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L’abuso delle parole. Un esempio emblematico di manipolazione disonesta

politica-di-aristotele-1578di Alessandro Prato 

La retorica fin dalle sue origini ha considerato oggetto privilegiato la funzione persuasiva delle parole (Reboul 1991: 22-23) cioè lo studio degli effetti che le parole sono in grado di ottenere sulle nostre vite e ha inserito l’analisi del potere delle parole all’interno di una riflessione più generale sul linguaggio e sul ruolo che esso svolge non solo sulla costruzione dei legami sociali, ma anche sulla loro tenuta. Si sono sviluppate così diverse teorie che hanno descritto i meccanismi e le forme della persuasione, sia a livello cognitivo – dato che le parole condizionano le nostre aspettative e convinzioni   sia a livello pragmatico – poiché esse influenzano i nostri comportamenti (Meyer 2004: 115-24).

Nell’ambito della cultura greca spicca la posizione di Gorgia che faceva scuola di retorica, insegnando all’aspirante politico l’arte di conquistare il consenso del pubblico attraverso la persuasione che le parole riescono a sprigionare. Al centro del suo insegnamento è la duplice funzione che la parola può svolgere – sia nosos che pharmakos – a seconda di chi la usa e dell’uso che se ne fa: 

«come infatti certi farmaci eliminano dal corpo certi umori, e altri, altri; e alcuni troncano la malattia, altri la vita; così anche dei discorsi, alcuni producono dolore, altri diletto, altri paura, altri ispirano coraggio agli uditori, altri infine, con qualche persuasione perversa, avvelenano l’anima e la stregano» (Enc. El.  pp. 929-33). 

L’importanza della retorica è dimostrata dal fatto che con le parole è possibile incidere fattivamente sulla struttura e l’essenza del reale, plasmando i modi di pensare delle persone e i ragionamenti che essi adducono a supporto delle loro opinioni (Thermes 2021: 7). Le ragioni che si portano per sostenere una tesi non sempre sono fondate e coerenti: è molto frequente nel discorso pubblico che per convincere l’interlocutore di una determinata opinione – e per indurlo ad agire in un certo modo – si faccia ricorso a salti logici, pregiudizi, usi ingannevoli del linguaggio, ragionamenti non attendibili. In questo modo si vuole costruire nella mente dell’interlocutore una visione del mondo distorta e che risulta funzionale solo per l’interesse del manipolatore (Rigotti 2005).

L’attenzione che la retorica ha da sempre dimostrato verso questo problema deriva dal fatto che essa considera la lingua un codice imperfetto, uno strumento comunicativo che tende a sfuggire di mano ai suoi utenti, soggetto a degenerazioni e fallacie di ogni tipo. Alla base di questa interpretazione della lingua ritroviamo un orientamento teorico generale definito “scetticismo comunicativo” che consiste in una concezione problematica della comunicazione, vista come un processo interattivo disturbato da diversi fattori che la rendono improbabile e rischiosa in quanto riconducibile a esiti spesso incerti e contraddittori. È raro infatti, se non impossibile, trovare due esseri umani che si servano delle parole e della sintassi per intendere le medesime cose: ciascuno farà piuttosto riferimento al suo livello culturale e a un proprio repertorio linguistico privato speculare alla sua unica e irriducibile identità; per questa ragione frequenti sono nelle discussioni i fraintendimenti, le incomprensioni, la confusione.

1538184900_9782130439172_v100Lo scetticismo comunicativo coinvolge anche il problema delle fallacie argomentative, dette anche sofismi, che costituisce un punto di incontro e un terreno comune tra la logica e la retorica. Gli elementi che caratterizzano l’uso dei sofismi con cui si cerca di uscire vittoriosi dalle dispute mettendo in crisi il nostro avversario hanno natura sia psicologica sia linguistica in senso stretto e si risolvono in tre fattori fondamentali che caratterizzano i discorsi pubblici: lo spirito di contraddizione, la discussione estenuata e l’impossibilità di definire in modo univoco ed esaustivo le parole.  

Questo tema è presente in uno dei testi chiave della disciplina: la Logique di Antoine Arnauld e Pierre Nicole (1662), originata dall’ambiente cartesiano del convento di Port-Royal e che rappresenta uno dei risultati più rilevanti e originali del pensiero linguistico seicentesco. I due autori analizzano un’ampia e articolata casistica delle fallacie; questa analisi è importante per comprendere il senso complessivo della Logique: costruire un trattato che possa consentire agli uomini la comunicazione nella forma più perfetta possibile (Simone 1969: XLIII). È utile studiare questi argomenti sbagliati dal momento che le trappole che essi dispongono possono essere evitate meglio una volta che essi sono ben compresi. La disamina critica degli autori di Port-Royal ha un valore sul quale vale ancora la pena di riflettere dato che le fallacie da loro individuate sono ancora oggi largamente presenti nel discorso pubblico e ne inquinano l’attendibilità e l’utilità (Prato 2021: 11-16).

Si veda il caso dell’argomento Non causa pro causa e quello della “generalizzazione indebita”. Con il primo si scambia per causa qualcosa che non lo è, si afferma che una cosa è causa di un’altra, senza sufficiente ragione. Ad esempio, l’affermazione secondo cui l’aumento delle piogge acide è dovuto all’espansione del “buco dell’ozono” non è accettabile perché è vero che le piogge acide sono in aumento, come pure è vero che il “buco dell’ozono” è un fenomeno in crescita, tuttavia le piogge acide dipendono dagli scarichi industriali, che a loro volta sono responsabili anche del buco dell’ozono. Il che non significa che il buco dell’ozono sia la causa delle piogge acide.

La fallacia assume anche la forma detta post hoc ergo propter hoc con la quale si dà per scontato che una relazione causale coincida con una relazione temporale, senza portare alcun elemento di prova in merito e fingendo anzi che i due tipi di rapporto siano interscambiabili. Si prende il “dopo di ciò” come se fosse “a causa di ciò”, «ad esempio Demade faceva responsabile la politica di Demostene di tutti i mali, perché dopo di essa era venuta la guerra» (Rhet. 1401b). È vero che la successione temporale è insita nel rapporto di causa ed effetto – dato che la causa precede sempre l’effetto – ma la relazione temporale non è la ragione sufficiente per giustificare un rapporto di questo tipo.

41g4wm7vt6l-_sx338_bo1204203200_Nel secondo caso (la generalizzazione indebita) ci troviamo di fronte a un ragionamento pseudo-induttivo che utilizza uno dei tipi di argomento basilari individuati da Aristotele, l’esempio, considerato tipico del discorso deliberativo e basato sull’inferenza induttiva che di per sé è una delle forme più frequenti del ragionamento su cui si basa anche buona parte della ricerca scientifica. In questo caso però il ragionamento non è accettabile perché ricava una regola generale a partire da un singolo caso, oppure da un numero non congruo di elementi presi in considerazione, per cui la conclusione, che si pretende generalizzante, è invece del tutto infondata.

Questo tipo di ragionamento fallace è alla base del pregiudizio e del razzismo come nel tragico caso di cronaca accaduto a Roma nel 2007 – quando un rom violentò e uccise una donna italiana – che innescò una campagna politico-mediatica tesa ad ottenere l’espulsione dei rom, almeno di quelli di recente immigrazione. In questo modo si ammette il principio della responsabilità collettiva che è una palese violazione di uno dei capisaldi della civiltà occidentale, cioè che la responsabilità è sempre personale, per cui se un individuo compie un reato ne deve rispondere lui e non coloro che appartengono alla stessa sua etnia.

Degna di nota è anche la discussione relativa all’ignoratio elenchi: la strategia consiste nell’ignorare la questione o l’argomentazione, rispondendo a una critica dell’avversario con un argomento non pertinente (Arnauld e Nicole 1969: 291). Questa tecnica argomentativa prende anche il nome di “aringa rossa” in riferimento al fatto che per sviare dalle prede i cani dei loro rivali, i cacciatori utilizzavano l’odore delle aringhe (Calemi e Paolini Paoletti 2014: 88) e fa parte della cosiddetta strategia della distrazione, con la quale si intende spostare l’attenzione del pubblico dalla questione in discussione, dalla cogenza del ragionamento, a elementi in quel contesto non rilevanti. Quando durante il IV Governo Berlusconi (2008-2011), per difendere la legittimità giuridica dei suoi atti, il presidente del Consiglio e i ministri che lo appoggiavano dichiaravano che essi non potevano essere sottoposti a giudizio, considerato l’ampio consenso che egli aveva ricevuto durante le elezioni politiche, utilizzavano appunto un argomento scorretto che confonde ad arte la legittimità giuridica con il consenso politico. La nostra Costituzione infatti riconosce che tutti i cittadini sono uguali di fronte alla legge indipendentemente dalle cariche che essi assumono e che nessuno può considerarsi esentato dal rispondere dei suoi atti nel caso in cui questi dovessero essere oggetto di contestazione. Non a caso infatti la legge n. 124 del 23 luglio 2008 (nota come “Lodo Alfano”) che istituiva l’immunità delle alte cariche dello stato è stata giudicata incostituzionale nel 2009 con sentenza della Corte costituzionale. 

L’argomentazione ingannevole fa anche spesso uso della “petizione di principio” che è interessante perché costituisce un tipico esempio di argomentazione capziosa nel quale si dà per scontato tra le premesse di un ragionamento ciò che si intende dimostrare. È il caso in cui, ad esempio, nel film di W. Allen del 1973 Amore e guerra, un prete per giustificare l’esistenza di Dio afferma che «Se Dio ha creato l’universo allora Dio esiste». Per Arnauld e Nicole (1969: 292) questo modo di procedere nell’ar­gomentazione è contrario alla vera ragione perché in ogni ragionamento quanto serve da prova deve essere più chiaro e più noto di quanto si vuole provare.  L’esempio che essi riportano vede lo stesso Aristotele – che pur aveva condannato questo tipo di ragionamento – quando affermava che le cose pesanti tendono al centro del mondo perché suppone che la terra sia il centro del mondo; così la conclusione che egli vorrebbe provare con questo argomento è solo presupposta:

«La natura delle cose pesanti è di tendere al centro del mondo, e quella delle cose leggere di allontanarsene. Ora l’esperienza ci mostra che le cose pesanti tendono al centro della terra, e le cose leggere se ne allontanano. Dunque il centro della terra è lo stesso che il centro del mondo» (ivi: 293).

Le idee della Logique sull’argomentazione scorretta hanno trovato eco e accoglienza nella filosofia linguistica dell’illuminismo e del liberalismo moderno e in particolare in Locke, uno degli autori più rappresentativi di questa linea di ricerca. L’Essay on human understanding (1690), oltre a costituire un testo centrale del dibattito sull’arbitrarietà del segno linguistico che ha caratterizzato la filosofia dell’illuminismo, ha anche il merito di aver rivisitato e arricchito la teoria delle fallacie argomentative. Riprendendo le idee centrali della retorica aristotelica, Locke infatti ha individuato altri tipi di fallacie, tra i quali quello dell’argomento ad hominem ha avuto ampia fortuna nella letteratura critica successiva: è un esempio di fallacia informale di rilevanza perché presenta nelle premesse del sillogismo degli elementi che risultano irrilevanti ai fini della giustificazione della conclusione, basandosi sul carattere, sulle qualità di una persona, o su una categoria alla quale la persona può essere ricondotta, per screditare la tesi che quella persona sostiene. Si rifiuta così la tesi di Giorgio che bisogna utilizzare le cinture di sicurezza dicendo che Giorgio è un ipocrita e un abile mentitore, trascurando il fatto che in questo caso la tesi sostenuta da Giorgio può essere valida indipendentemente da quello che pensiamo di lui.

Lo stesso argomento assume la forma del tu quoque quando per demolire la tesi di un avversario si sottolinea il fatto che la tesi che egli sostiene è in contraddizione con il suo comportamento, o con le circostanze in cui egli si trova: si contesta a Paolo di sostenere che fumare fa male facendo osservare che lui stesso continua a fumare. La strategia è scorretta perché in questo caso il fatto che Paolo non mette in pratica le conseguenze di ciò che sostiene non è di per sé una ragione rilevante per negare la bontà della sua tesi.

711qmj9auflUna tecnica manipolatoria su cui gli autori della Logique – passando in questo caso dal piano dell’inventio a quello dell’elocutio – concentrano la loro attenzione è l’abuso delle parole che riguarda tutti quei casi in cui chi parla usa una parola cambiando il suo senso in base alla sua convenienza senza che di questo cambiamento gli ascoltatori siano consapevoli. Molti termini del lessico politico e civile hanno subìto nel tempo questo processo di modifica, di confusione, quando non di cancellazione dei loro significati. Si veda ad esempio il caso rappresentato dalla parola “libertà” attualmente intesa soprattutto non in riferimento a tutti i cittadini, ma a coloro che nella competizione dimostrano di essere i più forti; una libertà invocata dai ceti economicamente dominanti al fine di preservare i propri interessi e privilegi; un concetto inteso in modo conflittuale rispetto all’osservanza delle leggi mentre è proprio grazie e in virtù della legge che trova la sua piena determinazione (Carofiglio 2010: 46-49).

Un altro esempio interessante, a dimostrazione di quanto le tecniche di propaganda sono efficaci e durevoli nel tempo, è dato dalla parola “rivoluzione”. Quando la pronunciamo pensiamo sempre a oppressi che insorgono contro gli oppressori, a sudditi che rovesciano i potenti, come con la decapitazione di Luigi XVI nel 1793, o con la fucilazione dello zar Nicola II nel 1918. Invece negli ultimi cinquant’anni è stata combattuta un altro genere di rivoluzione che già Aristotele nella Politica aveva preconizzato:

«Coloro che vogliono l’eguaglianza si ribellano se pensano di avere di meno, pur essendo uguali a quelli che hanno di più, mentre quelli che vogliono disuguaglianza e superiorità si rivoltano se suppongono che, pur essendo diseguali, non hanno di più, ma lo stesso o di meno degli altri [...] sono sempre i più deboli a cercare eguaglianza e giustizia, mentre chi ha la forza non ci pensa neppure» (Pol. 1302a, 1318b).

Una rivoluzione quindi che opera non dal basso contro l’alto ma dall’alto contro il basso, una rivolta dei dominanti contro i dominati che reagiscono in quanto hanno gli stessi diritti degli altri pur considerandosi superiori ad essi. Una rivoluzione insomma contro la democrazia, combattuta in modo invisibile, senza che la maggior parte delle persone se ne rendesse conto e, come ha affermato uno degli uomini più ricchi del mondo come Warren Buffett, che proprio per questo ha raggiunto i suoi obiettivi, è stata vinta (D’Eramo 2020: 9-12). La conferma della vittoria di questa guerra di classe si vede dal fatto che i dominanti che ne sono stati protagonisti lo ammettono senza ritrosia, mentre tutti gli altri, continuando a interpretare il problema secondo la vecchia impostazione, al solo nominarla se ne vergognano e ne prendono subito le distanze. Basta vedere in proposito il comportamento della sinistra occidentale che ha pienamente aderito alla posizione thatcheriana che non vede alcuna possibile alternativa al capitalismo finanziario globale (Fisher 2009: 1-15).  

Anche Locke è molto sensibile al problema del volontario fraintendimento del linguaggio che si manifesta nei casi di oscurità o scorrettezza deliberatamente ricercata nell’uso delle parole. Il filosofo inglese, oltre a sottolineare il grande vantaggio che l’uso dei nomi comporta, cioè quello di fissare le idee generali da cui dipende la possibilità stessa della comunicazione, è anche perfettamente consapevole dei difetti e dei pericoli connessi all’uso dei nomi, perché i nomi tendono a sostituirsi alle idee e vengono spesso utilizzati ignorando o non tenendo conto del loro significato. Si verificano così i casi in cui parole altisonanti come “grazia”, “gloria”, “saggezza” vengono dagli uomini usate senza alcuna connessione con idee determinate nella loro mente, oppure, soprattutto nei discorsi di argomento controverso, le stesse parole (in genere le più importanti, quelle che reggono l’intera argomentazione) vengono una volta usate per un determinato ordine di idee, e un’altra volta con un significato completamente diverso. Questo modo scorretto di procedere viene anche considerato nelle discussioni fra dotti come segno di dottrina e di arguzia, mentre invece è solo esempio di disonestà intellettuale (ivi: 554).

Le conseguenze negative dell’uso distorto della lingua sono rilevanti visto che da questo dipende l’impossibilità di far circolare liberamente le idee e di promuovere la comunicazione sociale,

«essendo il linguaggio il grande canale mediante il quale gli uomini comunicano gli uni agli altri le loro scoperte, i loro ragionamenti, la loro conoscenza, chi ne fa cattivo uso (…) rompe o ostruisce le tubature mediante le quali essa viene distribuita per il pubblico uso e vantaggio dell’umanità» (ivi: 574).

9788893711081_0_536_0_75Per ridisegnare la realtà dei fatti e conformarla alle forme di una manipolazione disonesta si fa spesso ricorso anche alla figura retorica dell’eufemismo con la quale si designano atti ignominiosi senza renderne l’orrore e anzi dipingendoli in modo neutro per disinnescare qualsiasi reazione negativa (Fisk 2005). Così nel linguaggio politico contemporaneo bombardamenti sistematici di centri abitati sono stati definiti “operazioni di pacificazione”, distruzione di campi coltivati e trasferimenti coatti degli abitanti vengono chiamati “rettifica delle frontiere”, l’uccisione indiscriminata di civili si chiama «eliminazione degli elementi inaffidabili» (Orwell 1946: 179), oppure la guerra in Iraq è entrata nella storia come operazione tempesta nel deserto (Bromwich 2008).

In Francia, fino alla presidenza di Jacques Chirac negli anni Novanta, non si è parlato di una guerra d’Algeria, bensì di événements d’Algérie, e la Germania chiamò a lungo il suo intervento in Afghanistan Stabilisierungseinsatz (intervento di stabilizzazione) e solo a partire dal 2010 il ministro della Difesa di allora, Karl-Theodor zu Guttenberg, cominciò ad usare il termine guerra. Questo modo di esprimersi è necessario se si vogliono nominare le cose senza evocarne un’immagine mentale (Orwell 1946: 179). Parlare per eufemismi può insomma portare a una sorta di “anestesia” di fatti sconvenienti volti a ingannare l’interlocutore, tanto più efficace quanto più è implicita e dissimulata (Lombardi Vallauri, 2019: 93 ss). Il ricorso agli eufemismi è utile anche per manipolare il passato in funzione della legittimazione del presente, per creare dei falsi storici al fine di restituire credito a un’ideologia. Per questa ragione, ad esempio, i nazifascisti di Salò sono stati definiti da Violante ragazzi di Salò, oppure da Ciampi giovani che fecero scelte diverse (Tabucchi 2006: 18-20).

61mvseyzmglLa presenza degli eufemismi nella comunicazione politica contemporanea è interessante perché ha come diretta conseguenza quella di erodere il significato proprio delle parole per l’affermazione di una lingua della menzogna, una “neolingua” che, non è concepita per ampliare le capacità speculative, ma per ridurle (Orwell 1948: 308).  Per questa lingua corrotta non è più importante il contenuto del messaggio e la sua corrispondenza con la realtà ma esclusivamente il fatto che sia efficace: solo la persuasione è importante indipendentemente dal modo con cui viene conseguita.

Queste forme propagandistiche sono possibili perché le parole, oltre all’idea principale che si considera come sua propria significazione, presentano altre idee che si possono definire accessorie alle quali spesso non si fa attenzione, anche se la risposta dell’interlocutore è da loro molto influenzata (ivi: 157). Di queste idee accessorie alcune sono congiunte alle parole sulla base di un uso diffuso e consolidato, altre invece sono congiunte alle parole solo da un atto individuale di coloro che se ne servono. È proprio questa seconda categoria – che dà luogo alle “parole disoneste” (ivi: 160) – a risultare dannosa perché risponde a un’istanza esclusivamente soggettiva che non rispetta le precondizioni per l’istituzione dei segni (Simone 1969: XLII).

La questione dell’uso scorretto e menzognero delle parole è molto importante per Arnauld e Nicole che condividono il principio espresso nel De oratore di Cicerone, secondo il quale se si parla bene si pensa anche bene (Manetti 1987: 202). La narrazione dei fatti non è un’operazione neutra come dimostra l’esperimento condotto da Loftus (1979) in cui prima è stato mostrato a un insieme di persone il filmato di un incidente automobilistico, poi i soggetti sono stati divisi in due gruppi: a quelli del primo è stato chiesto a quale velocità andassero le auto quando si sono “scontrate”, mentre a quelli del secondo è stato chiesto a quale velocità andassero le auto quando si sono “schiantate”. Con il risultato che quelli del secondo gruppo hanno indicato una velocità di gran lunga maggiore rispetto a quelli del primo. In un secondo momento agli stessi soggetti viene chiesto se avessero notato vetri rotti sulla scena dell’incidente (elemento assente nella registrazione) e gli appartenenti al secondo gruppo hanno indicato questo dato in percentuale doppia rispetto a quelli del primo. L’uso di queste due diverse parole nella formulazione della domanda ha insomma sollecitato in modo diverso la memoria ridisegnandola con una rilevante efficacia persuasiva. 

Il tema è di grande interesse perché la manipolazione ingannevole conduce inevitabilmente alla disinformazione: giocando con le parole si possono manipolare i fatti e, alla fine della catena, l’intera memoria collettiva. Le conseguenze negative dell’u­so distorto della lingua sono rilevanti visto che da questa dipende sia la possibilità di far circolare liberamente le idee, sia di promuovere la comunicazione sociale. I sistemi di potere hanno sempre sentito l’esigenza di controllare l’uso delle parole per plasmare il consenso e il discorso giornalistico spesso ha fatto propria questa esigenza diventando in molti casi prigioniero del linguaggio del potere, tradendo così la sua funzione critica di “quarto potere” essenziale per il buon funzionamento della democrazia.

ca9t9fozvmfguoeyyybc0fhvwfyqaz2md6cpftufqkri0tppb6x7nw_la81fkqzsd_3pcnkrdjk0tqnxw8d6_ogd6a0-xbg8j7al_a8xarrcqogaxlqg_skymhcoQuando nel 1938 Orson Welles trasmise un radiodramma basato sull’opera fantastica di Wells La guerra dei due mondi non intendeva ingannare nessuno, pur presentando il testo nello stile del giornale radio, aveva inserito prima e dopo il programma un avviso che rivelava la finzione. Nonostante questo il programma ha avuto effetti imprevisti e stupefacenti: migliaia di persone lo hanno scambiato per un notiziario e per qualche ora hanno creduto veramente che i marziani avessero invaso l’America e stessero massacrando le persone con dei raggi termici. Alcuni ascoltatori sono rimasti talmente terrorizzati da saltare in macchina e fuggire precipitosamente. Orwell rimase molto impressionato da questo episodio di creduloneria e suggestione collettiva (Thermes 2021: 10) basata sul fatto di scambiare il programma per un giornale-radio, innescando così il frame che vede nel notiziario una fonte di verità. Quello che però lo colpiva maggiormente era il fatto che pochissimi ascoltatori hanno provato a verificare la notizia, accettandola acriticamente senza cercare alcun tipo di conferma. In più alcuni di loro sapevano di essere all’ascolto di un’opera di fantasia e nonostante questo hanno creduto a questa assurda storia.

La disamina che abbiamo condotto delle tecniche argomentative scorrette e dell’uso ingannevole delle parole si propone dunque anche questo obiettivo: promuovere l’esercizio del senso critico nella fruizione dei media, sottolineare quanto sia importante ricorrere a più fonti di informazione evitando qualsiasi forma di pregiudizio e di adesione aprioristica; solo in questo modo si potrà non essere spettatori passivi facilmente manipolabili dalla società dello spettacolo di cui già Debord nel lontano 1967 aveva denunciato la sua funzione mistificatrice.

Dialoghi Mediterranei, n. 52, novembre 2021
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Alessandro Prato, è ricercatore del Dipartimento di Scienze sociali politiche e cognitive (DISPOC) dell’Università di Siena dove insegna Retorica e linguaggi persuasivi e Teoria e tecniche della scrittura. Tra le sue pubblicazioni si segnalano: Retorica e comunicazione persuasiva, Edizioni ETS, 2021; Comunicazione e potere (a cura di), Aracne, 2018; Linguaggio e filosofia nell’età dei lumi. Da Locke agli idéologues, I libri di Emil, 2012, oltre a diversi articoli su riviste nazionali e internazionali.

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