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L’antropologia in guerra. Il caso Human Terrain System
Posted By Comitato di Redazione On 1 marzo 2016 @ 00:37 In Letture,Società | No Comments
Il processo di decolonizzazione in antropologia è stato contraddistinto dal ripensamento del proprio statuto scientifico ed epistemologico. La crisi dei paradigmi positivisti e oggettivisti e la messa in discussione dei tropi fondativi del discorso antropologico sono state affiancate dalla riconsiderazione del ruolo etico e politico dell’antropologo: non più scienziato neutrale ma rappresentante della propria cultura in uno spazio altro, l’etnografo ha iniziato a riflettere sul significato della sua presenza lì e sulla responsabilità rispetto ai soggetti studiati e ai committenti. A dispetto delle sue origini, l’antropologia è stata una delle discipline più attive nello smontare l’immaginario coloniale. Tuttavia, come avverte Colajanni, sarebbe ingenuo pensare che l’etnografia post-coloniale sia completamente innocente (Malighetti 2001: 18). Tale monito non va inteso solo rispetto all’ineliminabile asimmetria esistente tra osservatore e osservato, presupposto strutturale dello sguardo antropologico (Asad 1973: 17). Esso, invece, è utile per confrontarsi con ambigue applicazioni contemporanee del sapere etnografico incuranti dell’inestricabile nesso tra volontà di sapere e potere.
Il programma Human Terrain System (HTS), esperimento di antropologia applicata condotto dagli Stati Uniti in Afghanistan e Iraq, ne è un esempio. Lavorando pericolosamente al confine tra scienza sociale e intelligence, etnografi armati, sovente in incognito, hanno prestato la loro esperienza per conoscere la cultura nemica e coadiuvare le truppe nella guerra al terrorismo. Nonostante il progetto sia stato un colossale insuccesso, recentemente la sua ideologa Montgomery McFate ha curato un volume che ne ripercorre la genesi e discute le prospettive future. Il testo rappresenta oggi, a poco più di un anno dalla fine del programma, un’occasione per riprendere il dibattito che ha attraversato la comunità scientifica nordamericana e per analizzare ciò che i cosiddetti embedded anthropologists hanno fatto sul campo. Consente, altresì, di riflettere sulle implicazioni etico-politiche di una ricerca etnografica condotta negli scenari di guerra.
Il programma Human Terrain System nacque ufficialmente nel 2006, per volere del Ministero della Difesa statunitense, con il compito di agevolare operazioni militari inefficaci perché insensibili alla differenza tra le culture in conflitto. Con le parole di McFate: «in a counterinsurgency operation against a non-Western adversary, culture matters» (McFate, 2005: 24). Misconoscendo l’utilità di una strategia basata sul netto (ma infruttuoso) squilibrio tecnologico tra i contraenti, gli sforzi dei teorici della cosiddetta “svolta culturale” si concentrarono sulla ricerca di vie alternative per fiaccare la resistenza della guerriglia: il ricorso ai soft powers. Riecheggiando slogan risalenti alla guerra del Vietnam, l’obiettivo era vincere il cuore e la mente della popolazione: applicare la finezza etnografica per conquistare la fiducia dei locali e isolare i rivoltosi [1] (Kipp et alii 2006). Diretto dal colonnello Steve Fondacaro e dall’antropologa esperta in strategie di contro-insurrezione Montgomery McFate, HTS entrò a regime nel 2007 quando la prima squadra di scienziati sociali raggiunse il terreno in Afghanistan.
Subito dopo il varo del programma, la comunità scientifica americana venne scossa da un aspro dibattito tra sostenitori e detrattori. I primi difesero le ragioni dell’etnografia militare. Non solo essa avrebbe permesso alle truppe di attuare azioni più “intelligenti” riducendo gli scontri a fuoco. Gli embedded anthropologists avrebbero inoltre recato un servigio al progresso disciplinare: dopo anni di autocompiaciuto arroccamento nella “torre d’avorio accademica”, gli etnografi avrebbero avuto finalmente l’opportunità di tornare protagonisti della scena pubblica. La Global War on Terror avrebbe consentito alla disciplina di riconquistare il prestigio perso (McFate 2005: 28). I secondi, al contrario, denunciarono l’infiltrazione militare nell’Accademia: il tentativo di piegare la scienza sociale ai desiderata di esercito e agenzie d’intelligence. L’American Anthropological Association bocciò senza appello il programma definendolo un’applicazione inaccettabile [2]. Contemporaneamente, il cosiddetto network of concerned anthropologists iniziò la sua attività nelle Università. Denunciando la militarizzazione dei simboli culturali operata dagli scienziati sociali arruolati, gli esponenti del collettivo evidenziarono la debolezza metodologica dell’antropologia bellica (Price 2007) e la sua progressiva trasformazione in un’arma di battaglia (Gonzàlez 2009).
L’opposizione degli antropologi americani diede i suoi frutti: nonostante il programma fosse presentato come un esempio di antropologia applicata, pochi etnografi aderirono. McFate gridò alla censura ideologica e alla caccia alle streghe. Ribadì le accuse di marginalità ai colleghi e disse che le loro proteste erano frutto di preconcetti ideologici. Inoltre, a suo avviso, strumentali erano le motivazioni etiche usate per negare il loro aiuto (McFate 2007). Nonostante un’efficace campagna di pubbliche relazioni e l’immagine illuminata che il programma guadagnò presso gli ambienti più liberal della politica e della cultura americana (Gonzàlez 2009: 13-18), ciò che avvenne negli anni successivi contribuì a erodere le fondamenta di HTS. Un primo moto di rigetto dell’opinione pubblica arrivò con la morte di tre scienziati sociali sul campo [3]. Inchieste giornalistiche indipendenti e rivelazioni del portale Wikileaks, poi, svelarono la fondatezza dei timori della prima ora: alcuni scienziati sociali parteciparono attivamente ad azioni d’intelligence e interrogatori di sospetti (Forte 2011: 151; Gonzàlez 2015). Complice, infine, il trasferimento di risorse dalla counterin surgency sul terreno al controllo aereo dei droni (Gonzàlez 2015), anche il sostegno governativo al progetto cadde: defilatisi Fondacaro e McFate (dimessisi entrambi nel 2010), HTS fu ufficialmente chiuso nel settembre 2014. In sordina e lontano dal clamore che ne aveva accompagnato i primi passi (Gonzàlez 2015).
Il nuovo volume di Montgomery McFate, Social Science goes to War (curato con la psicologa militare Janice Laurence), rappresenta un’interessante panoramica sul progetto Human Terrain System. Benedetto dalla Premessa del principale sponsor della “svolta culturale”, l’ex generale David Petraeus, il libro espone le tappe che hanno portato alla trasformazione di una “buona idea” nel più grande progetto di scienze sociali applicate mai finanziato dal Dipartimento della Difesa (McFate, Laurence 2015b:5). La- scia inoltre la parola ai ricercatori che vi hanno aderito e prova a fare tesoro degli errori (in primis i problemi innescati dall’approssimativo reclutamento del personale) per sostenere la tesi che la nascita di un’antropologia militare professionale è una necessità non più rinviabile (ibidem: 44). Il manuale è una risposta alle critiche che hanno investito HTS fin dalla nascita. Non a caso, gli interventi ruotano intorno a due temi fondamentali: la questione morale e quella metodologica. Riflettono, cioè, sulle implicazioni etiche della ricerca antropologica per l’esercito e sull’etnografia concretamente praticata.
McFate si sofferma sul primo punto ripercorrendo le difficoltà incontrate nel celebrare il matrimonio tra esercito e scienza sociale: impresa compromessa dalla diffidenza dei soldati verso approcci alternativi al mero uso della forza e, soprattutto, dalla reticenza degli antropologi a compromettersi col dispositivo militare (McFate 2015: 48-51). Nel caso specifico, infatti, gli etnografi si sono dimostrati ciechi rispetto alla complessità degli scenari bellici contemporanei e troppo fedeli all’imperativo “do no harm” presente nel codice di condotta dell’AAA: prescrizione diventata un vero e proprio “valore sacro” (ibidem: 82). Seguito ciecamente, l’obbligo di non recar danno (volontario o involontario) ai propri informatori si è rivelato nemico del progresso scientifico e dannoso per la riabilitazione della disciplina. Più che da scienziati, dunque, gli etnografi si sono comportati come adepti di una Chiesa: quando il loro comandamento, in vista di un bene più grande, è stato minacciato sono esplosi in proteste isteriche negando, salvo poche eccezioni, il proprio contributo (ibidem: 82-86).
A conclusioni simili giunge il saggio di Fluehr-Lobban e Lucas Jr. Per i due autori, un’antropologa e un filosofo vicini agli ambienti militari, le ferme condanne dell’Accademia si sono rette su sospetti speculativi più che su un’osservazione diretta del fenomeno. In particolare, il pronunciamento dell’AAA è stato frutto di una visione politicizzata e pregiudizialmente contraria alle guerre in Afghanistan e Iraq [4] (Fluehr-Lobban, Lucas Jr 2015: 248-249). La questione, secondo i due studiosi, va dunque ribaltata e anziché disquisire sull’etica della ricerca in uno spazio bellico, andrebbero discussi i danni del disimpegno: «if the goal of the HTS is improved […] cultural understanding with the intent of harm reduction […] can it be morally or ethically opposed?» (ibidem: 254).
Ricordando le proprie esperienze sul terreno, gli etnografi embedded si muovono sulle stesse coordinate. Pur non nascondendo i problemi del lavoro con i militari, essi cercano di mostrare che le preoccupazioni etiche del ricercatore vanno ben oltre la sicurezza dei soggetti studiati e investono anche la responsabilità verso il proprio Paese. Come scritto da Brian G. Brereton: «do no harm should never be used as an excuse to do no good» (Brereton 2015: 266). Essere troppo legati al codice deontologico, infatti, porterebbe a una colpevole inazione e rafforzerebbe l’oziosa tendenza accademica a criticare e decostruire i meccanismi del potere anziché provare a cambiarli dall’interno (McFate 2015: 89). Le ricerche condotte sul terreno, al contrario, hanno cercato di far giungere la voce della popolazione locale alle truppe. Conoscere la cultura nativa ha consentito di evitare malintesi e approntare politiche di sostegno anziché rastrellamenti indiscriminati; ha permesso, soprattutto, di erodere il sostegno implicito ai ribelli [5]. L’etnografia militare, dunque, avrebbe ridotto il ricorso alla forza circoscrivendo etnograficamente gli obiettivi ai soli “bad guys”.
L’altro tema che emerge è quello riguardante lo status dell’etnografia HTS. Fin dall’Introduzione McFate e Laurence sembrano intenzionate a parare i colpi: quella che sembra povertà concettuale (su tutto l’uso della metafora oggettivante “terreno umano” per “cultura”) è frutto del tentativo di tradurre le categorie antropologiche in un linguaggio più comprensibile ai militari (McFate, Laurence 2015b: 6). Certo la realtà bellica ha dimostrato l’impossibilità di attuare una classica osservazione partecipante; tuttavia, ciò che la futura antropologia bellica perderà in finezza lo guadagnerà in peso strategico e politico (ibidem: 44). Le considerazioni dei ricercatori che hanno operato sul campo possono, a questo proposito, aiutare a fare chiarezza sul modello di antropologia concretamente prodotto. Tutti, nessuno escluso, lamentano la mancanza di tempo da dedicare all’attività etnografica: dalla costruzione di un rapporto di fiducia con gli interlocutori alla fase di elaborazione delle frammentarie informazioni raccolte. Troppo sbilanciato sui bisogni dell’esercito – «this is not old-fashioned ethnography […] the military needs it now» è stato il rimprovero di un compagno a un antropologo troppo riflessivo (McFate 2015: 72-73) – il lavoro degli studiosi per le truppe ha posto seri problemi di definizione. Ted Callahan, ad esempio, scrive: «[…] right now, HTS bear as much resemblance to serious anthropology as passport pictures do to photography» (Callahan 2015: 117). Katlheen Reedy, da parte sua, afferma di non aver mai fatto etnografia come membro HTS (Reedy 2015: 183). Brian Brereton, infine, dice di essere stato solo un consigliere socio-culturale diviso tra scienza sociale e dottrina militare (Brereton 2015: 286).
Tali riflessioni appaiono piuttosto indicative e lasciano parecchi dubbi circa il ruolo effettivo dell’antropologia embedded. Mariella Pandolfi e Philippe Rousseau, del resto, lo scrivevano già nel 2010: «proprio quando vuol convincerci dell’esistenza di una differenza fondamentale tra militari e scienziati sociali – che giustificherebbe poi una successiva riunificazione delle loro prospettive – McFate resta sempre sul vago»» (Pandolfi, Rousseau 2010: 200). L’ideologa dimostra così la sua incapacità di «individuare con chiarezza la differenza tra scienze sociali e dispositivo militare» (ibidem: 201). Una differenza che finisce con l’assottigliarsi al punto tale da piegare le finalità scientifiche ai bisogni dei militari e produrre un’ottusa «antropologia a scaffali» (ibidem: 205). Sebbene McFate si dichiari soddisfatta dei risultati ottenuti, i ricercatori da lei interpellati confermano involontariamente le perplessità avanzate dai critici del programma. Nonostante il tentativo di unire due mondi distanti, mantenendone le specificità (pragmatismo militare e sensibilità antropologica), l’ibrido prodotto è stato irrimediabilmente sbilanciato sul lato bellico. Come paventato dai concerned anthropologists, più che antropologizzare i militari HTS ha finito col militarizzare l’antropologia. Esso, oltre a legittimare scientificamente l’occupazione militare, ha altresì alimentato due dei discorsi oggi più potenti: il paradigma umanitario e il culturalismo.
Da una parte, infatti, l’antropologia s’è mossa sul campo di battaglia come uno dei tanti soft powers operanti in quel mélange militare-umanitario (Pandolfi 2005: 159) che contraddistingue gli odierni spazi sociali segnati da crisi e catastrofi. Essa s’è inserita docilmente all’interno di quella zona grigia in cui i confini tra politico e sociale, culturale e bellico sono sempre più sfumati: «l’antropologia, le scienze sociali e buona parte della società civile, dei diplomatici e dei militari, affrontano questo infinito compito umanitario come uno stato di fatto irreversibile» (Pandolfi, Rousseau, 2010: 212-213). HTS, cioè, ha operato in una situazione d’emergenza, agendo sotto l’imperativo della corsa contro il tempo. Proprio come avviene nell’industria umanitaria post-bellica, i suoi obiettivi – difendere la Nazione, limitare le vittime dei conflitti e farsi portavoce dei bisogni delle popolazioni locali – hanno pescato in motivazioni etico-morali che, dietro la necessità dell’intervento, non s’interrogano sulle cause dei conflitti.
Dall’altra, HTS ha giocato con le categorie antropologiche sfruttando il successo mediatico del concetto di cultura. Il rigido approccio dell’esercito ha elevato a dignità scientifica una «cattiva antropologia che propone una configurazione dei rapporti di forza internazionali concepita secondo rigide linee di frattura cultural-religiose» (Rivera 2008:51). Ha visto nella “cultura” un ente reificato e controllabile e ne ha fatto un concetto “spiega-tutto” utile a interpretare sbrigativamente qualunque fenomeno sociale (Fabietti 2004: 10). In particolare, pretendendo di isolare una “cultura nemica”, HTS si è pericolosamente avvicinato alle posizioni dei teorici dello scontro di civiltà.
L’adesione incondizionata dell’antropologia bellica al discorso umanitario-culturalista ha cancellato la storia e la politica dalle guerre contemporanee: non ha sottoposto ad analisi critica il pensiero militare e ha lavorato alla sua ottimizzazione fornendogli subdoli appigli culturali. Pur muovendosi in uno spazio (il Medio Oriente) segnato da decenni di guerre, essa l’ha eliminato dal proprio campo visivo ricercando la conoscenza della “cultura” allo stato puro. Ha ignorato il militarismo esattamente come la scienza coloniale trascurava il dispositivo cui era imbricata: accidente ininfluente per comprendere la vera cultura orientale (Said 1999: 109). Per McFate si tratta di buona volontà: di scienza sociale che si apre ai profani. Per i concerned anthropologists, e per chi scrive, di pericolosa svendita: di un sapere che piace perché fornisce risposte gradite alla committenza.
Come avvertiva Clifford Geertz, nel globalizzato mondo attuale, a fronte di un gran bisogno di etnografia, il nodo centrale cui saranno chiamati a rispondere i ricercatori consisterà nel come sapranno usare la diversità. L’attenzione agli usi della differenza dovrà allora essere accompagnata alla riflessione sugli usi dell’antropologia e dei suoi modelli. Dei modi in cui, cioè, gli studiosi procedono all’oggettivazione del proprio campo e alla messa in forma dell’altro. Questioni epistemologiche, etiche e politiche vanno di pari passo. Forse allora, la vera questione etica in antropologia si gioca su questo intreccio e gli antropologi, anziché contribuire a una radicalizzazione delle differenze che molto spesso si risolve in legittimazione delle disuguaglianze, dovrebbero lavorare per scalfire tutti quei riduzionismi che giustificano ambigue essenzializzazioni e rischiose derive culturaliste. Utilizzabili da tutti i signori della guerra:
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