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L’assoluta contraddizione del nostro esistere. Vinicio Capossela al Premio Pino Veneziano

 COPERTINAdi Umberto Leone

Quest’anno, il Premio Pino Veneziano, giunto alla dodicesima edizione, attraverso la rievocazione della figura del cantastorie e artista selinuntino, nel solco delle edizioni precedenti, ha inteso celebrare la forza simbolica e spirituale del paesaggio, che all’interno del suggestivo Parco archeologico di Selinunte, sede del Premio, è anche risorsa ambientale, culturale ed economica. Queste premesse hanno motivato la decisione di conferire il premio al poeta e scrittore Franco Arminio, che con la sua attività di artista si è adoperato per valorizzare e rilanciare quei luoghi dell’entroterra spopolati in primo luogo dall’emigrazione e successivamente dall’urbanizzazione. Di questa sua attività, che Arminio stesso chiama “paesologia”, si è parlato anche in presenza di Fabrizio Barca, ex ministro per la Coesione territoriale, che ha coinvolto Arminio nella Strategia nazionale delle aree interne, e con Ignazio E. Buttitta, docente di antropologia all’Università di Palermo e presidente della Fondazione “Ignazio Buttitta”. L’occasione è stata particolarmente emozionante anche perché Franco Arminio, dopo aver dibattuto insieme agli altri due ospiti sui luoghi dell’identità e della memoria in Sicilia e sull’importanza di restituire alle comunità che li accolgono nuova fiducia e nuove prospettive per il futuro, ha ringraziato tutti i presenti donando loro un momento di poesia pura, attraverso la lettura di alcuni suoi versi.

Nella stessa serata, abbiamo anche visto un ampio coinvolgimento del pubblico grazie alla partecipazione di diversi artisti: da Livio e Manfredi Arminio, che hanno eseguito delle musiche ispirate alla loro terra d’origine, l’Irpinia, a Werner Cee, compositore tedesco e autore di un progetto artistico multimediale sulla Sicilia, da Valentina Richichi, che ha rivisitato alcuni brani di Pino Veneziano, a Gaspare Balsamo, “cuntista” e performer di origini trapanesi.

 Franco Arminio, Lidia Tilotta, Ignazio E. Buttitta e Fabrizio Barca (ph Mirko Tamburello)

Franco Arminio, Lidia Tilotta, Ignazio E. Buttitta e Fabrizio Barca (ph Mirko Tamburello)

Il Premio Pino Veneziano ha sempre avuto tra le sue principali peculiarità una proiezione territoriale abbastanza ampia. In questo senso, due importanti Comuni della Valle del Belìce, Sambuca di Sicilia e Menfi, hanno dato un importante apporto curando anche due momenti di riflessione sul tema “Paesaggio e identità territoriale nella Valle del Belìce”, interni alla programmazione di questa dodicesima edizione, organizzata con il patrocinio dei comuni di Castelvetrano, Menfi e Sambuca di Sicilia, della Fondazione “Ignazio Buttitta”, dell’Assessorato ai Beni Culturali Ambientali e all’Identità della Regione Sicilia e della Rete Museale e Naturale Belicina.

La seconda serata del Premio è stata dedicata all’incontro con Vinicio Capossela, cantautore e scrittore, estimatore di Pino Veneziano e della tradizione poetica e musicale cui il cantastorie selinuntino si richiama. Ed è proprio con il suo ultimo progetto discografico, Canzoni della Cupa, un album diviso in due parti – Polvere, «il lato esposto al Sole, il lato della ristoccia riarsa, su cui il grano è stato mietuto»; e Ombra, «il lato lunare, il lato dello sterpo e dei fantasmi» – che Capossela, attraverso un lavoro da speleologo sulla canzone popolare, propone un’indagine in un certo senso affine allo spirito del Premio che gli è stato assegnato, occupandosi in maniera molto personale delle sonorità e delle tradizioni canore dell’Alta Irpinia, partendo da Calitri, il paese di origine della sua famiglia.

La serata conclusiva del Premio ha visto pure la presenza del polistrumentista Giovannangelo de Gennaro, che ha accompagnato sapientemente Vinicio Capossela, ma anche del cantautore Rocco Pollina e di Giana Guaiana che, per l’occasione, hanno proposto alcuni loro brani e diversi classici di Pino Veneziano.

Un particolare che ha ulteriormente impreziosito questo secondo appuntamento della manifestazione selinuntina è stato il momento di riflessione condiviso con tutto il pubblico presente da Vinicio Capossela che, conversando con Mariella Pagliaro, del “Giornale di Sicilia” (che ringrazio personalmente per la collaborazione), partendo dalla spiritualità del luogo in cui ci trovavamo, ci ha donato delle suggestioni su alcuni temi portanti della sua produzione artistica, musicale e letteraria, quali il mito, il rapporto fra tradizione e memoria e l’amore.

Quella di Vinicio Capossela è una personalità complessa e poliedrica. Le sue origini irpine hanno certamente segnato il destino di una propensione naturale al raccontare storie in musica, ripercorrendo con ricchezza d’animo i luoghi della memoria che hanno contrassegnato la sua esistenza anche attraverso un’intensa, poetica, attività letteraria. Il cammino creativo e spirituale di questo grande artista – indubbiamente uno dei maggiori cantautori del nostro tempo – è una risposta, non polemica ma convintamente dialogica, alla persistente instabilità del tempo in cui viviamo. E la sua arte, in questo senso, si sviluppa, in una vivace dialettica tra stabilità e mobilità, all’interno di un «perenne labirinto» in cui l’artista si volge «alla continua ricerca del suo centro, del suo ‘barrio’».

Capossela e Umberto Leone (ph Flavio Leone - CastelvetranoSelinunte.it)

Capossela e Umberto Leone (ph Flavio Leone – CastelvetranoSelinunte.it)

Il Coordinamento del Premio Pino Veneziano ha pensato di proporre ai lettori di “Dialoghi Mediterranei” la trascrizione della suddetta conversazione per condividere con l’Istituto Euroarabo di Mazara del Vallo la comune passione per la cultura dell’incontro, partendo da una prospettiva che anche il nostro Premio da anni, tra mille difficoltà, cerca di promuovere con la sua azione di fiducia verso le molteplici espressioni dell’arte e con un non comune amore per i luoghi in cui viviamo: luoghi che auspichiamo – parafrasando un verso del cantastorie selinuntino – un giorno possano tornare ad essere un giardino.

Sul Mito 

Vinicio Capossela – Credo che [il mito] sia in assoluto una delle più antiche invenzioni dell’uomo per cercare di rendere accessibile il tempo. Noi siamo, naturalmente, il tempo, lo subiamo, ma l’invenzione del mito ci permette di andare a spasso nel tempo come vogliamo e di trasferire ad una dimensione mitica, e quindi a un racconto – racconto che desta meraviglia – la nostra esperienza del vivere, e di avere accesso a una mitologia che ci comprende e che riconosciamo tutti. La mitologia è quindi una cosa molto vasta: può essere quella che abbiamo imparato dalla grande letteratura classica, ma può essere anche la mitologia spicciola, familiare, di paese.  Tutto quello che si vuole sottrarre al consumo del tempo è in un certo senso mitico, o, almeno, mitologico e vi fluiscono dentro anche queste creature e luoghi dove non c’è distinzione tra realtà e sogno. E quindi credo che la chiave epica, mitica, delle cose sia importante. Anche nell’opera di Pino Veneziano possiamo ascoltare questo canto quasi epico, anche quando parla di cose e di contingenze molto reali, aspetto che mi fa venire in mente un po’ la grande tradizione dei cantastorie e dei cuntastorie, che sono comunque stati i grandi divulgatori del mito come forse in antichità lo erano stati gli aedi, di cui sappiamo poco. È un fatto che sembra astratto, sembra appartenere ai libri di scuola, e invece è una realtà vivissima che fa parte del nostro bisogno di memoria.  Un proverbio che mi piace moltissimo dice: «Il tempo non si è mai sposato, per poter fare quello che vuole», ecco: il mito ci serve per poter fare quello che noi vogliamo, col tempo. 

Sulla memoria e le radici 

Vinicio Capossela – Esiste un passato, che è un passato prossimo, un passato storicizzato, che produce ancora effetti nel presente. Stiamo parlando dell’altro ieri, no? E poi, invece, c’è una memoria molto più antica.  Forse mi piace pensare che ci sia qualcosa di noi vecchio di almeno ventimila anni, qualcosa di noi che riconosce certe cose ed è anche quasi una memoria genetica, non è soltanto la memoria di mio padre o la memoria di mio nonno. Penso che per tutti noi valga l’esempio dell’albero: le radici sono naturalmente salde, sono la parte forse più antica, ma sono anche nascoste, non si mostrano alla vista: quello che vediamo è l’albero, come cresce al sole, e cresce così per la luce che ha avuto dove si è trovato, e quindi questa esperienza, questa parte finale dell’albero, è anche la nostra esperienza della vita, così come l’abbiamo vissuta; la nostra cultura, il nostro rapporto con la storia, con la contemporaneità. Allo stesso tempo, l’albero non esisterebbe senza la sua radice, dunque è bene che questa generi qualcosa che si muove con la propria esperienza personale. Naturalmente possiamo parlare di memoria, ma è poi molto importante la cultura cui si appartiene, per rinnovarla, per rimodularla, altrimenti forse sarebbe soltanto un esercizio di speleologia.  

 Vinicio Capossela a Selinunte (ph Mirko Tamburello)

Vinicio Capossela a Selinunte (ph Mirko Tamburello)

Canzoni della Cupa 

Mariella Pagliaro – Parliamo del tuo ultimo album, Canzoni della Cupa: tredici anni di gestazione. Un tempo lento, insomma…

Vinicio Capossela – Ho fatto questo disco, che si chiama Canzoni della Cupa:  la Cupa è una contrada che c’è al paese di mio padre, ma è un toponimo che si trova in un sacco di posti, perché “cupa” è un avvallamento, un posto dove batte meno il sole. Di solito, questi posti dove batte poco il sole sono il territorio dell’ombra, della leggenda, e quindi richiamano qualcosa che sia un po’ al riparo dalla luce della contemporaneità. Ha a che fare con la terra, con il  “folklore” che è il patrimonio delle leggende, dei canti, delle superstizioni, dei modi di dire. Sto leggendo un libro molto bello, Sud Antico (Bompiani, Milano 2016), di Emanuele Lelli, un antropologo che è andato a cercare quanto sopravvive della cultura classica, dei modi di dire che sono importati dalla letteratura classica, proverbi e superstizioni, in tutto il sud toccato dalla Grecia, quindi Sicilia, Basilicata e Calabria. È uscito adesso e ve lo consiglio perché è veramente molto spiritoso. Attraverso, per esempio, il patrimonio dei proverbi, mostra quanto sedimento abbia l’antichità in una cultura popolare. Ed è interessante vedere come la cultura si propaghi per modi di dire, per proverbi, per superstizioni, per ritualità, è interessante ed è anche molto divertente.

Mariella Pagliaro – Ho capito che è un lavoro lento perché, se andiamo a scavare fin nella superstizione… E oltre che lento, ci sono tante figure di donne, raccontate in questo disco. Ne hai una preferita?

Vinicio Capossela – È lento perché succede sempre così. Inizio in un momento e vado a finire in un altro. È nato dopo tredici anni, perché ho fatto una registrazione nel 2003, partendo da un certo repertorio, e poi ho scritto altro. Il lavoro, in sostanza, consta di due dischi, uno registrato nel 2003 e l’altro registrato nel 2014. Questo doppio lavoro  ha a che fare proprio con la cultura della terra, popolare, e naturalmente il femminile è una cosa molto importante, promana dalla terra stessa. Qui siamo al tempio di Hera. Penso però anche alla femminilità intesa in tutte le sue declinazioni della cultura popolare: c’è il desiderio, c’è la compassione, c’è l’ingiuria, il canto a ingiuria, perché l’innamorato abbandonato, naturalmente, deve sfogarsi; c’è una grande quantità di sfumature, e sono veramente il sale, l’anima, di tutto quello che è il sapore della vita. E ci sono anche molte figure femminili che hanno nomi e cognomi. Voci come Giovanna Marini, Enza Pagliara: è quella femminilità che prorompe proprio dalla materia del sonetto, del canto, della ballata, di qualcosa anche di più antico, che è proprio intriso di  femminilità in tutte le sue sfumature, una femminilità però mai svilita e mai sottovalutata, perfino quando si tratta di descrivere un aborto clandestino – c’è anche questo, c’è un episodio che si chiama Maddalena la castellana – che non lascia fuori proprio niente della cultura popolare.

Mariella Pagliaro – L’album si apre con Femmine, che un po’ fa risuonare questa eco di voci di antenate… Tu ti senti accompagnato da loro?

Vinicio Capossela  – Io sono cresciuto in un matriarcato, nel senso che il mio rapporto con la terra, con questa terra, l’Alta Irpinia, è un rapporto molto mediato, perché non sono cresciuto in Irpinia, ma ci andavo da bambino, quando in agosto. Sono stato nettamente più vicino alle figure femminili, perché era un mondo più aggraziato, più dolce, con meno asperità. I maschi volevano solo scartarti a pallone e io perdevo sempre, quindi mi trovo più a mio agio con la parte femminile della famiglia. Era una specie di gineceo quasi, composto da queste donne, molte delle quali anziane, e questo fatto di chiamarle mamme-nonne,  questo fatto che era mamma e anche nonna era importante. Le zie, per me, nella mia infanzia, sono state un enorme patrimonio, perché davano quell’affetto e quella protezione che sono spesso precluse a una madre che è sempre troppo preoccupata per te;  invece, la cerchia delle zie è sempre stata per me un grandissimo privilegio e devo anche riconoscere che loro avevano la capacità di raccontare, nel nostro dialetto, qualcosa che  ho poi sempre riconosciuto. Per esempio, l’Odissea, Omero, non mi ricordano mai i banchi di scuola, forse perché non ho fatto il liceo classico, mi ricorda piuttosto quel senso dell’onore, quel senso del ritorno, il senso dell’attesa che era esattamente nelle bocche di queste mamme-nonne, di queste zie, e delle loro storie, spesso raccontate vicino a una fornacella.

Mariella Pagliaro – Infatti è un mondo che racconti benissimo. C’è un odore che ti fa ricordare questa memoria?

Vinicio Capossela – Lì a Calitri, per gli sposalizi si facevano queste che si chiamano “cannazze”, che sarebbero ziti che vengono conditi con un sugo…

Mariella Pagliaro – Che sta ore e ore, forse…

Vinicio Capossela – Con un sugo che sta lì a bollire molto a lungo e, dentro, a dargli sapore c’è questa che si chiama “vraciola”, che però non è una braciola, ma un involtino di carne raccolto dentro a delle spezie; viene avvolto con lo spago e sta lì ore e ore… e, in un certo senso, quando senti questo odore tipico, da bambino, hai già la sensazione che qualcuno ti voglia bene, perché qualcuno sta per nutrirti.

Mariella Pagliaro – Ti riporta alla tua infanzia…

Vinicio Capossela – C’è qualcosa che ha direttamente a che fare col cordone ombelicale del mondo, ed è molto bella anche l’immagine, nella festa di sposalizio, delle stelle filanti, le “zagarelle”, chE avvolgono gli sposi come fossero un’unica cosa, esattamente come lo spago fa con questo involtino, in modo che la nuova coppia venga ingoiata dalla comunità che  danza loro intorno.

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Capossela e Mariella Pagliaro (ph Flavio Leone – CastelvetranoSelinunte.it)

Sull’amore 

Mariella Pagliaro – Tu scrivi delle canzoni d’amore sempre molto belle, molto struggenti, e volevo chiederti se hai incontrato soltanto donne che ti hanno fatto soffrire molto o anche dei grandi amori, anche se poi, alla fine, magari scrivi soltanto di quelli…

Vinicio Capossela – Innanzitutto,  quando si è più giovani, ed è esattamente il periodo in cui ho scritto quelle canzoni, si esagera anche con i sentimenti, convinti che poi la vita ci metterà rimedio e… insomma, viene da metterci della tragicità, no? Nelle canzoni, e in generale anche nell’atteggiamento che si ha verso l’attrazione amorosa, diciamo : “Va beh, poi la vita ci metterà rimedio!”.  Poi, col tempo,  vedi che la vita passa e non ci mette rimedio e quindi poi cambi argomento. E da molti anni ho iniziato a scrivere canzoni… “mitologiche”! Ma, sostanzialmente, credo che la vera, la gran cosa dell’amore è che non ci si sente mai così soli come da innamorati, perché è lì che si percepisce il limite, proprio nella tensione verso qualcosa che manca: quando si è completati non si avverte questa tensione, questo desiderio, ed è, naturalmente, anche una sorta di sofferenza, perché si anela a qualcosa che non c’è, dunque è molto probabile che si tratti di quello stesso motore che ha messo in moto, non certamente non solo i miei, ma infiniti canti, la stragrande maggioranza dei canti d’amore, che sono assolutamente “lamenti”, in un certo senso. Si lamenta qualcosa che si perde o che non si ha  o addirittura qualcosa che non si è mai avuto, e quella è la nostalgia più feroce. Questo è secondo me quello che ci spinge a desiderare, a scrivere canzoni,  quello che ci spinge ad ascoltare le canzoni che ci fanno sentire compresi in questa assoluta contraddizione che è alla base del nostro esistere.

Dialoghi Mediterranei, n.21, settembre 2016

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Umberto Leone, nato a Castelvetrano nel 1961, insieme a sua moglie, Ute Pyka, vive e lavora a Marinella di Selinunte (frazione di Castelvetrano). Alcune sue opere in scultura – realizzate con Ute Pyka – sono presenti nelle collezioni di importanti musei e fondazioni, come la Fondazione Orestiadi di Gibellina, la Fondazione Antonio Presti-Fiumara d’Arte di Castel di Tusa, il Palazzo Reale di Giordania e la sede di Telekom Arabia a Riyadh. Umberto Leone e Ute Pyka sono stati premiati dalla rivista I.D. Magazine (New York) e dalla Fondazione Buttitta (Palermo). Musicalmente, Umberto Leone è stato da giovane molto vicino a Pino Veneziano e per tenerne viva la memoria, insieme alla famiglia del cantautore e ad alcuni amici a lui vicini, ha fondato l’Associazione che organizza il Premio Pino Veneziano.

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