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L’anarchismo come poesia. Per una biografia intellettuale di Gianni Diecidue
Posted By Comitato di Redazione On 1 gennaio 2015 @ 00:22 In Città,Cultura | 2 Comments
di Nicola Di Maio*
Mi pare che sia poco importante, ai fini della “conoscenza” autentica di Diecidue, il sapere che egli nacque a Castelvetrano il 16 marzo del 1922, che il padre Rosario, straordinaria figura di anarchico, ha fatto il barbiere e poi il bidello per mantenere la famiglia, che il nostro studiò lettere classiche, che fu arrestato dalla polizia fascista, che si laureò all’Università di Palermo nel 1945 “senza infamia e senza lode”, come amava precisare, e che, fatta la solita gavetta, insegnò per anni all’Istituto Magistrale di Castelvetrano ecc. Che ebbe due figlie, Fiammetta e Sandra, che fu marito di Isabella Garofalo, che era orgoglioso dei suoi nipoti, può interessare a qualcuno?
Queste notizie, pure utili, a me pare che dicano ben poco. Esse infatti finiscono per delineare soltanto un curriculum mentre a me importa piuttosto andare oltre la superficie dei dati, oltre cioè le obbligate cronologie, per cercare di cogliere invece l’immagine che quell’oltre contiene. L’oltre, nel caso specifico, è rappresentato, secondo il mio punto di vista, dagli aspetti peculiari della persona, peraltro straordinaria, e dai contenuti, questi sì, nient’affatto di superficie, di una ricerca e di un progetto culturale ed artistico.
L’anarchismo di Gianni Diecidue è non soltanto quello di un uomo di cultura ma anche, e soprattutto, di un poeta, cioè il portato di una sensibilità vigile e insieme “acuminata”, attraversata dalla complessità di mille inquietudini e perciò sempre in colluttazione con sé stessa e con i dati “terribili” della Storia – la guerra, per esempio, con il suo cumulo assurdo di sofferenza e distruzione, di privazioni e di fame, di barbarie e di orrori; o il potere quale che sia – politico, economico, clericale, ecc. – che talvolta assurdamente quella guerra decide o che si struttura con tutti i suoi meccanismi, ora espliciti ora subdoli, di prevaricazione e di sfruttamento; il Sud, il mondo contadino – “la razza muta” –, come luogo di una precarietà oggettiva secolare più sconvolgente che altrove e come “campo” costantemente tangibile di un disagio, di uno scompenso e di una verifica.
Il poeta
Ne Le ceneri della luna (1964), il libro che contiene tutti i successivi libri di poesia di Diecidue, vi è, intero, il suo anarchismo e, insieme, l’opzione nonviolenta, esplicita, puntuale, già a partire dal risvolto di copertina; né manca, esplosiva, drammatica, la rappresentazione del mondo contadino, cioè di un mondo fermo nella storia e sconfitto. Lorca, Prévert, Brecht, quali punte di alta poesia europea, sono le coordinate del libro che si inscrive totalmente dentro il post-ermetismo; né manca, attivissimo, un engagement di fondo che benissimo coesiste con l’emergenza di una poesia degli affetti.
Il periodo dell’Antigruppo, che prende l’avvio da questo libro, è l’esempio concreto di un progetto culturale “plurale” che nasce e si sviluppa dentro le coordinate appena accennate e che anzi le prolunga e le approfondisce; e io credo che non si possa parlare dell’Antigruppo senza fare riferimento proprio al contributo teorico e operativo che Diecidue diede al “movimento”. Per Gianni, ma anche per noi, è quella la stagione totale dell’impegno, ma anche dell’entusiasmo creativo, oserei dire della felicità creativa.
Nell’area trapanese dell’Antigruppo, Diecidue era la coscienza critica più avvertita di una poetica che, pur contigua a soluzioni di tipo post-ermetico e neorealistico, perfettamente conciliava “pubblico” e “privato” aprendosi anche a soluzioni “neosperimentali” in forza di una inquietudine linguistica già attiva, proprio, nelle Ceneri. Per lui aveva senso una collocazione della poesia e della cultura in un sistema relazionale antagonistico, secondo un prassi tutta giocata sul piano del lavoro a ciclostile e dei recitals in piazza. Il collante di questo sistema egli chiaramente lo individuava nell’antifascismo.
Si trattava – e si tratta – di una risposta puntuale e di un contributo teorico importante che andava oltre le divisioni sulle questioni metodologiche e delle poetiche attinenti alla forma della comunicazione e che avevano, nel periodo 1974-75 – comportato l’emergenza, nell’Antigruppo, delle cosiddette due anime, quella cioè “populista” raccolta attorno a Certa, Diecidue, Scammacca (area trapanese) e quella palermitana “neosperimentale” (Apolloni, Terminelli, Di Maio). E inoltre la scelta dell’antifascismo come soluzione unificante della cultura era anche una implicita riproposizione e puntualizzazione di una nozione di “impegno” in cui confluivano però tutte le formulazioni dell’engagement – da Gramsci a Vittorini, da Quasimodo a Carlo Levi, da Scotellaro a Dolci, ecc. Era, insomma, l’acquisizione senza riserve di una “linea rossa” della cultura novecentesca in cui sicuramente non c’era spazio per l’intellettuale “separato” e per una cultura aristocratica.
Il drammaturgo
Sul teatro di Diecidue dirò subito che esso, per fortuna, non è, né poteva essere, un teatro pedagogico, né un teatro di intrattenimento o, come si dice, di evasione. È piuttosto un teatro che obbliga a riflettere sulla condizione assurda e dell’uomo e, in generale, della società in cui l’uomo vive ed agisce. È dunque il teatro di un intellettuale critico e attento a capire i segni di questo assurdo che tutti respiriamo e con cui tutti abbiamo, volenti o nolenti, a che fare. E così Beckett sarà la coordinata vera e cogente fin dal primo testo (Noi, l’umanità), una “beckettiana” che risale al 1963. I vagabondi di Aspettando Godot, Vladimiro ed Estragone, non li ha inghiottiti il nulla da cui provengono. Essi sono tra di noi, siamo noi, e Diecidue, a distanza di anni, ce li riconsegna sulla scena quali emblemi perenni della condizione di una umanità sofferente, condannata ad essere tale per la perdita di vista della grandezza dell’uomo.
Il teatro di Diecidue è perciò lo “specchio“ attendibile di una violenza quotidiana che non risparmia nessuno: dal Caporale di Sua Maestà alla Margot de Il caporale (1964), ad Oreste e a sua sorella nell’Oreste (1965), all’Omino e allo Sconosciuto de Il cauto sentimento (1970), al Commendatore e ai due giovani imbelli di Adamo il serpente e le mosche (1971), a Maria e a Dena, due donne sole di Quando rientrò disse che era una bella festa (1971).
Tra i Triangoli (1973) e il Teatro minimo (1998), la seconda raccolta teatrale di Diecidue, non c’è soluzione di continuità. E però nei testi del Teatro minimo la violenza (della vita, della Storia), si coniuga con il gusto del paradosso, talvolta spinto all’eccesso, da cui scatta inevitabilmente il “comico”.
Ed è il paradosso che muove, come un invisibile filo, i personaggi improbabili, spettatori e giudici del rapporto fisico tra uomo e donna in un’alcova trasformata in un ring, di un improbabile Congresso (1976), o i ladri di Anche i ladri muoiono di venerdì (1977), emblemi dello squallore di un potere che del furto ha fatto la sua regola di vita, o l’irresistibile Federico III detto il semplice (1978), sopraffatto dalla sua atroce decadenza che pure si ostina a mantenere, inutile ciarpame, gli inservibili emblemi del comando – il Servo, l’Armigero, ecc.
Siamo dunque in presenza della messa in scena dello spaccato di una società fuori di sé, e di una deriva. Sul versante del teatro, per certe particolari tipicità, possono essere ricondotti i Racconti di Diecidue, alcuni dei quali sono veramente esemplari per quel tanto di autobiografico e di storia vissuta che vi si muove dentro.
E penso, in particolare, all’irresistibile Codice d’amore dove tutto è scrupolosamente previsto tranne il fatto dell’assenza di lei al programmato tête-a-tête. In questi racconti, dove la scrittura narrativa è tutta cose, scontornata e scarnificata fino all’osso, l’unico vero personaggio però è lui, Gianni Diecidue: lo zanni geniale, l’anarchico affettuoso, mite e gentile, incapace di uccidere perfino una mosca, il poeta, delicato e irriverente, che noi tutti avremmo voluto essere.
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