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L’albero del tonno ovvero scene del dopo-sindemia nella città d’acqua

 

Adu foto sito

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di Lauso Zagato 

Gli scenari del dopo sindemia [1] non rispettano alcuna delle promesse di “nuovo inizio” messe in circolazione durante il periodo di massima chiusura. Tralasciamo pure il fatto che tale periodo era stato accompagnato a partire da un certo momento dall’obbligo di vaccinazione coercitiva di massa, pluri-dose (bimbi inclusi), anche se gli effetti sono sotto gli occhi di tutti. Per il momento a tale riguardo sono sufficientemente istruttivi i report delle audizioni delle/ dei dirigenti di Pfizer davanti alle varie commissioni sui due lati dell’Atlantico, che girano per i social nell’imbarazzato silenzio generale. Non si potrà non tornarci, fra un po’ [2].

Qui ed ora vorrei concentrarmi invece sulle promesse per il dopo. La promessa solenne che tutte le altre raccoglieva era che alla sofferenza, al dolore, alla disperazione di quei mesi avrebbe fatto seguito una grande catarsi, un generale ripensamento delle condizioni del vivere quotidiano. Come dubitarne? – ci si assicurava, aggiungendo: “Ormai tutti hanno capito che come prima non si può andare avanti”. Certo, riflettendo sul fatto che erano sempre personaggi pubblici, soprattutto attrici e attori (più o meno) sulla cresta dell’onda a scandire in modo martellante, dalle loro ville, la campagna “iorestoacasa.it”, campagna le cui conseguenze nefaste per la vita di masse di persone chiuse nei piccoli appartamenti condominiali, per la psiche dei bambini, per il fardello di violenze domestiche in crescita esponenziale che accompagnava la chiusura, crescevano giorno per giorno, in contrasto con i volti sorridenti che dalle varie tv e social dispensavano il nuovo imperativo etico .. bè, se si fosse riflettuto a fondo su tutto ciò, qualche dubbio su quello che ci aspettava “dopo” sarebbe venuto. Da parte mia, a proposito di ricchi che fanno la morale ai poveri, avendo a disposizione una casa grande e un orto cittadino non trascurabile, sono – senza essere ricco – tra quanti hanno potuto reggere bene, e hanno (avrebbero? Si possono ancora esprimere dubbi?) tratto vantaggio di quella campagna. Diciamo meglio, rovesciando correttamente i termini: sono nel novero di coloro che hanno goduto del lusso di poter misurare solo a posteriori la gravità degli effetti collaterali di una chiusura, che personalmente era stata (relativamente) facile da tollerare e gestire.

Che ne è stato di quelle promesse? Cosa del diffuso, apparentemente unanime convenire circa il fatto che, sul piano energetico ed ambientale quanto meno, “nulla potrà più essere come prima”? Il ritorno di ambienti e paesaggi dimenticati – particolarmente mirabili nella città d’acqua, un’amica mi mandava istantanee e mini-video simili a gioielli – per quanto gravati dal coevo grande dolore e dalla preoccupazione che facevano loro da pendant, ci accompagnavano in questa promessa di catarsi prossima ventura. Quale contrasto con lo squallido presente, che vede Venezia ritornata terminale sciagurato delle peggiori prassi che il turismo di massa fuori controllo abbia messo in opera in Europa, esposizione permanente di (brandelli di) carne umana, facilitata in questo dalla quasi estate anomala e ultra-siccitosa che ci ha accompagnato fino all’inizio di novembre, e che avrebbe dovuto bastare, questa sì, a creare panico generalizzato!

E tuttavia vi è da chiedersi se siamo davanti solo ad una trista coazione a ripetere, o se si venga piuttosto materializzando qualche ulteriore tratto peggiorativo; per la serie, allora, del non c’è limite al peggio.

Venezia (ph. Consuelo Derio)

Venezia (ph. Consuelo Deriu)

Confermando che la città non può più andare avanti così, ecco la soluzione propinataci da un qualificato esponente del governo cittadino: via, via le barche e qualsiasi oggetto non a motore dal Canal Grande (e dintorni)! Quindi ovviamente via le gondole ad eccezione di alcuni percorsi a beneficio dei turisti facoltosi, percorsi comunque esterni, al massimo liminari rispetto al Canal grande (e a quello della Giudecca), spazi completamente liberi a vantaggio di imbarcazioni a motore, motoscafi, taxi d’acqua. La circolazione del traffico (e la capacità materiale di contenimento di visitatori, è implicito nel ragionamento) ne guadagnerebbe. Sparirebbero praticamente, per spiegare a chi non abbia capito, le associazioni remiere, tratto distintivo della città e del suo processo interno di socializzazione, di quanto resta insomma di Venezia come città viva e non museo, e sparirebbero quei punti-traghetto, gli attraversamenti longitudinali del Canal Grande che consentono a cittadini, a persone dell’entroterra che lavorano in centro storico, a turisti che conoscono la città e i suoi piccoli segreti, di spostarsi. Sparirebbe soprattutto il forte ruolo che nell’insieme le barche a remi – soprattutto quelle, in gran parte gondole, che attraversano longitudinalmente il Canal Grande – giocano per quantomeno difendere quel minimo di sostenibilità ambientale, nel senso di rallentamento obbligatorio del moto ondoso, che ancora è possibile. Su questo tema qualificati esponenti del Felze, l’associazione che raccoglie gli artigiani che operano sul ciclo della gondola, hanno scritto con chiarezza in questi ultimi anni; nella rete, per chi vuole cercare, si trovano tracce sufficientemente chiare di tali prese di posizione.

Certo, si può obiettare come la strategia dei poteri forti cittadini non sia in fondo cambiata; regga su di una progettualità bastarda, decisamente bi-partisan, che viene da lontano. Concordo pienamente; l’unica novità, appunto, è in pejus. Anche solo tre anni fa, nell’era pre-sindemica, qualcuno avrebbe avuto l’ardire di enunciare esplicitamente un simile programma? Ne dubito: l’esempio che viene alla mente riguarda gli anni ’90. La disciplina della circolazione delle barche in laguna fu oggetto di una complessa normazione, e quando tutto era (pareva) fatto una mano ignota (?) aggiunse all’elenco dei natanti protetti, tutti non a motore, “…e i taxi d’acqua”. Ma questo è il punto: tutto venne fatto di nascosto, se non per la vergogna, quanto meno per la consapevolezza che queste cose dovevano rimanere avvolte in una rete di complice opaci.*

41phyg-ivcl-_sx332_bo1204203200_Scusandomi per lo sconcerto creato nel(l’eventuale) lettore dal salto di argomento, unito al passaggio ad un tono più leggero di questo intermezzo, voglio svolgere una verifica legata al vissuto personale, di quanto temo – anzi annuso, come spiegherò – venga prendendo corpo. Vivevo un cerimoniale, nelle mie veloci colazioni di lavoro a Venezia. Chiedevo al bar di turno l’immancabile tramezzino (o panino) vegetariano (o con formaggio e verdure, alla peggio) ed altrettanto immancabilmente l’interlocutore mi proponeva tonno e olive, tonno e uova, tonno e chissà che. Al mio rifiuto mostrava sorpresa, talora incredulità, sempre fastidio. Allontanandomi, lo sentivo mormorare a qualche avventore “va ben vegetariano, ma gnanca el tonno! Ga’ da esare vegano sfegatato, quel là!”. Ciò mi induceva poi, al riparo in ambiente amico, al racconto, con l’immancabile, divertita conclusione circa la possibile esistenza di un albero del tonno, noto a tutti i baristi del centro di Venezia, ma che evidentemente sfuggiva alle mie inadeguate conoscenze del regno vegetale. Credo che la scena si sia ripetuta, con piccole variazioni, in gran parte dei locali della zona universitaria (certo, dalla seconda volta che entravo, cambiava il tono formale, avendo puntualmente qualcuno degli studenti avventori avvertito che ero un docente, ma la sostanza era sempre quella). Le piccole variazioni non toccavano mai i due termini chiave dell’espressione: il tonno, supposta mediazione culinaria adeguata per un vegetariano (ma perché poi proprio il tonno, povero, con la caccia spietata di cui è oggetto, tra tutti gli animali esistenti?), e il termine sfegatato.

Sempre in quei tempi remoti precedenti la sindemia, vivevo l’esperienza come qualcosa di leggero, molto veneziano in fondo. Probabilmente sbagliavo già allora, e quello “sfegatato” avrebbe dovuto mettermi sul chi vive. Dotato di intrinseca carica negativa, sfegatato è il termine con valore di sentenza che inchioda, nelle intenzioni di chi lo pronuncia, coloro che non hanno la posizione “giusta”. Ricordo l’imbarazzo di quando, assai giovane, mi venne data una supplenza in una scuola media di un paesino della bassa, con l’avvertenza da parte del Preside, in privato, che ero chiamato a sostituire una “comunistoide sfegatata”. Militante “d’acciaio”, mi trattenni dal ribattere, anche perché intimamente divertito: l’interlocutore sì che aveva fiuto, ci sapeva fare a intuire come la pensavano le persone con cui aveva a che fare! Ma per non divagare troppo: si era tifosi sfegatati per una squadra di calcio, purché esterna al ristretto circuito di quelle che vincevano sempre; personalmente non ho mai sentito dire iuventino sfegatato, o interista, o milanista, evidentemente erano scelte socialmente considerate (almeno in pianura padana) nella norma, quindi “giuste”. Romanista sfegatato, ahimé, quello sì, lo ho sentito dire spesso. Tuttavia si trattava di una disapprovazione sociale per lo più (almeno apparentemente) bonaria, quando non toccasse profili particolarmente delicati almeno. E così la vivevo con i miei osti veneziani, prima della catastrofe “disambiguante”.

Parlando di tonno, vegani, baristi sfegatati, non sto divagando. Siamo, tutte e tutti, quello che mangiamo. Come scrive un amico “filosofo nella città” [3]:«Quando mangia, l’uomo non compie un’operazione meccanica, ma i suoi gusti, le sue scelte (il crudo o il cotto, ad esempio) mostrano come si nutra, in verità, di cultura, producendo cultura, e manifestando, in ogni istante della sua esistenza, l’adesione a una cultura che lo sostiene e, motivandolo, propriamente lo fa essere». Da parte mia, ben al di là del crudo e del cotto, le scelte alimentari di cui sono portatore, e che mi sono costruito, sono vissute come una chiave identitaria di livello primario. Insomma, denunciando l’albero del tonno non giro attorno alla questione che conta: al contrario, ci sto dentro, dalla testa ai piedi.

Orbene: il punto è che, nel dopo sindemia, dovunque e in ogni campo, l’accento e i toni si sono fatti più duri, cattivi, e per molti segnali – ed eventi, buttando un occhio di sfuggita (ma neanche tanto ..) alla politica spicciola – appaiono destinati a peggiorare. La riprovazione sociale è diretta, inquisitoria, viene al dunque; costringe a dare ragione del comportamento non-socialmente omogeneo, non gradito. Il multi-oste/barista dei tramezzini, si è fatto nel frattempo più preparato e, forte dell’annusato nuovo clima in cui siamo calati, rovescia la domanda. Ti scopri così interrogato, valutato, devi spiegare, giustificare: “ma ‘eo, xeo’ vegetariano .. o xeo vegano?”, mi apostrofa, sibilante, rispondendo alla richiesta con un’altra domanda. Ovviamente non c’è scampo, se dico vegetariano mi verrà proposto il tramezzino col tonno. Sarà ancora l’albero del tonno a decidere se sono solo un vegetariano [4] o se invece sono vegano sfegatato, meritevole perciò di sanzione culturale.

5Quella che sto provando a dire, anche se partendo piuttosto a latere è, credo, una questione seria: c’è una forte ripresa dello strumento della sanzione culturale/sociale, tanto più stridente in quanto coincide con il venir meno di tale sanzione in campi in cui era precedentemente attiva, come la bislacca proposta di eliminare i natanti non a motore dalla laguna indica. Non è neppure necessario che la sanzione culturale/sociale sia un preludio a sanzioni di altro tipo, non ce n’è bisogno. Nessuno, a quanto ne so, pensa di sanzionare amministrativamente vegani o vegetariani, e tanto meno i costruttori di barche a remi da laguna in legno (anche se questi ultimi, continuando a denunciare i misfatti del motore in ambiente lagunare e a smascherare i seri danni ambientali, e ancor prima la truffa, delle gondole in plastica, beh, in qualche fastidio serio prima o dopo potrebbero proprio incorrere). La sanzione in discorso non è tuttavia priva di effetti: produce rottura ulteriore del tessuto sociale, incoraggia la chiusura identitaria, per comparti omogenei (per non andare lontano, io a questo punto sto seriamente pensando di entrare solo in locali in cui so già per certo che il malefico albero del tonno non cresce), facendoci dimenticare come non esistano identità chiuse, esclusive, nel senso che ciascuno è, in ogni momento, portatore di una pluralità di identità.

Per ricapitolare: nel corso della sindemia, anche a causa della sua folle gestione politico-sanitaria, hanno avuto luogo passaggi devastanti a livello di massa, passaggi i cui effetti si rovesciano puntualmente – sotto il profilo politico e socio/culturale – sulle forze che tale follia hanno pensato e gestito, ma poi di conseguenza su tutti noi. La sanzione cultural/sociale torna in auge, e il controllo di tale strumento sarà al centro della battaglia di potere nei prossimi anni. I personaggi veneziani (un po’ stereotipati, lo ammetto) che ho richiamato operano, per lo più inconsapevolmente, sulla lunghezza d’onda del messaggio del nuovo ministro della P.I. in occasione del 9 novembre, che a me risultava essere giornata mondiale contro il fascismo e l’antisemitismo (leggere il messaggio per credere, non ho tempo né voglia di soffermarmici). Anche in questo caso devo aver perso un passaggio, non diversamente da quanto avvenuto con l’albero del tonno.

 Peraltro il nuovo ceto politico di governo inaugura la propria stagione mettendoci certo del suo, facendo aggiustamenti di tiro in direzioni non prima toccate dalla sanzione cultural/sociale, in qualche settore andando anzi in direzione contraria, come a scandire il nuovo volto del potere (e da quello che dicono riescono effettivamente nell’intento di spaventarci alquanto). Ma, al netto di alcuni discorsi che sembrano purtroppo anticipare un attacco reale ai diritti civili e sociali delle varie minoranze, e al movimento delle donne soprattutto – stabilendo in questo una effettiva discontinuità con il recente passato – per il resto si tratta di aggiustamenti di linguaggio in un quadro di sostanziale continuità con la prassi precedente. Perfino in materia di migranti il peggioramento sarà, purtroppo, essenzialmente formale: una rivendicazione razzista dura e pura che prende il posto di una pratica più occulta. Voglio dire: abbiamo avuto in questi anni ministri dell’interno che hanno stretto accordi con capi-predoni della costa sud del Mediterraneo, con gli esiti omicidiari diffusi che si possono facilmente immaginare, non vedo nella pratica chi potrebbe fare di peggio.

Sono partito dalle promesse clamorosamente non mantenute, vorrei concludere con qualche altra osservazione sulla continuità con il pre-sindemia, riavvalendomi dell’esempio della città d’acqua, e della questione che sta dietro l’albero del tonno.

6Per la città d’acqua, la continuità con l’era pre-sindemica è chiara. È il dipanarsi di un progetto che viene da lontano, anche se si modificano e si modificheranno ancora i singoli steps: la liquidazione per soffocamento dell’artigianato d’arte si lega a quella dei conati residui di vita artistica della città. La sterilizzazione artistico-culturale è tanto estesa nell’antico cuore della Serenissima, oculatamente diretta e guidata da dietro le quinte, da rendere evidente come, mentre dovunque le autorità locali hanno come prima preoccupazione il fermare la fuga degli abitanti, le autorità cittadine veneziane presenti non meno di quelle del recente passato perseguano, con tenacia e successo, l’obiettivo dello svuotamento [5]. L’operazione, giusto quanto si diceva, è peraltro condotta in modo più esplicito, progressivamente brutale.

Quanto all’albero del tonno, l’incanaglirsi della situazione generale nel dopo sindemia e il diffondersi della sanzione culturale-sociale, all’insegna di una inevitabile reciprocità, portano con sé, lo si è visto, l’espandersi di atteggiamenti di chiusure identitaria. Ma non c’è solo questo. Dietro quell’albero malefico, in palese contrasto con tutte le promesse di nuovo inizio fatte durante la sindemia, cresce a dismisura l’allevamento intensivo degli animali da macello, divenuto ormai filiera autonoma ed auto-riproducentesi, fatta di decine, centinaia di milioni di capi sterminati ogni anno, esseri viventi che vivono brevi, terribili vite-non-vite. Qui continuità e novità in pejus si possono facilmente percepire con i sensi, annusare, nel senso tecnico della parola, da chiunque attraversi in auto la pianura padana, e in particolare certe zone di essa. Cupo annuncio, allora, di una sostanziale fusione tra mondo della vita quotidiana e scenari dell’incubo.

A mio avviso, lo dico sommessamente, ciò dovrebbe essere fatto oggetto di riflessione anche da chi non ha fatto determinate scelte etiche e non vuol sentir porre la questione in termini di diritti degli (altri) animali [6]. Il sermo medianus usato in queste paginette peraltro non si addice, è inidoneo alla dimensione del dramma: addentrarvisi richiederà un altro linguaggio, una più adeguata tonalità di discorso.Dialoghi Mediterranei, n. 59, gennaio 2023.

Dialoghi Mediterranei, n. 59, gennaio 2023 
Note
[1] L’espressione “sindemia” è stata coniata dal medico americano M. Singer negli anni ’90, ad indicare la necessità di prendere in esame non solo la malattia infettiva in sé (al tempo era l’AIDS) ma anche una serie di fattori di contesto. È stata poi ripresa dal direttore della rivista The Lancet (Horton) nell’estate del 2020 in relazione al Covid, alla luce del carattere fuorviante, nella fattispecie, dell’espressione pandemia. V. anche Bilotta F., Sindemia. La febbre di un mondo malato, ne: L’extraterrestre, settimanale ecologico de Il Manifesto, supplemento al numero del 10 dicembre 2020. Mentre, dice Horton, in una pandemia il contagio colpisce in modo indistinto le persone appartenenti alle diverse categorie (più o meno a rischio, va da sé) e si manifesta con uguale pericolosità (a grandi linee ..) per gli appartenenti ai diversi strati sociali, in una «sindemia» il contagio colpisce in modo grave soprattutto quanti presentano certe patologie e versano in particolari condizioni socioeconomiche. Nel caso in specifico del Covid, più che dalla causa scatenante diretta (l’epidemia in sé), il disastro è stato prodotto dall’intreccio con fattori biologici e sociali presenti qui ed ora nel nostro mondo.
[2] Al netto di alcuni distinguo, necessari in una indagine dedicata al tema ma non rilevanti in questa sede, non si può non condividere la posizione di Agamben sulla sostanziale impossibilità di “riconciliazione” con chi, all’ombra della “pandemia” ha fatto e detto ciò che è stato fatto e detto in questi due anni. Davvero, citando Lèvi-Strauss sulla Seconda guerra mondiale, l’Europa ha vomitato se stessa. V. Agamben G., Il complice e il sovrano, intervento alla Commissione Du.Pre. del 28 novembre 2022, al sito ttps://www.quodlibet.it/giorgio-agamben-il-complice-e-il-sovrano.
[3] Così si autodefinisce, nel suo contributo ad un volume su “diritto all’acqua, diritto al cibo”, che uscirà a primavera (Fondazione Ve.Ri.Pa.), l’amico, e per vari anni collega, Giuseppe Goisis, e a me pare un eccellente modo di rappresentarsi dopo varcata la soglia fatale della collocazione in congedo. V. Goisis G., Sete d’acqua, sete di cultura. Il valore simbolico del diritto all’acqua (di prossima pubblicazione).
[4] Nella vulgata che si tenta di imporre “vegetariano” starebbe a significare “persona cui non piace tanto la carne (o che ha problemi di salute) e quindi ne mangia poca”, mentre l’espressione vegano sta a indicare ogni forma di vegetarianismo vero e proprio, anche non coincidente con i protocolli vegani in senso stretto.
[5] La sterilizzazione artistica della città in corso d’opera è descritta in modo vivido nel libro di Baravalle M., L’autunno caldo del curatore. Arte, Neoliberismo, Pandemia, Marsilio, Venezia, 2021. Per quanto riguarda la sterilizzazione culturale applicata, con metodo, all’artigianato (tradizionale e) artistico, i siti delle associazioni di mestiere la raccontano in dettaglio. E comunque, per una valutazione approfondita, cfr.  Pinton S., Zagato L. (edited by), Cultural Heritage. Scenarios 2015-2017, Ed. Ca’ Foscari Digital Publlshing, Venice, 2018. Ivi in particolare l’intervista finale concessa ai curatori da due qualificati esponenti del mondo veneziano degli artigiani d’arte, intitolata Venice Dies whether It Is not Seen any More from Water: 831-839.
[6] Vorrei richiamare un passo significativo dell’intervista a Donna Haraway da parte di Federica Timeto in Timeto F., Bestiario Haraway. Per un femminismo multispecie, Mimesis, Milano, 2020: 29-42, passo in cui la studiosa americana, pur rivendicando il suo sostegno alla reintroduzione del bisonte nei territori dei nativi americani, data «l’importanza di questi animali per l’autodeterminazione, le cerimonie e l’alimentazione dei nativi», di fronte all’orrore ormai saldamente impostosi a livello globale degli allevamenti intensivi, riconosce la necessità di superare il proprio precedente atteggiamento ottimista, che giocava su quelle situazioni in cui animali da allevamento e uomini impegnati  tali allevamenti riuscivano a convivere (ivi: 36). Coerentemente Haraway ammette di aver dovuto modificare alcune convinzioni, dedicando maggior attenzione alle ragioni del vegetarianismo e riconoscendo la centralità della battaglia condotta in materia dall’eco-femminismo. Atteggiamento serio, che dovrebbe trovare riscontri, fare tendenza mi auguro. Da parte mia, se posso fare una osservazione appena critica, anche per evitare che la mia ammirazione per questa straordinaria figura di studiosa decada a cieca venerazione, direi che la scienziata sociale più anticipatrice e visionaria (nel senso alto) della nostra era, in questo caso per reagire ha dovuto aspettare di toccare con mano, di essere come tutti noi immersa dalla testa ai piedi, in una realtà di orrore che si profilava con chiarezza da parecchio tempo. Benvenuta allora in quel pianeta infetto, che proprio tu più di tutti ci hai aiutato a comprendere, consentendo di cominciare a prepararci alla dura lotta di sopravvivenza che attende le generazioni. Il richiamo è (ovviamente) a Haraway D., Chthulucene. Sopravvivere su un pianeta infetto, Nero, Roma, 2019.

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Lauso Zagato, giurista, già docente di Diritto Internazionale e Diritto dell’Unione Europea all’Università Ca’ Foscari di Venezia, è stato anche titolare del corso di Diritti umani e politiche di cittadinanza presso il Corso di laurea specialistica in Interculturalità e cittadinanza sociale della stessa Università. Si è occupato in particolare di problemi legati ai profili internazionali e comunitari della protezione della proprietà intellettuale, di diritto umanitario e di tutela dei beni culturali nei conflitti armati, nonché del patrimonio culturale intangibile e delle identità culturali delle minoranze e dei popoli indigeni. Tra i suoi lavori: La politica di ricerca della Comunità europea (1993); La protezione dei beni culturali in caso di c onflitto armato all’alba del secondo Protocollo 1999 (2007). Ha curato il volume collettaneo Verso una disciplina comune europea del diritto d’asilo (2006) e, più recentemente: Le culture dell’Europa, l’Europa della cultura (2012 con M. Vecco); Citizens of Europe. Culture e diritti (con M. Vecco); Cultural Heritage. Scenarios 2015-2017 (con S. Pinton); Il genocidio. Declinazioni e risposte di inizio secolo (2018); Lezioni di diritto internazionale ed europeo del patrimonio culturale (2019, con S. Pinton e M. Giampieretti). È stato tra fondatori, e poi Direttore, del Centro studi sui diritti umani. Attualmente coordina il gruppo di ricerca su “La difesa del patrimonio e delle identità/differenze culturali in caso di conflitto armato”, che opera sotto l’egida della Fondazione Venezia per la ricerca sulla pace.

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