrivere e da salvaguardare, che a volte diventa strumentale (e conflittuale, dunque politico) per raggiungere il fine, ma che vediamo nel percorso può attivare forme del fare comunità. Dall’altro lato invece si moltiplicano esperienze che non sono finalizzate al riconoscimento di un “elemento”, che non hanno l’obiettivo strumentale di un’iscrizione internazionale e che anzi paiono volersi smarcare da questo orizzonte. Ma vogliono agire nello spazio pubblico, reale o virtuale, per ridare centralità ai luoghi, per un ritornare o un rimanere nei luoghi più periferici, che a volte è anche un ritorno alla terra, alla ruralità. Sono esperienze locali che hanno come finalità quella di agire localmente spesso senza un fine strumentale, utilitaristico (l’iscrizione alla Lista, la carriera di un sindaco, fare arrivare più turisti), ma per un bisogno di riconoscimento, per vedere riconosciuto il territorio e il suo prendersene cura. E che a volte si organizzano in esperienze di rete. Il successo delle reti territoriali, che si vanno diffondendo nei territori, complice anche la facilità di stabilire connessioni “inter” (nazionali, regionali, territoriali, ecc.) amplia molto la casistica di queste nuove forme del fare comunità.

3Per uno studio delle “comunità patrimoniali”

Dal punto di vista di una antropologia che voglia mantenersi in equilibrio tra una vocazione critico- etnografica ed una vocazione di ascolto delle esperienze (e delle richieste) territoriali, come si può impostare una riflessione, uno studio, un’analisi in questa direzione? Sicuramente è importante mappare le esperienze, conoscerne la genesi – soprattutto delle nuove realtà patrimoniali –, collocare la loro nascita o trasformazione dentro un quadro anche storico-sociale. Vedere come questi soggetti collettivi si muovono nello spazio pubblico, politico, sociale, quali sono, se ci sono, differenze regionali, se c’è una componente di storia locale, regionale che può darci indicazioni su posture e modalità di azione locale. Nell’ultimo numero di Antropologia Museale (n. 37-39) abbiamo cercato di riflettere su questo tema; abbiamo chiesto ai nostri colleghi di darci il loro sguardo dai campi di lavoro. Ed abbiamo lanciato alcuni temi di riflessione, ad esempio il rapporto tra movimentismo e istituzionalizzazione che interessa le nuove forme del fare comunità. In che misura i soggetti che si attivano nelle pratiche della “presa in cura” del patrimonio (soprattutto nelle sue forme immateriali), a livello locale e di rete, rifiutano il riconoscimento istituzionale e risuscitano stili di movimento e di democrazia diretta? E perché in altri casi, invece, assistiamo a processi di istituzionalizzazione, di formalizzazione (e a volte di invenzione istituzionale) di forme aggregative politicamente o economicamente orientate? Così come interessanti sono anche i percorsi creativi e inventivi che si attivano intorno al patrimonio, oppure il tema della partecipazione, o ancora quello del conflitto. E la casistica è ampia; chiunque operi sui territori intorno a questi campi, spostando l’attenzione dall’”oggetto” ai “soggetti”, nella sua esperienza di ricerca deve averne incontrati molti di fermenti e di frizioni territoriali intorno a “comunità patrimoniali”.

Se ripercorro la mia esperienza sui territori, se dagli “elementi” che per molti anni ho osservato catalogando e documentando beni demoetnoantropologici, mi sposto sui soggetti attivi che queste pratiche esprimono e organizzano, vedo aprirsi un mondo nuovo. Quando si lavora ad esempio sulle feste, la tendenza al “prelievo” dettata dalle esigenze istituzionali della catalogazione porta spesso a concentrarsi sulle dinamiche festive in sé, sui suoi aspetti esteriori, o simbolici, ma lascia nell’ombra il fermento di soggetti collettivi che si muovono intorno alle feste. Sono fermenti contemporanei, che non si risolvono solo in conflittualità politiche, in biechi interessi economici o di visibilità pubblica per esigenze strumentali, ma coinvolgono l’agire nello spazio pubblico, l’inventiva, l’investimento creativo, affettivo, immaginativo, relazionale, come anche l’attivazione di nuove relazioni “inter” territoriali, e molto altro ancora.

Lavorando ad esempio, sui carnevali in Campania, in Irpinia ho incontrato un grande fermento di soggetti aggregativi vecchi e nuovi che stanno portando alla nascita di reti tra paesi che praticano il carnevale, più reti, diverse e a volte in conflitto tra loro che attraversano i paesi; anche questi sono piccoli paesi, tutti segnati dall’esperienza del terremoto dell’80, che si uniscono attraverso la pratica del carnevale [8]. Qui si assiste ad una doppia presenza di “comunità di eredità”, quella associativa più “antica” del post terremoto che ha segnato la ripresa dei carnevali tradizionali superando le vecchie forme del “fare carnevale” legato a gruppi familiari e che ha visto riaggregare negli anni ’80 la generazione dei più giovani intorno alle macerie per recuperare ciò che il dramma della distruzione pareva aver portato via. E quella più recente e “globale” delle reti [9], nate da pochi anni, che si muovono attraverso scambi di comunità carnevalesche tra paesi, ma anche con una forte presenza sui social e con progetti più orientati verso l’organizzazione di eventi e di azioni performative consapevoli del valore di patrimonio immateriale. Il caso irpino mi pare interessante perché ci permette di vedere una sorta stratificazione, sia orizzontale (le reti) che verticale (l’associazionismo locale interno ai paesi) tra vecchie e nuove comunità patrimoniali, nate in periodi diversi negli stessi territori e da soggetti che operano con differenti “stili” patrimoniali, ora più controculturali, ora invece più istituzionalizzati, con il risultato di inevitabili conflittualità.

Pianellu (Corsica), agosto 2009 Festa di S. Vincente e la Confraternita del SS. Crocifisso

Pianellu (Corsica), agosto 2009, Festa di S. Vincente e la Confraternita del SS. Crocifisso

Le esperienze di rete attraversano in modo consistente il campo delle comunità di eredità, alcune sono anche decollate nel mondo UNESCO, come la Rete delle Macchine a Spalla che unisce più comuni caratterizzati da feste con macchine processionali portate a spalla (Nola, Viterbo, Sassari e Palmi), iscritte alla Lista Rappresentativa UNESCO nel 2012. C’è anche la rete delle “comunità ludiche” guidata dall’associazione veronese AGA (Associazione Giochi Antichi) ideatrice del festival Tocatì e oggi connessa in rete con altre associazioni internazionali e proiettata verso una candidatura UNESCO ” di rete nel Registro delle Buone Pratiche; quindi una rete di comunità ludiche nazionali nata da un territorio locale (Verona) che dà vita ad una rete internazionale. E c’è il mondo degli Ecomusei di comunità, che spesso aggregano più comunità e più soggetti al loro interno, ma sempre più “connessi” tra loro; vale per tutti la rete Mondi Locali oggi confluita nella piattaforma mondiale Drops [10].

Anche altri soggetti, meno noti forse nello scenario dell’heritage, si muovono vivacemente in questa direzione. Il mondo delle confraternite e delle fratellanze, ad esempio, può apparire molto interessante allo sguardo patrimoniale delle “comunità di eredità”, non solo per ciò che riguarda gli aspetti più propriamente religiosi, ma soprattutto per la crescente consapevolezza di un agire sociale che sempre più si va connettendo al dialogo con il patrimonio immateriale e con le sue comunità di studiosi. Antiche forme aggregative, confluite nel tempo nei più attuali processi di rete dell’associazionismo nazionale e internazionale [11] che rivitalizzando in chiave contemporanea le antiche pratiche della solidarietà, della beneficienza, ma anche delle forme espressive (festa, canto, etc.) attraverso la dimensione spirituale e religiosa si aprono alla “presa in cura” non solo dei loro membri, ma anche delle loro forme espressive e relazionali. Ne abbiamo fatto esperienza con l’associazione SIMBDEA quando abbiamo sostenuto la nascita di una rete tra confraternite dell’area mediterranea tra Sicilia, Sardegna e Corsica, unite dal canto polifonico; un progetto che ha preso avvio dai territori, in un paese dell’entroterra siciliano, Mussomeli noto per i canti della Settimana Santa e per una pluridecennale relazione con il mondo degli studi antropologici [12].

Altre confraternite sembrano andare anche oltre il loro campo di azione rituale e musicale proponendo anche esperienze di ritorno alla ruralità. L’esperienza della Corsica, con la quale sono entrata in contatto di recente, mostra un mondo confraternale in forte movimento e rivitalizzazione sui temi del patrimonio immateriale, ma anche su temi della neoruralità e della biodiversità in connessione con i Foyer Rural. Qui è la dimensione della Pieve che agglomera i paesi e le loro confraternite; un’area della Corsica Orientale, della Pieve di a Serra, caratterizzata da piccolissimi paesi, dalla montagna alla piana di Aleria, dove le “comunità patrimoniali” sono le confraternite che dagli anni ’90 stanno lavorando alla risignificazione dei luoghi tra la pianura e la montagna attraverso la centralità del canto, come momento di coesione e di consapevolezza identitaria di pace ed esperienza di spiritualità [13]. È un progetto che al canto polifonico unisce una serie di altri progetti collaterali densi di valori spirituali, la ripresa dell’agricoltura, il ritorno alla terra e alle relazioni primarie, il ripopolamento dei paesi abbandonati, il recupero delle varietà agricole locali, con una forte propensione allo scambio verso l’esterno e all’inclusione.

Roviano-RM.-Museo-della-Civiltà-Contadina.-10.03.2018.-Alcuni-componentidellOsservatorio-sulle-Pupazze-in-Italia-Centrale-composto-da-soggetti-diversi-inclusa-la-sottoscritta-ph.-Migliorini

Roviano (RM), Museo della civiltà Contadina: alcuni componenti dell’Osservatorio sulle Pupazze in Italia Centrale composto da soggetti diversi inclusa la sottoscritta (ph. Migliorini)

Un ultimo esempio, tra quelli che appartengono alla mia esperienza e che si possono portare per esemplificare la complessità del mondo che caratterizza le nuove comunità di eredità, ci porta in Italia Centrale e riguarda un “oggetto” effimero, povero, che caratterizza molte feste di paese tra Lazio e Abruzzo. Sono le “pupazze” (o “Pupe” in Abruzzo), fantocci rituali di fattezze femminili che ballano nelle feste (con un danzatore all’interno) prendendo fuoco a fine ballo. Presenze marginali e povere, frutto di bricolage di paese, ma in alcuni casi vere e proprie macchine pirotecniche, le pupazze/pupe mai prima d’ora erano entrate nel novero degli oggetti patrimoniali, perché a parte un interesse sporadico dal mondo degli studi, mai avevano prodotto progetti connessi al patrimonio immateriale [14]. Di recente hanno dato vita invece – anche loro – ad una esperienza di rete che possiamo definire “mista”, un Osservatorio sui fantocci rituali in Italia Centrale avviato questa volta da un museo demoetnoantropologico, il Museo della Civiltà Contadina di Roviano in provincia di Roma. Del gruppo di rete questa volta fanno parte soggetti molto diversi, studiosi, costruttori locali di pupazze (Roviano, Cappelle sul Tavo, etc.), pro loco di paesi, professionisti (architetti), amministratori locali e artisti (Libera Pupazzeria de l’Aquila), tutti sparsi tra Lazio e Abruzzo. È una comunità eterogenea, che nel “prendersi cura” di questi effimeri, marginali e fragili fantocci rituali e delle loro comunità, ci presenta una buona immagine del presente [15].

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Roviano, museo della civiltà contadina: i costruttori locali della pupazza (ph. Migliorini)

Se il nostro compito come antropologi immersi nei processi di patrimonializzazione è quello di conoscere mondi locali e specifiche democrazie del fare e con esse tracciare andamenti più ampi, forse un ultima considerazione la dobbiamo dedicare al nostro ruolo, al “nostro” fare, che segna un cambiamento di prospettiva. L’antropologia che pratichiamo non può essere più solo teorica e conoscitiva, ma anche di ascolto. Cosa in realtà che l’antropologia avrebbe sempre fatto, ma oggi non ci si può più sottrarre all’engagement, alla condivisione e quindi ad un’azione anche politica. In passato ci si muoveva tra il “prelievo” documentale e la teoria/interpretazione; ciò che era dato dall’engagement con le comunità e con le loro rifrazioni patrimoniali era in qualche modo collaterale alla ricerca/documentazione; esisteva a livello di “impregnazione” [16], ma veniva celato. Le ragioni di questa emergente esigenza “collaborativa” non sono dettate solo da fattori di tipo “etico”, interni all’antropologia, ma ad un cambiamento di scenario della ricerca che rende impensabile il mantenimento di un gap tra analisi critica e mediazione con quelle comunità, gruppi ed individui che oggi sono soggetti attivi nei processi di patrimonializzazione.

Forse si apre uno spazio di rimpianto e di nostalgia per una antropologia svincolata da questa necessità di mediazione, con una ricerca che si fa sempre più ibrida, dove i confini tra chi fa ricerca e chi risiede in un luogo si mescolano, si confondono, dove le “competenze” sono sempre più engaged con le comunità e dove non si possono più fare solo osservazione critica o documentazione, ma si partecipa con i cittadini ai processi di “messa in valore”, spesso anche in veste di cittadini. Non, dunque, solo la costruzione di un discorso scientifico, documentale o critico (che permane come ambito di competenze prettamente antropologiche), ma anche un ruolo di mediazione attivo che metta le proprie competenze e il proprio sapere al servizio della riconoscibilità e della salvaguardia della diversità culturale [17].

Questo diverso ruolo dell’antropologo è ancora tutto da esplorare e da mettere alla prova, con diversi rischi alle porte, primo fra tutti quello di diventare megafono dei nostri interlocutori, ma anche il rischio di un abbassamento delle competenze interpretative e delle capacità di letture “in controluce” di aspetti scomodi e celati, che a volte le comunità mal sopportano, con evidenti rischi di essenzializzazione. Mantenere un equilibrio tra il lavorare “per” e il lavorare “sulle” comunità è certamente difficile, ma la mediazione porta con sé anche la possibilità di una reciproca consapevolezza di sguardi e di confini che può essere utile alle comunità stesse, restando fermi su alcuni punti irrinunciabili sul piano interpretativo e critico.

Dialoghi Mediterranei, n.33, settembre 2018
Note
[1] «The first [reflection] – which nowadays seems quite evident, but was not in the early 1980s when the so called ‘anthropological turn’ in heritage studies was beginning – is that cultural heritage, tangible or intangible, is not a residual reality or legacy that endures persistently at the margins of social transformations. Rather, it is the result of specific social practices that take shape in the realm of the public sphere and involve confrontations and negotiations between government institutions, civil society organizations, academics, economic agents and those who are in possession of protected cultural elements» (Arantes, 2017:265).
[2] es. per l’Italia Palumbo, 2002, 2006, 2009.
[3] Palumbo, 2010.
[4] Es. Bortolotto, 2008:20ss.; Padiglione e Broccolini, 2011.
[5] www.simbdea.it
[6] Per esempio il numero 37-39 di Antropologia Museale dedicato alle “comunità di eredità”.
[7] A. Arantes, “Introduction” to the 2° Session “Cultural heritage inspires”, Cultural Heritage. Scenarios 2015. Paper Preview, Venezia, 25-28 novembre 2015; https://www.unive.it/pag/fileadmin/ user_upload/centri/ cestudir/documenti/pubblicazioni/CulturalHeritage-April2016.pdf: 61.
[8] Broccolini, A. e K. Ballacchino, 2016.
[9] Mi riferisco all’esperienza della Rete dei Cento Carnevali Irpini promossa dsll’UNPLI Avellino e dalla Rete di Carnevale Princeps Irpino, promossa da un’associazione di Montemarano che si estende a numerosi paesi dell’area (www.carnevaleprincepsirpino.com e www.unplicampania.net/unpliavellino/eventi-e-manifestazioni-pro-loco-irpine/i-cento-carnevali-irpini-2017).
[10] Per Mondi Locali: http://www.ecomusei.eu/mondilocali; Per Drops: https://sites.google.com/view/drops-platform/home/home-italiano
[11]es. http://www.confederazioneconfraternite.org/; http://www.confraternite.it
[12] Sono note le ricerche etnomusicologiche sui Lamenti della Settimana Santa a Mussomeli (CL) fin dagli anni Sessanta del Novecento per opera di Elsa Guggino, che hanno dato luogo negli anni Ottanta alle note raccolte della Albatros (Es. I Lamentatori dell’Arciconfraternita del SS: Sacramento alla Madrice. I lamenti di Mussomeli, 1989, Archivio Sonoro 10, con il coordinamento di Elsa Guggino); Macchiarella 1993; Bonazinga 2002-2004.
[13] http://www.cunfraterna-di-a-serra.com/
[14] Broccolini e Migliorini, 2013.
[15] Migliorini, E., 2017.; Broccolini, 2018.
[16] Olivier de Sardan, 2009:31ss.
[17] Clemente, 2013-2014.
Riferimenti bibliografici
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Bonanzinga, S., “Suoni e gesti della Pasqua in Sicilia”, in Archivio Antropologico Mediterraneo, Palermo, 2002-2004, 5:7: 181-190.
Bortolotto, C., “Introduzione”, in C. Bortolotto (a cura), Il Patrimonio immateriale secondo l’UNESCO: analisi e prospettive, Roma, Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato, 2008:7-48.
Broccolini, A. e K. Ballacchino, “Le nuove ‘comunità patrimoniali’ del Carnevale. Le mascarate di Serino e i Carnevali irpini tra permanenze, mutamenti e conflittualità”, in Archivio di Etnografia, n.s., a. X, n. 1.2 2016: 105-140.
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Clemente, P., “L’antropologo giardiniere”, in Antropologia Museale, a. 12, n. 34-36, 2014: 23-25.
Macchiarella, I., I canti della settimana santa in Sicilia, Palermo, Arti grafiche siciliane, 1993.
Migliorini, E. (a cura), Il ballo della pupazza. Fantocci e giganti rituali nelle feste dell’Italia centrale, Roma, Ed. Efesto, 2017
Olivier de Sardan, J.-P., “La politica del campo. Sulla produzione di dati in antropologia”, in F. Cappelletto (a cura), Vivere l’etnografia, Roma, Seid edizioni, 2009: 27-64.
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Alessandra Broccolini, ricercatrice in Discipline Etno-Antropologiche dal 2008 ed attualmente insegna Etnologia presso la facoltà di Sociologia dell’Università “La Sapienza di Roma”.  Ha collaborato con l’Istituto Centrale per il Catalogo e la Documentazione, con la Regione Lazio e con altri Enti in materia di catalogazione del patrimonio etnografico materiale e immateriale e per alcune candidature Unesco per la Lista Rappresentativa del Patrimonio Culturale Immateriale. Attualmente è presidente di Simbdea (Società Italiana per la Museografia e i Beni Demoetnoantropologici) e membro della redazione della rivista Antropologia Museale. Si occupa di politiche dell’identità, città, migrazioni, feste e rituali, artigianato, patrimonio culturale immateriale, saperi tradizionali e politiche Unesco (Lazio, Campania, Napoli, Roma). Ha pubblicato diversi saggi sui temi dell’antropologia del patrimonio culturale e un lavoro monografico sull’artigianato del presepe a Napoli: Scena e retroscena di un patrimonio. Turismo, artigianato e cultura popolare a Napoli, Verona 2008.
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