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L’architettura del sacro. Pasqua in Sicilia

San Biagio Platani, Il viale dei Madunnara, Incontro di Pasqua, 1983 (ph. Labruzzo)

San Biagio Platani, Il viale dei Madunnara, Incontro di Pasqua, 1983 (ph. Labruzzo)

di Antonietta Iolanda Lima [*]

Nei giorni di cui il calendario anno dopo anno, riproponendo un evento che fa scendere in terra con forza rinnovata il fuoco più ‘alto’ della trascendenza e del divino, si acquietano gli urti delle contraddizioni, e sembra che fughi via il perenne contrasto tra bene e male che da sempre impasta gli umani, e rifiorisce la primavera e con essa la vita delle comunità e il sacro con le sue lontane ascendenze pagane dovunque scende. Come il miracolo di Cristo che risorge anche questo lo è. Ed ecco riti e simboli che vengono in aiuto per celebrarlo.

Come il calvario che dovunque sorge diventando permanenza di lunga durata; ed ecco le feste e le loro complesse processioni che radicalmente mutano l’assetto consolidato degli spazi urbani occupando un tempo la cui estensione – pari a 84 ore – lo rende dimentico. Ma subito dopo. l’effimero fa la sua comparsa e la magia della festa entra pian piano nel ricordo, trova man mano posto nella memoria, pronta a rie-esplodere alla data del risveglio. E ancor prima del calendario è il fermento nuovo della terra a darne l’annunzio.

Alla Pasqua appartengono dunque i calvari e le feste ed entrambi divengono mezzo attraverso cui gli abitanti delle piccole e medie città esprimeranno il sentire della loro religiosità intervenendo creativamente nello spazio. La genesi del Calvario riporta a Gerusalemme, città in cui i carnefici di Gesù per crocifiggerlo scelgono un luogo esterno al nucleo fortificato: una piccola altura rocciosa, perché sia ben visibile ciò che simbolicamente rappresenta la morte, un teschio. Il nome non poteva che essere Cranio, Gulgutha in aramaico, Calvario nella sua trasposizione latina.

Marineo, Calvario (rilievi 1982 @A. Lima)

Marineo, Calvario (rilievi 1982 @A. Lima)

Sulla sua evoluzione storica manca una letteratura specifica e i pochi contributi rintracciati non trasmettono l’importanza di questo segno sacrale che esemplifica sintetizzandola la sequenza: incontro-scontro- mediazione di istituzioni e popolo.

Nel riproporre il difficile confine tra aulico e popolare, il suo configurarsi ricollega la tematica dei calvari a quella dei santuari. Ma il rapporto è ribaltato. Per i santuari infatti l’istituzione viene inizialmente ‘inventata’ dal popolo che per concretizzarla fisicamente ricorre al prodigio che è evento miracoloso. In genere è il sogno che lo annuncia e quasi sempre indica il sottoterra di un luogo in cui spesso si nasconde un tesoro. La gratitudine si materializza subito in un segno sacrale, una piccola cappella, un’edicola, una croce.

Si innalzano lungo le vie di pellegrinaggio o agli incroci delle strade di campagna, in età medievale. Non in Sicilia in cui penetrano solo nel Seicento con le missioni della Compagnia di Gesù, la cui azione si riassume in quella di padre Gaspare Paraninfo, al quale si attribuisce l’istituzione. L’influenza gesuitica permarrà a lungo. È quindi verosimile che i piccoli «monumenti» che dalla metà del Settecento emergevano su alture, rupi e comunque in luoghi elevati siano stati edificati dalla devozione popolare su loro sollecitazione.

Attraverso questa consolidata e sedimentata ideologia, la Chiesa mediante la censura e la predicazione, mezzi usati contro qualsiasi residuo di protestantesimo, nel rapportarsi alle antiche tradizioni delle masse, spesso dovrà piegarsi a dei compromessi per diffondere nuove devozioni sempre legate a prodigi.

Esemplificativo ciò che annota il Mongitore a proposito del culto per il SS. Sacramento che, per quanto esagerato o esasperato dalla volontà in lui implicita di stupire attraverso lo straordinario, deve trarre spunto da reali situazioni.

Così scrive:

«Sono in Sicilia dappertutto, e in gran copia i galli, e galline. Ma nella città di Marsala sono di grandezza straordinaria, e meravigliosa. Scrive il padre Silvio Tornamira  ne‘ prodigi dell’eucarestia che nella terra di Petralia Sottana alcuni padri della Compagnia di Gesù applicati alle missioni, si studiarono di accendere la divozione verso il SS. Sacramento; ma una donnicciola divota, ma povera, dolendosi di non potere contribuire alla universale contribuzione, procurò una gallina e con il prezzo delle uova dar ogni settimana la limosina per lo culto del Divin Sacramento. Mostrò la Divina Maestà il gradimento di tal divozione con un prodigio, poicchè le prime uova scovate da la gallina uscirono coll’impronta nella corteccia dell’immagine del Santissimo, come una delle piccole formule, col le quali si comunicano i fedeli. Promulgato il prodigio, accrebbe nel popolo mirabilmente la divozione e il culto al divin sacramento: e si stabilì di celebrarsi la festa del Santissimo in ogni terza domenica di ciaschedun mese con pompa d’apparati, ed accrescimento di venerazione, e accadde che a quei che contribuivano alla solennità, nel giorno in cui cadea la terza domenica, pur nascean le uova nelle loro case colla stessa impronta del SS. Sacramento. Anzi più: quel che avea la cura di raccoglier la limosina per le case de’ fedeli di quella terra, riponeva i danaj in un fazzoletto, e ritrovava 1 sera in fondo po allo stesso, ove era stato il denajo raccolto, una sfera ben ampia e perfetta del Santissimo a color verde, con intorno i raggi con quest’ordine, che per ogni tre raggi diritti, seguiva il quarto serpeggiante, come pe lo più si costuma fare nelle sfere d’argento. Il che avveniva con estrema meraviglia di quanti osservavano il prodigio». 
Il sepolcro, Calvario di Balestrate (ph. A. Lima)

Il sepolcro, Calvario di Balestrate (ph. A. Lima)

Lo stesso Tornamira narra che allo stesso modo i missionari della Compagnia nel promuovere la devozione verso il SS. Sacramento nella città di Corleone, nel 1674, divulgarono presso gli abitanti del luogo il prodigio delle uova di Petralia, proponendolo come esempio. Alieno da qualsiasi speculazione metafisica, il popolo vuole la visibilità del Divino. Per venerare deve credere, e per credere deve vedere.  Un esempio? L’uovo, simbolo magico e sacrale insieme, svela il Sacramento. Una forma concreta, reale, ma eccezionale anche per l’uso che se ne fa, come quando con il ricorso ad esso si amplifica tra gli esseri umani la portata dei patimenti subiti dal Signore nel giorno del suo calvario. 

La storia della sacralità è storia di rapporti e di conflitti tra dominanti e dominati, tra istituzioni e popolo. Nel caso del Calvario il rapporto diviene nel suo estrinsecarsi incontro di simboli.

Come il grande rituale gesuitico dei primi del Seicento, il viale recupera il principio dell’assialità. Simbolo del doloroso percorso di Gesù per raggiungere il luogo della crocifissione, è segno strutturante del disegno progettuale. A guisa di navata centrale di una grande chiesa, l’uso ripetuto e costante di un numero ne costruisce lo sviluppo. Come nell’intera struttura dei ‘tesori incantati’ con i quali il popolo rende giustizia a se stesso ribaltando chi detiene ricchezza e potere, la sacralità entra nel fare creativo che inizia dalla scelta del numero: così il 3 – tre – spesso relazionato al sette o al quattordici, – stazioni della via crucis – diventa modulo e modello progettuale.

A Balestrate quindici gradini (5 volte 3) portano alla croce a quota 2,40 (8 volte 3); a Villafrati con nove gradini si raggiunge il cancello d’ingresso e con i successivi quarantotto (16 volte 3) si arriva alla croce; dodici i gruppi di gradini tra un pianerottolo e il successivo a Marineo e nove le soste sino alla cappella, quattordici le croci, sette per ciascun lato, inserite nella recinzione in ferro; trentatrè i gradini della scalinata del calvario di Alimena, come gli anni del Signore, o come il numero dei credi che alle ore 15 del Venerdì Santo recitano le donne anziane del paese.

Trabia, Calvario, planimetria (@ A.Lima)

Trabia, Calvario, planimetria (@ A.Lima)

In un riferimento più strettamente religioso va ricordato che 3 furono le cadute di Gesù durante il suo trasferimento al Calvario, che 6 ore rimase sulla croce, 3 da vivo e 3 da morto. Nel passaggio al rituale in parecchi paesi dell’agrigentino il gruppo che va ai sepolcri deve essere sempre in numero dispari e mai come costituenti inferiore a 3; 7 sono i sepolcri da visitare e 7 i credi da recitare presso ogni sepolcro e infine sempre 7 furono i monumenti provvisori allestiti dai gesuiti lungo le scenografiche percorrenze che nell’urbano di Avignone puntualizzavano l’ingresso di re e regine. Il calvario è un modello precostituito di cui poi si impossessa il popolo?

Chi lo dà questo modello? Senza dubbio la forma simbolica è strumento ideologico preferito dai gesuiti per celebrare il rinnovato potere della Chiesa. Anche il materiale da costruzione, spesso il pietrame, è inscrivibile in un contesto di credenze simboliche: la sacralità della pietra e la sua palese aderenza al mondo naturale. Anche le mura che ne perimetrano la forma sono simbolo e il simbolo è sempre un attributo divino che tutti, ciascuno a proprio modo, con la sua specifica cultura, vogliono esprimere. 

Si carica quindi di simboli questa singolare fase del vivere e le sfaccettate modalità con le quali l’uomo concretizza il Divino investono globalmente il paesaggio inteso come ambiente tutto, la cui sacralità interamente lo permeava agli albori dell’umanità. Con il tempo e i mutamenti che creano la storia nascono nomi, luoghi, forme, riti e rituali, testimonianze naturali, esigenze spirituali. E complesse relazioni tra tutto.   

Viale del Calvario a Trabia (ph. A. Lima)

Viale del Calvario a Trabia (ph. A. Lima)

Secondo un credo ampiamente condiviso il Divino risiede nei luoghi elevati con una gerarchia che dal cielo, massimo della trascendenza visibile, giunge sino alle piccole alture, una costante nella scelta che le rende chiave di lettura verosimile per giustificare e comprendere la collocazione della sacralità nello spazio.

Dentro, ai margini, o lontano dall’abitato, la scelta del luogo su cui edificare il calvario nel riassumere il significato attribuito dalla comunità a determinati «punti» dell’ambiente, privilegia quello dotato di maggiore individualità, più idoneo a divenire «luogo sacro». C’è quindi un nesso di reciprocità tra luogo e calvario.

Ruolo notevole ha l’altimetria se non addirittura prioritario, e quando essa manca o è presente in forma ridotta o comunque non si raccorda alla quota di partenza – soprattutto nel caso di calvari inseriti in paesaggi urbani pressocchè pianeggianti –, l’esigenza di possedere le caratterizzanti simboliche ritenute fondamentali è risolta attraverso la creazione artificiale delle stesse: posizione dominante e isolamento. La scalinata diviene in tal senso mezzo tecnico, urbanistico ed allegorico; risolve i dislivelli voluti, collega il luogo sacro all’abitato, ripropone «la via dolorosa» percorsa da Gesù.

Se quanto detto è in genere alla base della realizzazione di moltissimi calvari, è opportuno ancora una volta ribadire che gli stessi vengono costruiti in epoca abbastanza tarda, tra il XVIII e il XIX secolo, quando quindi gli insediamenti, compresi i più recenti, sono già ampiamente strutturati. Ciò sottolinea ulteriormente la profonda correlazione che sempre si instaura tra la scelta del luogo su cui edificare il «nuovo» e la storia locale della comunità relativa, che spesso interviene mediando le istanze teoriche. In tal senso si spiegano i molti casi di spazi estremamente idonei scartati a favore di altri. Trabia e Ustica ne sono valida esemplificazione. Il primo è un paese in prossimità della costa fondata nel 1633 da Ottavio Lancia. 

Ci si domanda a questo punto quale definizione dare all’architettura del calvario o che comunque essa sia legittima. Non è facile in quanto essa è insieme pittura, scultura, architettura e urbanistica. Investe lo spazio e lo trasforma.

Nel riproporre l’elemento su cui si inchioda Gesù, la croce o le tre croci i simboli: semplici, su un piccolo piedistallo in muratura come a Capizzi, o a coronamento di tre edicole assemblate e distinte come a Favignana, o congiunte insieme a formare un corpo unico, la facciata di una piccola cappella come a Baucina. Poi c’è il sepolcro sottostante la croce, spazio più o meno vasto in quanto varia dalla semplice nicchia incavata nell’edicola o ricavata nella montagnola che simboleggia il Golgota come a Balestrate, alla grotta come a Cianciana, o ancora alla cappella come a Marineo, Trabia, Vicari, Resuttano, Baucina. Infine i gradini direttamente relazionati al sepolcro, quasi sempre in numero di tre; e il lungo viale, pianeggiante come a Baucina, gradonato come a Trabia, Villafrati, Marineo, Grotte, Cianciana; le mura, alcune volte risolte con basamento in muratura e inferriata sovrastante.

Il sepolcro, Calvario di Cianciana (ph. A. Lima)

Il sepolcro, Calvario di Cianciana (ph. A. Lima)

Nel delimitare l’intero spazio pertinente al Calvario ne sottolineano la sacralità, rendendolo spesso molto simile ad un interno cimiteriale. E in tal senso la presenza alcune volte dei cipressi, alberi funerei per tradizione (Marineo, Grotte), rafforza tale similitudine. L’impianto, soprattutto nei casi in cui il Calvario domina la totalità dell’abitato, è rettangolare e recupera aree con forti dislivelli altimetrici tra inizio e fine. Quando ciò non esiste naturalmente, si inventa, si costruisce l’altimetria del luogo, in modo che possa aderire alla concezione via via tramandata del Calvario isolato ed elevato più di ogni altro simbolo innalzato dall’uomo. Gli elementi esaminati, aggregati insieme di volta in volta da ciascuna e differente comunità locale, danno luogo ad una estrema varietà di soluzioni.

A Balestrate il Calvario, situato nella parte più elevata del paese, a conclusione della via Roma, è a forma pressocchè circolare: una montagnola realizzata in pietrame, con edicola in nicchia, attorno alla quale si snoda una gradonata che culmina in una croce di legno. Un’iscrizione data il suo ultimo restauro al 1970, da parte della Congregazione del SS. Crocifisso. A Cianciana la sua edificazione sembra risalire alla prima metà dell’Ottocento. Voluto e finanziato dal popolo, la sua realizzazione nell’estremità nord del paese definisce ulteriormente il ruolo della croce di strade con ai vertici i luoghi religiosi più rappresentativi della comunità: a ovest e a sud le seicentesche Matrice e chiesa di S. Antonino, a est la chiesa del Carmelo e a nord il Calvario. Vi si arriva attraverso la via Salita Calvario, ripida percorrenza, asfaltata lungo i lati, ancora ciacata nella parte centrale lungo la quale passa la processione. Fiancheggiata da edilizia vecchia e nuova si conclude al cancello chiuso del Calvario. Lì inizia un interno-esterno straordinario caratterizzato da una terrazza belvedere che si affaccia sulla vallata sottostante e da una gradonata in pietra con verde ai lati che si conclude nella cappella, ricavata dentro la montagnola, in pietrame bianco, con piccolo vano contenente un altare e le statue della Madonna e di Gesù con la croce.

Monte e abitato, Calvario di Altofonte (sezione 1.500, rilievi 1983 @A. Lima)

Monte e abitato, Calvario di Altofonte (sezione 1.500, rilievi 1983 @A. Lima)

A Baucina, in posizione defilata rispetto al corso principale, un cancello in ferro affiancato da due pilastri in muratura con cuspide finale avvia la percorrenza al Calvario, solitamente chiuso e curato, nella manutenzione, da un privato. Si entra in un viale lungo circa cinquanta metri, fittamente alberato, con macchie di fiori da decoro e nicchie scavate su entrambi i lati del muro di cinta rappresentanti le stazioni della via Crucis. Fondale conclusivo di questa percorrenza tanto simile ad un piccolo viale cimiteriale è la cappella, con dietro tre croci, di fattura recente, con accenno di frontone sia come colmo che come riquadro dell’ingresso. Due campanilotti, ai lati del colmo, ripropongono nella forma le antiche vare. Il viale, ciotolato, recupera disegni geometrici basati su cerchio e quadrato e nel suo inizio si apre con il motivo del cuore trafitto da una spada, su mattoni di cotto frammisti a ciotoli.

L’edificazione del calvario di Trabia si fa risalire al 1830 quando l’insediamento, fondato nel 1633 da Ottavio Lancia duca di Camastra, è ancora caratterizzato da case terrane allineate lungo la croce di strade La Masa-Calvario-Lima, secondo la direttrice mare-monte. Alto, solitario, visibile da ogni punto del paese il sito su cui si innalza, che per questo viene scelto. Sono gli anni 1945-’50. Dal dialogo con gli abitanti non emergono legami con la sottostante e antichissima tonnara presso la quale sino al 1970 avveniva ancora la benedizione delle barche nella vicina chiesa dei pescatori, ormai sconsacrata.

Chiesa grotta del Calvario di Scicli, collina della Croce (ph. publifoto)

Chiesa grotta del Calvario di Scicli, collina della Croce (ph. publifoto)

Vive nella memoria della gente legato a «Ave Santa Crux», scritta nella parte alta della facciata della chiesa madre. Successiva alle iniziali croci in legno, la cappella che ne è custode fu costruita nel 1914 da Maria Rubino, gestita dal 1937 da Giuseppa Cancilla alla quale si deve forse la sostituzione della croce centrale con l’attuale in ferro nel 1954 e delle due laterali nel 1974. Ancora oggi è a lei che si deve la manutenzione del calvario, e per suo merito il luogo sacro dalla primavera all’autunno inoltrato sembra riproporre in piccolo un vero giardino di delizie: la parte colorata di un hortus conclusus cui si affidava il compito di rappresentare la suprema bellezza dell’Eden, il paesaggio del paradiso: gerani, garofani, gigli, piante grasse lungo le aiuole che accompagnano da ambo i lati la percorrenza della via sacra, la gradinata che sale alla cappella. 

Non solo i calvari manifestano con l’architettura il divino nella sua massima espressione di straziante patimento. Una presenza di per sé non fisicamente effimera. Il suo edificato rimane, raramente è cancellato. Ci sono le architetture della festa, e sono effimere. Occupano soltanto l’intera settimana santa e può dirsi che una sorta di ‘magia trasformativa’ entra negli urbani. Li riconfigura formalmente e spazialmente. E nessuna supremazia o gerarchia tra ‘le cose dell’umano’. Abitanti, animali, vegetali ne sono strumenti e materia. Come accade con le fiere, sollecitate dalle transumanze che connettono uomini animali e stagioni, il rito ridisegna il territorio espungendo i confini creati dal potere. 

Tra le numerose esemplificazioni, qui riporto quanto qualche anno fa creavano gli abitanti di S. Biagio Platani, nell’agrigentino, nel loro piccolo abitato dal Venerdì Santo alla Domenica di Pasqua. E il motivo è nella convinzione del mirabile che si creava che non va dimenticato, senza nulla togliere all’altrettanto mirabile del rito attuale. Sufficiente osservare con attenzione la complessa struttura degli archi di pane.

San Biagio Platani, L'abitato ridisegnato (@A. Lima)

San Biagio Platani, L’abitato ridisegnato (@A. Lima)

Il paese all’atto della fondazione 1648 –, nella sua localizzazione territoriale viene a porsi sulla sommità di un rilievo prossimo al fiume Platani, al centro di una recente urbanizzazione a croce con ai vertici i centri di Bivona, Aragona, Cattolica Eraclea e Casteltermini; tutti risalenti agli inizi del XVII secolo tranne il primo, antico casale normanno. L’impianto a «T» dei suoi due assi viari principali, con perno nella settecentesca Matrice dedicata a S. Biagio patrono, fa da sistema portante dell’intero tessuto urbano. Estremamente complesso, esso risulta costituito da stecche ed isolati irregolari la cui articolazione in vicoli e cortili nel manifestare la persistenza di una tradizione islamica, ripropone modalità tipiche di parecchie fondazioni agricole tra ‘Quattro e ‘Settecento. Il culto verso la Madonna e il Cristo e la sua estrinsecazione nel rituale religioso della Settimana Santa sembra documentato con certezza sin dalla metà del ‘700 quando l’esiguo insediamento contava poco più di mille abitanti.

A tale culto si collega la nascita delle confraternite dei Madunnara, con sede nella chiesa madre, e dei Signurara, con sede nella chiesa del Carmine – che ha attiguo il calvario esterno e sopraelevato – e la conseguente strutturazione della comunità in gruppi compatti a favore dell’una o dell’altra confraternita. L’antagonismo che ne deriva più che dividere la popolazione la coagula in una particolarissima competizione che diviene frenetica soprattutto nella notte del sabato quando in segreto ciascuna confraternita nell’addobbare la parte di spazio urbano che le compete lo trasforma radicalmente. È soprattutto in questa trasformazione, basata sul recupero del vegetale, lo straordinario della festa, anche se in essa è implicita, come in ogni rituale della Pasqua, la volontà di simboleggiare il parallelo tra Cristo e Natura per quanto attiene Morte e Resurrezione.

San Giovanni Platani, Rappresentazione della Crocifissione (ph. Labruzzo)

San Giovanni Platani, Rappresentazione della Crocifissione (ph. Labruzzo)

I preparativi iniziano trenta ma anche quaranta giorni prima, essendo enormi le quantità del materiale necessario a creare la nuova scenografia del corso, nonostante l’intervento effettivo avvenga in una parte limitata di esso: nei centodieci metri circa prospicenti la piazza Matrice.

Durante la fase di ricerca i componenti di ciascuna confraternita – 86 i Signurara, molti di più i Madunnara – con i loro sostenitori si riversano nel territorio dell’agrigentino, ma anche del palermitano. Servono canne, agavi, salice, asparago, alloro, rosmarino, palme, datteri, arance, fiori; tutti prodotti naturali che, al di là dello specifico significato che la comunità può ad essi dare, nell’accezione generale risultano storicamente caricati da un forte valore simbolico e magico. La canna, afferma Pitrè, è il Dio Termine dei nostri contadini; piantata al limite di una proprietà la rende intangibile e sacra. Non è forse un caso che nella festa del 1983 i Madunnara, nel trasformare il viale in uno spazio sacro – una grande chiesa –, l’abbiano utilizzata per realizzare le colonne di sostegno e divisione tra navata principale e navata laterale.

Il salice e il rosmarino sono alberi funebri e con centoventi fasci dell’uno – mille bacchette in ciascun fascio – e due camion dell’altro, i Signurara nell’82 hanno creato immense farfalle lungo i marciapiedi del loro viale e il coronamento dell’arco principale sotto il quale sarebbe passato il Cristo morto.

Venerdì santo a san Biagio Platani (ph. Labruzzo)

Venerdì santo a san Biagio Platani (ph. Labruzzo)

A prescindere dalle forme, alcune ripetute, altre variabili negli anni, l’intera preparazione del cerimoniale sia per le quantità che per il tipo di materiale e per l’utilizzo che di esso se ne fa, è talmente non usuale da essere già operazione magica: 600-800 chili di arance, 5.000 chili di pane, 10.000 uova, 200 chili di zucchero. Del tratto di corso interessato, quaranta metri da una parte e dall’altra – entrata e viale – appartengono a ciascuna confraternita, mentre i trenta metri della zona centrale antistante la Matrice, delimitati dai due archi principali, sono spazio comune, luogo dell’incontro tra la Madonna e il Cristo Risorto.

Al di là delle specifiche caratterizzazioni che mutano di anno in anno, l’architettura di ciascuna metà del corso si struttura sempre su tre parti fondamentali: l’entrata, il viale e l’arco. La prima rappresenta la facciata di una chiesa che spesse volte riecheggia motivi aulici; la seconda, le navate la cui copertura può essere o voltata o appena accennata dalle fughe laterali e comunque tale da consentire la penetrazione della luce, indispensabile alla esaltazione degli addobbi e del colore; la terza, corrispettivo dell’entrata e abside dello spazio sacro, diviene l’elemento dove più esplode il simbolismo della comunità. La larghezza del corso – sei metri circa prescindendo dai marciapiedi – viene totalmente recuperata dalla struttura dell’arco che si regge su due pali, alti anch’essi sei metri, collegati dall’ancidda, trave centrale il cui nome si ricollega alla presenza del fiume Platani e alla pesca di anguille che in esso si faceva. All’ancidda da ambo i lati si legano due ulteriori travi di agave a forma di X che determinano una doppia farfalla, costituita quindi da quattro triangoli. Il coronamento – arcu centrali in canne –, pur variando nel tempo, recupera quasi sempre forme geometriche, triangolari o semicircolari, all’interno delle quali si posizionano i rispettivi simboli delle due confraternite. Nella parte sottostante dell’arco si appendono tre nimpe, enormi lampadari a forma di ombrello capovolto, costituiti da migliaia di piccoli datteri verdi e rossi in prevalenza, intrecciati con palme e fiori. In proposito va ricordato che il mazzo di fiori che raccorda in basso la nimpa sostituisce oggi il piccolo vaso con anguille vive, propiziatorio per una buona pesca, del passato.

Viale dei Madunnara, a San Biagio Platani (ph. Labruzzo)

Viale dei Madunnara, a San Biagio Platani (ph. Labruzzo)

L’arco, che dal Venerdì Santo alla notte del Sabato vive spoglio nella sua struttura rivestita unicamente di rosmarino, la domenica mattina «agghiorna a festa». Stoffe rosse ricoprono le travi, ciuffi di palme con due o quattro bandiere rosse concludono la parte terminale dei pali, mentre l’interno delle ali della «X» viene tessuto da un ordito di canne e cordicelle a sostituzione della rete che in passato intere famiglie intrecciavano accanto al fuoco durante l’inverno. Su tale ordito si pone un primo strato di circa 62 cudduri, ciambelle di pane che i quattro panettieri del paese lavorano per antica tradizione; ad esso se ne sovrappone un successivo di circa 28 marmurati, pani particolari ricoperti di zucchero in quanto il colore bianco per gli abitanti ricorda la Resurrezione.

È nella forma di questi pani che rifluisce l’esigenza di recuperare nella festa il rapporto Dio-uomo, terra-lavoro. La chiesa, il rosone e la campana simboleggiano il potere spirituale; angeli e stelle, l’universo; il calice, l’eucarestia; il vaso di fiori, «i lavureddi»; la palma, la resurrezione; l’albero, la campagna e il frutto; il gallo, l’orologio del contadino; la ruota, il carro ed infine l’aquila a due teste il potere statuale.

Ma non è ai calvari che bisogna guardare se si vuole cogliere l’energia che sprigiona il dare vita a un evento ‘speciale’ annualmente ri-proposto, ma alle feste, quelle che in altro modo celebrano Gesù fattosi uomo e crocifisso per il suo amare tutti, e poi risorto.  

Sette è già di per sé un numero con forte connotazione di senso. Simboleggia la totalità, e per questo, come già ho evidenziato, connota il percorso dei calvari nel loro dispiegarsi fisicamente e spazialmente. Sette quindi sono i giorni in cui le città del mondo cristiano interpretano i momenti salienti della vicenda di Cristo sulla terra: – tre, numero anch’esso pregno di tradizione sacrale – e ridisegnano il loro urbano e ciascuna di esse con un ‘come’ diverso perché tali sono la loro storia e cultura.  Variano dunque forme e significati anche. Ma comuni e duplici gli strumenti: l’architettura e la processione. Entrambe investono l’esterno della città, ma in modo diverso.

San Biagio Platani, La Nimpa (ph. Labruzzzo)

San Biagio Platani, La Nimpa (ph. Labruzzo)

La prima interviene nel vuoto dello spazio pubblico: quello della strada principale della città – il corso  –distendendo un nuovo progettuale talmente straordinario da desiderare che si abiuri all’effimero che la caratterizza sin dal suo nascere. Nella seconda l’architettura e l’urbanistica lavorano anch’esse insieme, ma a un livello di estrinsecazione di gran lunga maggiore essendo altra l’interpretazione che si vuol dare al rito della Settimana Santa.   

Ma per sette giorni non c’è soltanto questa trasformazione. Il male il bene che con le sue ombre, penombre e oscurità è tragicamente dentro ciascun essere umano appare miracolosamente scomparso. Gli abitanti – tutti, negli insediamenti piccoli e medi dimensionalmente e numericamente – sembrano ora una comunità solidale, coesa che si ri-conosce sul piano sociale e identitario. E forse ancor più nel prima, cioè nei giorni che precedono la festa, fatti di lavoro e fatica. È la fase preparatoria. Impegna il clero, i rappresentanti dell’amministrazione politica, le confraternite, la sapienza delle maestranze e degli artigiani, sedimentata e consolidata da un lungo mestiere. Ecco quindi i cantanti, i suonatori di bande, i sarti per i costumi, gli scalpellini e gli scultori per le statue, i geometri, gli architetti e gli ingegneri per dare forma e corrispondente struttura e ancora altro che si dispiega in base alla specificità di ciascuna festa, in cui alcune volte traspare la visione rurale, quella di coloro che coltivando la terra ne ascoltavano la voce unendola a quella delle stagioni. Così vedevano nella rinascita la primavera e Dio. 

Sembrano… ho appena scritto, a proposito degli abitanti, ma penso sia veramente difficile l’assenza di tensioni, con tanta diversità di ruoli e di potere anche. Ma prescindendo da questo, io vedo in questi riti l’evocazione di un sapere antichissimo. Occorre andare a ritroso nel tempo: il barocco prima, poi il medioevo e giù giù sino a giungere al mito – il mytos dei greci. Credo anche che riviva in essi la narrazione dell’alfa – Ω – e dell’omega – ω –, l’inizio, l’origine, la sacralità della vita e della morte, sacra anch’essa. Un grado zero, per ri-cominciare. È così che si rinnova il mondo, ci diceva Eliade nel 1979 in un libro bellissimo.

Ma l’architettura della festa forse non è soltanto nelle strutture materiali che vengono realizzate e di cui si è già parlato; lo è anche nello svolgimento dell’intero cerimoniale. Strutturandosi su una sequenza rigidamente articolata di personaggi che nel loro disporsi e agire disegnano le fasi del rituale, esso modifica lo spazio urbano dilatando gli esigui ambiti dei suoi vuoti.

Ciò che quindi interessa puntualizzare non è tanto il percorso processionale che peraltro recupera sempre il quadrangolo gravitante sulle chiese del Carmine e della Matrice, quanto alcuni suoi momenti assolutamente caratterizzanti, sintetizzabili nell’inizio, nel successivo recupero della Madonna, nella Crocifissione.

San Biagio Platani, La farfalla, viale dei Signurara, (ph. Labruzzp)

San Biagio Platani, La Farfalla, viale dei Signurara (ph. Labruzzo)

Fasto, invenzione, apparato, vivono all’interno della scenografia itinerante del corteo che si forma il Venerdì Santo, alle ore 10,30, dalla chiesa del Carmine, con l’uscita del Cristo e della Confraternita dei Signurara. Se pensiamo ad una prospettiva centrale, sulle linee di fuga, convergenti nel portale d’ingresso della chiesa, si dispongono simmetricamente i protagonisti con i loro costumi di scena, mentre, all’interno, lungo l’asse centrale, si susseguono i simboli della Passione.

In una disamina al dettaglio l’avvio viene dato dalla Veronica e dalla Maddalena che portano il sudario del Cristo, seguito da una bandiera rossa, quindi dallo stendardo rosso (trave di legno a sezione circolare lunga sei metri, con una croce in legno su sfera di legno, con bandiera rossa) tenuto in posizione orizzontale in segno di lutto, dal tamburino che scandisce il ritmo funebre, ed infine dalla croce liturgica che si può dire concluda la prima parte del corteo interamente formato da bambini: 40 Signurari, egualmente divisi tra maschi e femmine.

La seconda parte del corteo, costituita da 12 confratelli adulti e incappucciati, seguiti da 32 «pie donne» con capo e viso coperti da scialli neri alla maniera araba, accompagna la bara del Cristo preceduta dal boia con cappuccio nero e circondata da cinque centurioni romani con lance. Questi ulteriori protagonisti, disposti sempre su file parallele e simmetriche, si collegano ai primi attraverso un elemento di cerniera dotato di una straordinaria carica simbolica: due croci, alte circa 1,90 m., percepite visivamente come pali incappucciati in quanto la loro parte terminale, che contiene un piccolo Cristo, viene nascosta da una copertura ad ombrello, con struttura in agave, rivestita da scialli neri dati in prestito dalle donne del paese.

La conclusione del corteo si affida alla banda musicale e ai fedeli, costituiti non solo da tutti gli abitanti del luogo, ma anche da gente della campagna e da pendolari provenienti soprattutto da comuni limitrofi.

Nel momento in cui il Cristo con il suo seguito recuperando la Matrice si è allontanato da essa di una distanza tale – 40 metri circa – da consentire l’inserimento della Confraternita dei Madunnara, avviene l’uscita della Madonna dalla sua chiesa. Nel trascurare completamente l’ampio viale della Vittoria e aderendo piuttosto al perimetro dell’originario impianto, il nuovo corteo ripropone nella strutturazione generale quello dei Signurara, pur presentando alcune fondamentali varianti riconducibili alla mutata simbologia da rappresentare: il colore dominante, non più rosso, ma celeste; il cuore rosso trafitto da un pugnale sui costumi bianchi di tutti i confratelli; due ragazzine che recano in mano piatti pieni di petali di violaciocche – al posto del tamburino e della croce liturgica –, una sola croce incappucciata.

In un unico e grande corteo la processione raggiunge il Calvario, una tozza e moderna costruzione addossata alla chiesa del Carmelo che recupera la memoria del luogo sacro solo per la presenza della croce sulla sua copertura. Ai suoi piedi, davanti la folla dei fedeli, una coppia di anziani contadini, intonando il lamento funebre, dà avvio alla Crocifissione. Il Cristo, prelevato dalla vicina chiesa, viene posto sulla croce da due preti e a tale azione si accompagna il frastuono assordante prodotto dalle tròccole e dalle cirrialore dei ragazzi. La costruzione della scena da parte dei protagonisti, come già visto per il corteo dei Signurara e dei Madunnara, si struttura su una rigida simmetria che ha come asse la croce, elemento assolutamente dominante dell’intero «quadro». Da ambo i lati si dispongono i rappresentanti delle confraternite – bambini dai 6 ai 12 anni –, alcune pie donne, i soldati romani, le croci incappucciate, mentre all’Addolorata si contrappone il boia dalla parte opposta. Ciascun protagonista nell’occupare il posto stabilito crea l’ultimo atto del Venerdì Santo. La consistente modifica dell’ambiente è talmente rapida da sembrare realmente un’operazione soprannaturale. L’edificato preesistente, nel suo relazionarsi all’intero apparato scenico, da banale manufatto si trasforma quasi in una architettura che può sembrare, disconoscendone l’origine, addirittura pensata, in quanto capace di esaltare attraverso il proprio anonimato lo straordinario spettacolo che su essa si svolge. La cosiddetta cultura ‘alta’ vive in pace anch’essa con la ‘bassa’, impropriamente così chiamata perché gli umani, per comprendere separano, sbagliando. 

Dialoghi Mediterranei, n. 55, maggio 2022 
[*] Quando entro nello specifico di alcuni riti – siano essi calvari o feste – attingo a quanto scrivevo circa un quarantennio addietro (La dimensione sacrale del paesaggio, Flaccovio Palermo, 1985).
Riferimenti bibliografici 
Bernardi, Claudio, La drammaturgia della Settimana Santa in Italia, Vita e Pensiero, Milano 1991
Buttitta, Antonino, Pasqua in Sicilia, con fotografie di M. Minnella, Grafindustria, Palermo 1978
Buttitta, Ignazio E. – Perricone Rosario (a cura di), La forza dei simboli. Studi sulla religiosità popolare, Folkstudio, Palermo 2000
D’Onofrio Salvatore, Le parole delle cose. Simboli e riti sociali in Sicilia, Congedo Ed. Galatina (LE), 1997: 173-188
Lima Antonietta Iolanda, La dimensione sacrale del paesaggio Ambiente e architettura popolare di Sicilia, Fausto Flaccovio editore, Palermo 1985 (uno dei suoi capitoli è alla base del saggio che qui presento)
Plumari, Angelo, La Settimana Santa in Sicilia. Guida ai riti e alle tradizioni popolari, Città Aperta, Troina, 2003
Plumari, Angelo, Le espressioni di religiosità popolare della Settimana Santa in Sicilia, Città aperta, Troina, 2009 
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Antonietta Iolanda Lima, architetto, già professore ordinario di Storia dell’Architettura presso l’Università di Palermo. Sostenitrice della necessità di pensare e agire con visione olistica, sua ininterrotta compagna di vita, è quindi contraria a muri, separazioni, barriere. Per una architettura che sia ecologica, sollecita il rispetto per l’ambiente e il paesaggio, intrecciando nel ventennio ‘60-‘70 l’elaborazione progettuale, poi dedicandosi alla formazione dei giovani. Ad oggi continua il suo impegno a favore della diffusione della cultura e di una architettura che si riverberi positivamente su tutti e tutto: esseri umani, animali, piante, terra; perché la vita fiorisca. Promotrice di numerose mostre ed eventi, è autrice di saggi, volumi e curatele. Tra essi, qui si ricordano: L’Orto Botanico di Palermo, 1978; La dimensione sacrale del paesaggio,1984; Alle soglie del terzo millennio sull’architettura, 1996; Frank O. Gerhy: American Center, Parigi 1997; Le Corbusier, 1998; Soleri. Architettura come ecologia umana, 2000 (ed. Monacelli Press, New York – menzione speciale 2001 premio europeo); Architettura e urbanistica della Compagnia di Gesù in Sicilia. Fonti e documenti inediti XVI-XVIII sec., 2000; Monreale, collana Atlante storico delle città Europee, ital./inglese, 2001 (premio per la ricerca storico ambientale); Critica gaudiniana La falta de dialéctica entre lo tratados de historia general y la monografìas, ital./inglese/spagnolo, 2002; SoleriLa formazione giovanile 1933-1946. 808 disegni inediti di architettura, 2009; Per una architettura come ecologia umana Studiosi a confronto, 2010; L’architetto nell’era della globalizzazione, 2013; Lo Steri dei Chiaromonte a Palermo. Significato e valore di una presenza di lunga durata, 2016, voll. 2; Dai frammenti urbani ai sistemi ecologici Architettura dei Pica Ciamarra Associati, 2017 (trad.ne inglese, Londra e Stoccarda, Edit. Mengel; Bruno Zevi e la sua eresia necessaria, 2018; Giancarlo De Carlo, Visione e valori, 2020; Frugalità Riflessioni da pensieri diversi, 2021. Il suo Archivio è stato dichiarato di notevole valore storico dal Ministero dei Beni Culturali.

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