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L’antropologia storica di Lombardi Satriani: dal tempo del pittoresco al tempo della contestazione

Posted By Comitato di Redazione On 1 luglio 2022 @ 02:29 In Cultura,Letture | No Comments

Messina, Lombardi Satriani riceve il Premio Cocchiara

Messina, Lombardi Satriani riceve il Premio Cocchiara, 2016

per Luigi

di Sonia Giusti

Il Manifesto ha ricordato Luigi Maria Lombardi Satriani con le parole di Thomas Mann “Adel des Gestes” e alla nobiltà dello spirito, in verità, si pensa quando si inserisce il nostro Luigi nel panorama internazionale delle scienze demo-etno antropologiche. Antropologo e fine letterato, Luigi Maria Lombardi Satriani ci ha lasciato a 85 anni nel pieno della sua attività di ricerca svolta nell’ambito di una scienza che, affermatasi in Italia con Giuseppe Pitré e Giuseppe Cocchiara, con la sua impostazione storicistica si è irrobustita come scienza storica; non più come una delle due storie che in Italia correvano parallele, la grande storia nazionale e la pittoresca storia del folklore.  

Il folklore, questa volta è gramscianamente inteso, non più elemento pittoresco, ma cultura, cultura altra, particolare forma storica della conoscenza, “concezione del mondo e della vita” che, per il nostro antropologo calabrese, è anche cultura di contestazione. La sua ricerca si è svolta in un campo di interessi accesi intorno al pensiero di Antonio Gramsci, sulla religiosità popolare e la cultura contadina, anticipando quella particolare corrente del pensiero antropologico che è l’antropologia storica.

Senatore della Repubblica nel gruppo di Sinistra Democratica ha studiato le tradizioni popolari della cultura italiana come cultura altra, specialmente nel Meridione italiano e, come studioso impegnato delle classi subalterne e fine letterato, ha ricevuto il premio Viareggio nel 1982 per Il ponte di San Giacomo, quindi, il Premio “Giuseppe Cocchiara” all’Università di Messina per Omnia vincit amor (ed. Ferrari 2017), libro nel quale la scrittura poetica diventa espediente terapeutico, per superare la “malinconia nera”, come nota Domenico Sabino:

            … Man mano che la vita si è logorata nel tempo
             e la fine è divenuta più vicina ti accorgi
            che non hai assolutamente imparato a morire  
            e che quindi devi smettere di pensarti filosofo.

omnia-vincit-amorIn Il ponte di San Giacomo Lombardi Satriani, insieme con Mariano Meligrana, analizza l’ideologia della morte nella società contadina del Sud, trovando la «parola arcaica del mondo contadino meridionale di fronte al silenzio della morte» e i luoghi dove si rifugia e si affronta la morte come oggetto di riflessione antropologica sulla lacerazione della vita, sullo smarrimento vitale che, secondo articolate modalità cultuali, si fa pensiero addomesticato. Nella fenomenologia folklorica i due autori mettono a fuoco il fitto intreccio di negazione e presenza della morte, sollecitando una ricostruzione della filosofia popolare della morte che si può esemplificare con i versi che Luigi Dragonetto, bracciante lucano, recitò a De Martino: Stongo a sto mondo come non ci stessi, m’hanno messo a lu libro de li spersi.

In questa prospettiva di ricerca il rapporto tra vivi e morti, nell’orizzonte folklorico, risulta non di contrapposizione, ma di continuità tra storia e metastoria. Tale collegamento è attestato, scrive Lombardi Satriani, «dall’uso di deporre sulla bara attrezzi da lavoro, oggetti personali (come la pipa) particolarmente cari al defunto e perfino, come si usava nell’antichità classica, monete per il pagamento del pedaggio ultraterreno. Non solo, se i familiari dimenticano un oggetto, si pensa che il morto torni in sogno a chiedere che gli venga mandato. Allora quell’oggetto viene deposto nella bara di un morto successivo, suo compaesano. Sarà lui, incontrando l’amico nell’aldilà, a consegnarglielo».   

Questi rituali, oltre a lenire il dolore della perdita della persona cara, aiutano a vivere l’esperienza della morte riducendone l’angoscia in una immaginata continuità di rapporti umani [1] che esprime una implicita concezione della vita e del mondo degli strati popolari, in contrapposizione con quella ufficiale delle classi dominanti. In questo complesso di credenze il folklore non si esaurisce nei prodotti culturali “fossilizzati”, intesi come sopravvivenze di una vita trascorsa, ma assume il significato di ciò che Gramsci scrive in Letteratura e vita nazionale: nel folklore è presente «una serie di innovazioni, spesso creative e progressive, determinate spontaneamente da forme e condizioni di vita in processo di sviluppo e che sono in contraddizione, o solamente diverse, dalla morale degli strati dirigenti» [2].

Ricordando le affermazioni di Marx sulla “saldezza delle credenze popolari” che non si riferisce alla validità del loro contenuto, ma alla incisività nelle norme di condotta, il nostro antropologo ricostruisce il compito dell’intellettuale che intenda operare gramscianamente tenendo conto del nesso «tra cultura tradizionale delle classi subalterne e cultura rivoluzionaria» [3].

Nel libro, scritto con Mariano Meligrana, Diritto egemone e diritto popolare, sono resi espliciti i principi che reggono la loro ricerca: «Anche la cultura progressista o rivoluzionaria ripropone – a livello letterario, cinematografico, artistico, demologico – una condizione umana e sociale densa di drammaticità e sistematicamente chiusa ed occultata. Il neorealismo letterario e cinematografico, la lezione delle riflessioni di Gramsci, l’opera di Levi, l’impegno di documentazione di uno Scotellaro e, successivamente, di Dolci, i risultati dei viaggi etnografici di De Martino e dei suoi seguaci, contribuiscono a fare avvertire il Sud come luogo della cattiva coscienza   nazionale» [4].

31rqiuqo8kl-_sx342_bo1204203200_La realtà sociale del Mezzogiorno è rappresentata nella sua drammatica durezza che cozza contro la logica unitaria della borghesia settentrionale, la quale intendeva estendere la legislazione sabauda all’intero territorio secondo una ispirazione politica ancora risorgimentale, mentre le rivolte contadine esplodevano spesso nelle forme di brigantaggio e di renitenza alla leva militare [5].

Invece di spiegare le ragioni della “delinquenza meridionale”, si legge in Diritto egemone e diritto popolare, si preferì definire il brigante «con una fraseologia intrisa della terribilità del selvaggio e della ferocia del delinquente, con una significativa intrusione di elementi rozzamente positivistici ed etnocentrici» [6].  Mentre alla conflittuale realtà sociale e alla miseria economica delle classi subalterne del Meridione si riconosceva una tara biologica con la quale interpretare l’eterogeneità culturale in una visione razzista per cui «i luoghi di risoluzione diventavano il carcere, l’ospedale psichiatrico e il manicomio criminale» [7].                                                                                           

Con la nuova impostazione demologica le proteste contadine del periodo postunitario meridionale, risolte dalla classe egemone in una fenomenologia delinquenziale che in pratica negava il dramma della realtà sociale contadina, viceversa, diventano oggetto privilegiato delle ricerche folkloriche e contribuiscono all’esigenza di una conoscenza storica della complessa realtà sociale meridionale.

Nei folkloristi meridionali che si occupano di poesia popolare e di proverbi Lombardi Satriani riconosce l’inclusione di una attenzione alla coscienza giuridica popolare, sia pure nella interpretazione degli  usi e costumi giuridici come residui di un diritto arcaico [8], con i quali si andava delineando uno specifico campo di indagine sulla  diversità giuridica aperto alla storicizzazione del folklore da inserire, finalmente, come avrebbe sostenuto Giuseppe Cocchiara, nell’unico grande solco della Storia. Rimaneva ancora storicamente inesplorata l’esigenza politica unitaria di «ridurre la diversità attraverso un processo di esorcizzazione culturale, reso sempre più raffinato e tecnicamente valido» [9].

La questione meridionale prendeva forma sulla necessità che la cultura italiana si facesse carico della cultura meridionale nella quale il folklore, non più ridotto a materiali disorganici di relitti, diventasse oggetto di una problematica particolare che univa le ricerche giuridiche con quelle folkloriche in una particolare attenzione antropologica agli usi popolari meridionali e alla coscienza giuridica popolare [10].

Con l’Inchiesta parlamentare Jacini del 1877 sulla classe agricola italiana nelle diverse realtà produttive legate a usi e consuetudini diverse [11],  la “questione meridionale” si appesantiva, aggravata nei primi quindici anni del ‘900 da una emigrazione definita da Lombardi Satriani e Meligrana come vero e proprio esodo di massa dalle campagne. Quando nel 1912 viene fondata la Società di Etnografia Italiana, il folklore giuridico si allarga a nuovi spazi geografici, con l’esperienza coloniale italiana in Libia, affermandosi secondo lo schema evolutivo della civiltà con esigenze eurocentriche che mortificavano le specificità storiche ed esorcizzavano sia il diverso folklorico sia il diverso etnologico [12].

Si dovrà aspettare la resistenza al nazi-fascismo, sulla quale si radica l‘esperienza democratica che garantisce la Costituzione italiana, come fatto culturale fondamentale per il rinnovamento del clima culturale italiano. In questa  nuova situazione socio-politica lo studio del folklore si pone in una ottica storico-antropologica che accantona l’orientamento filologico-letterario precedente e mette in luce le ragioni storiche e politiche del mancato riconoscimento della dimensione giuridica delle classi subalterne meridionali; non tanto, avverte Lombardi Satriani, per definire schematicamente «un diritto egemone e un diritto popolare», ma «come presa di coscienza delle reali diversità e delle istanze umane e, quindi, politiche, sottostanti» [13].  

71zprn6nhvlNel pensiero di Gramsci relativo alla problematica giuridico-folklorica, annota il nostro antropologo, è fortemente presente l’istanza del diritto nelle credenze popolari e la conseguente sconfortante  considerazione che «il Sud, viene, così, occultato nella drammaticità della sua condizione e nella radicalità del suo bisogno, spesso esplicito, di un ribaltamento rivoluzionario e può divenire, nell’immagine che di esso diffonde il nuovo regime, zona di ‘intervento’ governativo, zona di azione di casse e di piani regionali».                                                 

Il contrasto fra l’ordinamento giuridico egemone e l’ordinamento giuridico popolare è colto «con lucidità e con tensione drammatica e creativa», scrive il Nostro, da Antonio Pigliaru, nel suo Il banditismo in Sardegna: la vendetta barbaricina come ordinamento giuridico [14], che tuttavia non ebbe, in pratica, alcuna risonanza, rimanendo in sostanza una questione di pertinenza della polizia giudiziaria. Il fatto che le sollecitazioni di Pigliaru non siano entrate nel dibattito politico dimostra, annota il nostro antropologo, ancora una volta «l’incapacità storica di riconoscere l’autonomia del diverso» [15].

Tutto questo, scrive Lombardi Satriani, a conferma della “Storia di un’assenza” relativa alla storia del Meridione italiano dentro la quale c’è, tuttavia, «la presenza di uomini che hanno disseminato di segni la loro vicenda».

Dialoghi Mediterranei, n. 56, luglio 2022
Note
[1] L. M. Lombardi Satriani e M. Meligrana, Il ponte di San Giacomo, L’ideologia della morte nella società contadina del Sud, Rizzoli, Milano, 1982: 11.
[2]  L. M. Lombardi Satriani, Antropologia culturale e analisi della cultura subalterna, Rizzoli, Milano, 1980: 31.
[3] Ivi: 37.
[4] L.M. Lombardi Satriani e M. Meligrana, Diritto egemone e diritto popolare. La Calabria negli studi di demologia giuridica, Quale cultura, Vibo Valentia, 1975: 86.
[5] Ivi: 11
[6] Ivi: 15.
[7] Ivi: 16.
[8] Cfr. lo studio critico di G. Pitré, in Canti popolari siciliani, Forni, Bologna, 1969.
[9] Cfr. in Diritto egemone e diritto popolare, cit,: 20.
[10] A. De Gubernatis, La tradizione popolare italiana, in «Rivista delle tradizioni popolari», 1893, 1. Cfr. anche R. Corso, Proverbi giuridici italiani in «Archivio per lo studio delle tradizioni popolari», XXIII, 1907.
[11] A. Caracciolo, L’inchiesta agraria Jacini, Einaudi, Torino, 1973.
[12] R. Corso, Proverbi giuridici abissini, in «Rivista italiana di sociologia», XXIV, 1920.
[13] Cfr. in Diritto egemone e diritto popolare, cit.:78.
[14] L’opera di Pigliaru è uscita nel 1970, presso la casa ed. Giuffré di Milano, cfr. ora nell’edizione Il Maestrale, Nuoro, 2021.
[15] Ivi: 92.

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Sonia Giusti, già docente di Antropologia culturale e antropologia storica presso l’Università degli Studi di Cassino e Presidente del Corso di laurea in Servizio sociale. Ha lavorato sui temi trattati da Ernesto De Martino e Raffaele Pettazzoni e sullo storicismo inglese di Robin George Collingwood, oltre alle ricerche sui Diritti Umani e sulla storicità della conoscenza. Ha svolto seminari presso le Università di Roma, Urbino, Palermo e Oxford, presso la Bodleian Lybrary. È autrice di diversi studi. Tra le più recenti pubblicazioni si segnalano i seguenti titoli: Forme e significati della storia (2000); Antropologia storica (2001); Percorsi di antropologia storica (2005).

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