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La visualizzazione delle interazioni. Riflessioni di un’antropologa

Foto-Garofalo.

Palermo, Museo Salinas (Foto Garofalo)

di Concetta Garofalo

L’incipit  di questo mio contributo è una citazione dal Laelius de amicitia di Cicerone:

VII 23 Cumque plurima est maximas commoditates amicitia contineat, tum illa nimirum praestat omnibus, quod bona spe prelucet in posterum nec debilitari animos aut cadere patitur. Verum enim amicum qui intuetur, tamquam exemplar aliquod intuetur sui. Quocirca et absentes adsunt et egentes abudant et imbecilli valent et, quod difficilius dictu est, mortui vivant; tantus eos honos, memoria, desiderium prosequitur amico rum.

(VII 23 L’amicizia, dunque, comporta moltissimi e grandissimi vantaggi, ma ne presenta uno nettamente superiore agli altri: alimenta buone speranze che rischiarano il futuro e non permette all’animo di deprimersi e di abbattersi. Chi guarda un vero amico, in realtà, è come se i guardasse in uno specchio. E così gli assenti diventano presenti, i poveri ricchi, i deboli forti e, quel che è più difficile a dirsi, i morti vivi; tanto intensamente ne prolunga l’esistenza, il rispetto, la memoria e il rimpianto degli amici) (Cicerone, 1992: 78-81).

 XVI 56 Constituendi autem sunt, qui sint in amicitia fine et quasi termini diligendi. De quibus tresvideo sententias cumadfecti simus, quo erga nosmet ipsos; alteram, ut nostra in amicos benevolentia illoru erga nos benevolentiae pariter aequaliterque respondeat; tertiam, ut, quanti quisque se ipse facit, tanti fiat ab amicis. 57 Harum trium sententiarum nulli prorsus adsentior.

(XVI 56 Bisogna ora fissare i limiti dell’amicizia e, per così dire, la linea di confine dell’affetto. Vedo che sull’argomento circolano tre teorie e nessuna mi sembra accettabile. La prima sostiene che dobbiamo nutrire per gli amici gli stessi sentimenti che proviamo per noi; la seconda che il nostro affetto per gli amici deve corrispondere in tutto e per tutto al loro affetto per noi; la terza che quanto uno stima se stesso, tanto deve essere stimato dagli amici. 57 non sono affatto d’accordo con nessuna delle tre) (Cicerone, 1992: 100-101).

 “Amici” dunque! In questo mio contributo intendo focalizzare alcune delle perplessità derivanti dall’analisi, più che altro osservativa, dello stadio di integrazione e irruzione dell’uso dei social nelle interazioni di tutti i giorni. Parto dall’assunto che i social come Facebook non sono soltanto dei canali di espressione ma strumenti di costruzione di identità sociale. La questione è cercare di definire, in termini di assunti teorici, la natura ontologica di tale dimensione identitaria manifesta e le relative interconnessioni di natura epistemologica. Tale identità ha una sua datità? E cosa dobbiamo intendere per identità e datità in tali contesti effimeri e virtuali? Per tentare di rispondere a tali questioni, procedo ricorrendo prevalentemente agli assunti di pensatori come Hannah Arendt, Wittgenstein e Foucault, distanti nel tempo e che non hanno potuto, storicamente, vivere direttamente l’esperienza, attualissima e totalizzante, degli strumenti di comunicazione e interazione “social”. Inoltre, mi pongo da una posizione di antropologa-partecipante. Fino a che punto l’antropologo sta alle regole del gioco? Fino a che punto è disposto a stare al gioco, esiste un momento in cui può tirarsi fuori? L’osservazione e la partecipazione sono modalità complementari inscindibili o, per definizione, sussiste un dispositivo di sganciamento fra loro? E se sì, risiede nell’intenzionalità e nella consapevolezza dell’antropologo? Quando pronunciamo l’appellativo “NOI” e “LORO”, esattamente, come ci collochiamo (antropologi) nel sistema regolativo delle interazioni e delle pratiche d’uso dei dispositivi sociali?

ph.Garofalo

Roma, San Giovanni in Laterano (ph. Garofalo)

Il profilo di un social è un puzzle interconnesso con tutti i profili dai quali pervengono le reazioni ai post. Viene fuori un io identitario sociale apparente. Il protagonista assoluto all’interno di un profilo facebook è “Io” – o meglio – è un avatar frammentato nei post, nelle reazioni che mettiamo e che ricevono i nostri post. Contrariamente a quello che si può dare per scontato, si tratta di un quadro sincronico che esita dalla visione semantica del tutto. Anche se i post di un profilo si dislocano in successione temporale lineare, essi non si sovrappongono mai e costituiscono dei fermo-immagine testuali che non subiscono modificazioni nel tempo. Quindi la temporalità è cristallizzata in un insieme semantico sintattico. L’uso combinato dei linguaggi multimediali condiziona una sorta di spazializzazione di tale costrutto identitario. Lo spazio che si delinea è una fitta trama di intrecci fra le modalità di espressione dell’essere e del fare sociale.

In quanto sintesi di consapevolezza e intenzionalità, in quanto rappresentazione del pensato, percepito, sentito e immaginato, l’Io mediatico è manifestazione del pensare, del volere e del giudicare (Hannah Arendt). Questa apparenza si nutre di visualizzazioni, interpretazioni e attribuzione di significati. È in tal senso, che mi sento di poter attribuire datità a questo costrutto identitario. Una datità che, alla pari, di un corpo “fisico”, ha capacità e potenzialità, agentività e performatività, consistenza e densità, intensità e pregnanza, frequenza e ritmicità, ritualità e modalità di riconoscimento in relazione all’alterità.

Dunque, dall’applicazione degli assunti di Hannah Arendt, consegue che:

tabella

In ben altro contesto, Hannah Arendt riprende Kant nell’assunto della trasformazione che avviene fra l’oggetto, l’immagine mentale e il ricordo; credo che, alla stregua di tale rapporto trasformativo, si possa intendere anche il rapporto fra l’Io e la struttura identitaria che manifestiamo attraverso un profilo social. Quest’ultimo costituisce non un Alter-ego sganciato dall’Io generatore ma ne è l’idea sociale. Tale idea diviene essa stessa l’oggetto-soggetto.

L’individuo costituito da un’entità composita di corpo (datità fisica), anima e mente, trova un’ulteriore forma di rappresentazione di se stesso nella configurazione mediatica. Trovo molto utile, a tal proposito riproporre lo scarto dell’oggetto nell’analisi di Hannah Arendt proprio perché sottolinea il legame trasformativo tra l’oggetto del senso, l’immagine impressa nella memoria e il ricordo che diviene l’oggetto di pensiero.

Dunque, se provo a utilizzare tale analisi come strumento di lettura della dimensione-social, ne deriva che:

- il corpo umano (in quanto tale, oggetto del senso) trasformato in immagine della memoria di se stessi;

- sottoforma di ricordo, diventa oggetto del pensiero auto-riflessivo;

- trova un’ulteriore proiezione nella dimensione mediatica e nel profilo che appare in un social;

- diventando “oggetto sociale”.

ph.Garofalo

Roma, San Giovanni in Laterano (ph. Garofalo)

Tale oggetto sociale si sgancia dalla sua dimensione originaria per soggettivizzarsi e vivere di vita propria che appare nelle relazioni sociali intrattenute nei social network. È necessario avere consapevolezza di tali passaggi trasformativi! È necessario che la direzione di traduzione non si inverta a ritroso! La percezione “sana” di tali passaggi pretende che non si addivenga alla simbiosi delle apparenze e dei diversi livelli di esistenza dell’individuo.

La dimensione del reale e la dimensione mediatica sono necessariamente comunicanti, ma non mi sento di affermare che esse siano vicendevolmente interagenti e performanti con significatività direttamente proporzionale. La rappresentazione sociale del proprio “Io” costituisce un piano dell’espressione e, in quanto tale, risulta impregnato di riferimenti come riporto da Wittgenstein:

«Dicendo: “Quando l’ho udita, quella parola significava per me …” si riferisce a un punto nel tempo e a un modo di impiego della parola. (Quello che non afferriamo è, naturalmente, questa combinazione).
E l’espressione “Allora volevo dire …” si riferisce a un punto nel tempo e a un’azione.
Io parlo dei riferimenti essenziali delle espressioni per differenziarli dalle altre particolarità del nostro modo di esprimerci. E all’esprimersi sono essenziali quei riferimenti che ci permetterebbero di tradurre un modo di espressione, che altrimenti ci è estraneo, in questa forma, che ci è familiare» (Wittgenstein, 1999: 231).

In sintesi, la chiave di lettura, di interpretazione e di attribuzione di significati dipende dal tempo, dai contesti e dalle modalità di espressione. In tal senso, l’espressione stessa, atto di azione e comunicazione, àncora fra loro le due dimensioni. Secondo Wittgenstein, «l’insegnamento ostensivo delle parole stabilisce una connessione associativa tra la parola e la cosa» (Wittgenstein, 1999: 12) e la parola suscita rappresentazioni. Inoltre, esiste un livello differente dal denominare, costituito dalle modalità di descrizione dell’oggetto, di descrizione della parola e di descrizione dell’uso della parola. L’uso che ne facciamo comporta la modulazione del significato e ricade indietro sulla rappresentazione stessa che viene fissata e rievocata. In sintesi, la comunicazione si declina in diversi livelli di disambiguazione che ne modulano l’invio, la ricezione, l’interpretazione dei significati e la risposta di reazione.

La parola e la comunicazione continuano ad essere nuclei generativi di significato anche quando il relativo portatore cessa di esistere o modifica la sua persistenza nel tempo e nello spazio sociale. Come meglio si chiarisce nei frammenti 39-43 in Ricerche filosofiche:

(43) «Per una grande classe di di casi – anche se non per tutti i casi – in cui ce ne serviamo, la parola «significato» si può definire così: Il significato di una parola è il suo uso nel linguaggio. E talvolta il significato di un nome si definisce indicando il suo portatore» (Wittgenstein, 1999: 33).
ph.Garofalo

Roma, San Giovanni in Laterano (ph. Garofalo)

Wittgenstein spiega l’essenza del linguaggio in assenza dell’oggetto. Ancora una volta considero fondamentale questo assunto come strumento concettuale e di analisi per comprendere il distacco fra persona fisica e la proiezione mediatica dell’Io. Il denominare e l’uso dei linguaggi concorrono alla descrizione di un’idea complessa e composta e sganciano il nome dal nominato poiché, nella comunicazione massmediale, il nome, in quanto tale, non ha un diretto e univoco corrispettivo nella realtà fisica che ne estende il significato al di qua del web. La parola crea un’idea sociale, un costrutto sociale mutevole e vivido. In tal senso io tendo a dare molto rilievo all’aspetto agentivo della comunicazione sui social che ricade direttamente sull’attribuzione di significato. La parola scritta sui social, nell’atto stesso della scrittura, genera un costrutto sociale dotato di un forte potere performativo a tal punto capace di creare un portatore, per così dire, virtuale. Con tale idea sociale si relazionano i contatti che interagiscono all’interno del circolo di output e input, di produzione, ricezione e risposta dei messaggi.

Un assioma che ne deriva è che se facebook (o qualsiasi altro canale social) fa irruzione nella vita “reale”, e ne trasforma le configurazioni relazionali, o diviene pretesto di strumentalizzazione, manipolazione di persone, opinioni e azioni altrui, viene meno il criterio fondamentale dell’uso di un mezzo di comunicazione che è il diritto democratico delle libertà individuali di gestione-azione della propria identità sociale. Si crea un cortocircuito di ritorno con effetti dirompenti sulle interazioni umane.

Se i due piatti di una bilancia rappresentano la dimensione virtuale e la realtà fisica delle interazioni umane, l’idea sociale è la risultante della ricerca e dell’attribuzione di significati. L’equilibrio fra i due piatti è la conditio sine qua non per non inficiare l’esercizio delle libertà di pensiero, opinione e azione sociale.

ph.Garofalo

Roma, san Giovanni in Laterano (ph. Garofalo)

Wittgenstein insiste sull’accezione di “giochi linguistici” per riferirsi alle funzioni e agli usi del linguaggio e del rapporto fra parole, proposizioni, oggetti, significato e portatori di significato nel progressivo allontanarsi dalla datità fisica esperita, rappresentata e comunicata attraverso i linguaggi. Bisogna stare al gioco! Ogni dispositivo ha un sistema di regole d’uso che gli attori e gli spettatori conoscono, accettano e riconoscono. Gli spettatori sono al tempo stesso attori e costituiscono l’insieme delle visions del campo di azione e interazione. Il processo di de-sensibilizzazione e oggettivazione compiuto dall’antropologo implica l’elevazione al livello di meta-analisi, ma mai del tutto esterna al “campo”. Giudizio e consapevolezza sono prerogative contestuali che non estraggono gli attori dall’azione e non traducono l’attore in spettatore. Le jeau si gioca accettandone le regole, i ruoli e i posizionamenti. Cosa accade, invece, se gli utenti di social e community come facebook ne fanno usi diversificati e non condivisi o solo in parte riconosciuti e concordati? Ne deriva una visione distorta e gli imprevedibili usi miopi dei mezzi di comunicazione.

Altrove ho approfondito l’uso della metafora della rete e la definizione di “dispositivi” in Foucault e della sua estensione, operata da Agamben, ai sistemi di scrittura, ai linguaggi, alla navigazione nel web, all’uso di computers e cellulari:

«Il concetto di rete ricopre fondamentale importanza per spiegare le dinamiche di indentizzazione del Sé che avvengono nel passaggio dall’istanza-soggetto alle indivi- dualità plurime. L’aspetto della questione che ho intenzione di mettere, qui, maggiormente in evidenza è la “natura strategica” dei dispositivi analizzati da Foucault. […] A mio avviso, nell’era contemporanea, l’istanza individuale si configura nel dialogo sistemico-relazionale fra i molteplici dispositivi nei quali si inscrive l’agire del soggetto. In tal senso si rafforza l’idea di rete di dispositivi e delle sue potenzialità di creatività. Il processo di soggettivazione sottende la molteplicità di atti creativi. Questo processo poietico assume la direzione di ritorno performativo sul sistema di dispositivi interagenti. Le linee di forza, quindi, sono manifestazione delle inevitabili tensioni fra un sapere, sociale e collettivo, e le individualità plurime e complesse» (Garofalo, 2016).

Ne deriva la necessità di rendicontazione sociale nella duplice direzione della partecipazione sociale. Il feedback è continuo, immediato, fulmineo. La risultante dell’uso obbliga gli utenti in una rete di relazioni sociali, di obblighi di ricezione e invio di reazioni, conferme e disconferme. La disconnessione è un diritto ormai perduto! Pur disattivando la connessione internet, chiudendo il profilo di un canale social o limitandone l’uso, gli utenti, in un modo o nell’altro, restano imbrigliati socialmente e continuano ad essere circondati da un vorticoso connettersi e disconnettersi di invio e ricezione di post e varia messaggistica.

La relatività è articolata in gradi, intensità e livelli. Ai piani sociali, quello storico e culturale, quello individuale e collettivo, aggiungo il piano della rappresentatività sul quale si gioca la dialettica fra apparenze, identità e proiezioni e la relativa performatività degli atti di comunicazione e interazione.

Inoltre, per Wittgenstein le parole di un linguaggio concorrono a definire l’uso delle parole stesse.

(30) «La definizione ostensiva spiega l’uso – il significato – della parola, quando sia già chiaro quale funzione la parola debba svolgere, in generale, nel linguaggio» (Wittgenstein, 1999: 25).

Dunque, nell’atto di pronuncia è insita la conoscenza e il riconoscimento di un sistema di regole che permettono il gioco linguistico dell’informazione/comunicazione. Nel momento, nell’atto della pronuncia della proposizione/parola, la denominazione degli oggetti diventa azione. Nel senso che raramente la denominazione si esaurisce nel parlare di “…”, nel chiedere l’oggetto “…” La denominazione attiva l’intenzione del fare e apre un sistema di mondi possibili della ricezione del messaggio e dell’attualizzazione del programma comunicativo originale. A ciò si accompagnano i gesti, il tono, l’accentazione, i contesti, le inferenze, etc. In virtù del gioco linguistico, l’asserzione e l’assunzione impongono i termini dell’“intendere”, ma, necessariamente, l’intenzione del parlare attiva un sistema, solo, di probabilità dell’intendere poiché l’esito performativo del comunicare dipende da numerose interconnessioni afferenti alla ricezione.

ph.Garofalo

Palermo, Museo Salinas (ph.Garofalo)

La comunicazione pubblicizzata sui social è un esempio molto interessante da questo punto di vista, poiché l’asserzione riesce ad assolvere in sé la funzione di comando dell’intendere. La ricezione che ne consegue, poi, genera quelli che io amo definire mondi possibili. L’esternalizzazione di tali mondi possibili è la cosiddetta “reazione” o “commento” al post. A questo punto della comunicazione, l’azione linguistica si sposta, mutando il baricentro del sistema del gioco. In quanto, l’autore della risposta può anche, autonomamente reagire all’asserzione/comando non rispondendo, oppure visualizzando, oppure scrivendo, intervenendo con parole scritte, simboli, icone, immagini, registrazioni/video, forme miste come i “meme”, etc.; ciò che mi preme mettere in rilievo è che le modalità di risposta costituiscono un gioco linguistico – altro – rispetto alla comunicazione iniziale. Chi è l’arbitro in una così fitta rete di regole non condivise, non sempre esplicite, ma spesso subite inconsapevolmente? Spesso, scorriamo i post in maniera veloce e sbrigativa, rispondendo con l’uso di simboli e icone, applicando un codice di obbligo di risposta. Se esiste un diritto alla comunicazione libera esiste il suo corrispettivo dovere di risposta?

Ai tempi del mio arrivo sui social avrei risposto negativamente: alla libertà di scrittura deve necessariamente seguire la libertà di risposta. Ora, dopo qualche anno di studio e di pratica della comunicazione sui social e di uso di essi ai fini relazionali, sociali e di lavoro mi rendo conto che la mia opinione sia radicalmente mutata. Nel momento in cui scrivo, ho preso coscienza che entriamo a far parte di un sistema fortemente ritualizzato che ci imbriglia in una rete di relazioni comunicative che si impongono anche nel mondo reale e fisico delle conoscenze. Gli amici virtualizzati dai social si dimostrano più esigenti degli amici in “carne ed ossa”. Se non telefono ad un’amica per settimane a causa dei numerosi impegni di lavoro, quando la rivedo, proviamo entrambe il piacere di ritrovarsi; se non rispondo anche solo con un “like” al selfie del pomeriggio, vengo meno al codice del rispetto e dell’interazione dell’interconnessione. Rimango restia, rimango refrattaria nei confronti di tale uso della comunicazione mass-mediale! Ma le questioni restano, per definizione, aperte.

 Dialoghi Mediterranei, n.37, maggio 2019
Riferimenti bibliografici
Agamben G., Che cos’è un dispositivo?, Nottetempo, Roma, 2006.
Arendt H., La vita della mente, Il Mulino, Bologna, 2009.
Cicerone, La vecchiaia. L’amicizia, Garzanti, Milano, 1990.
Foucault M., “Il giuoco” in Eterotopia. Luoghi e non-luoghi metropolitani, Mimesis, Milano, 2005 (1994).
Garofalo C., “Habitus e dispositivi. Isotopie dell’agire”, in Dialoghi Mediterranei, n. 20, luglio 2016.
Wittgenstein L., Ricerche filosofiche, Einaudi, Torino, 1999.
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Concetta Garofalo, laureata sia in Lettere sia in Studi storici, antropologici e geografici presso l’Università degli Studi di Palermo, studia i molteplici aspetti teorici e pragmatici della agency e i processi, a breve e lungo termine, di interazione fra soggetti, instaurati nel mondo contemporaneo in relazione ai sistemi culturali di appartenenza, in spazi e tempi configurati soprattutto dai contesti urbani e dai contesti di apprendimento. La sua prospettiva di ricerca interdisciplinare attinge agli ambiti di studio più specifici dell’etnopragmatica e della sociosemiotica.
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