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La storia dei Pupi nella vita di Mimmo Cuticchio

Posted By Comitato di Redazione On 1 marzo 2018 @ 00:36 In Cultura,Letture | 1 Comment

copertina di Antonietta Sammartano

Se il soggetto di questo articolo è Mimmo Cuticchio ci si dovrebbe aspettare la critica di uno spettacolo teatrale, considerata la sua ormai indiscussa e rinomata attività di puparo, ma in questo caso si tratta invece della recensione di un libro: Alle armi, Cavalieri! Le storie dei Paladini di Francia raccontate da  Mimmo Cuticchio (Donzelli editore 2017).  Decisamente un’anomalia se, come è noto, l’Opera dei pupi è l’espressione di una tradizione orale, puntellata al massimo da scarni ed elementari copioni. Proprio questo è il motivo che ha spinto il grande artista palermitano a  voler fermare in un testo scritto la folla di personaggi e l’incalzare di eventi che una lunga tradizione gli ha consegnato e che,  teme, possa lentamente disperdersi e svanire. 

Una tradizione che prende le mosse dalla letteratura medioevale francese, le Chansons de geste, e trova in Italia un cantore, fra la fine del XIV e i primi decenni del XV secolo, in Andrea da Barberino autore dei Reali di Francia e del celebre e fortunato Guerrin Meschino. Mancano testimonianze di interpretazioni teatrali di queste diffusissime opere, che probabilmente si diffondevano e perduravano nella memoria grazie ai contastorie, anche se nella Spagna di Cervantes affiorano tracce di esperienze di teatro (El retablo de Maese Pedro nel Don Quijote). Le prime presenze di pupi, in Sicilia, quelli di farsa, sono della fine del ’700, ma in questo caso si tratta di maschere popolari, con ascendenze che sembrano risalire alla Commedia dell’arte, e trovano nelle vastasate la forma più consona al pubblico popolare a cui si rivolgono.

Bisogna aspettare la metà del XIX secolo per incontrare, rappresentate con marionette, le storie dei Reali di Francia, a Roma negli stanzoni di piazza Navona, e a Napoli, al Carmine, nel teatro di Donna Peppa (Giuseppina D’Errico Petito madre del famoso Pulcinella Antonio Petito). Sarà soprattutto il fortunatissimo racconto,  I Reali di Francia, di Giusto Lo Dico, pubblicato a puntate a Palermo (metà dell’800), ampliato in piccola parte da Pietro Manzanares e seguito più tardi (1896-97) dal più ampio lavoro di Giuseppe Leggio, a dar corpo ai pupi armati, animati dall’alto, veri e propri  attori teatrali, di notevoli dimensioni (da 80 cm. a 1 m. quelli palermitani, fino a 1 m. e 30 i catanesi), che si diffondono in tutta la Sicilia, talvolta varcano il mare fino alle terre dell’Africa del nord, e, inaspettatamente, giungono anche in Belgio e nel nord della Francia.

Non è il caso, in questa sede, di ripercorrere tutta la vicenda dell’Opra, che ha attraversato quasi due secoli con alterna fortuna (struggente in Verga la figura del puparo Don Candeloro, che vede frantumarsi il suo mondo di poesia e autenticità nella disaffezione degli spettatori), quell’Opra che, sfidando la concorrenza di tante altre forme di spettacolo, ha  resistito con ostinazione grazie ad alcune grandi famiglie di opranti, fino ad ottenere nel 2001, con la ratifica del 2008, il prestigioso riconoscimento UNESCO quale patrimonio orale e immateriale dell’umanità.

Pupi-dellOpera-di-Catania.

Pupi dell’Opera di Catania

Questo volume  si colloca, come afferma, nella sua nota introduttiva, lo stesso editore Carmine Donzelli, nel solco della linea editoriale intrapresa nella sezione Fiabe e Storie, «sulle orme di Giuseppe Pitrè e delle sue raccolte di fiabe popolari siciliane». In effetti i 107 episodi presenti nel testo sono quasi un’unica e ininterrotta storia, che, muovendo dalla nascita di Carlo Magno, si snoda fra numerosissimi personaggi e mirabolanti avventure, fino alla rotta di Roncisvalle e alla morte di Orlando, il più grande e valoroso paladino di Carlo.

A differenza però delle storie o fiabe che conosciamo, in cui il racconto si svolge linearmente, con un prima e un dopo, e l’io narrante  si distanzia dalle vicende narrate, qui Cuticchio si  colloca, con forza quasi fisica, nella descrizione degli eventi, che sembrano affollarsi, intersecarsi, zampillare uno dall’altro, per poi chiudersi all’improvviso lasciandoci in attesa, come quando in teatro egli chiude lo spettacolo con un «e ora nuautri doccu a la lassamu e nautra vota a cuntamu». Basta scorrere una pagina e il linguaggio rivela subito questo impianto drammaturgico: “intanto”, “frattanto”, “mentre”, “finalmente”, “ecco” “quand’ecco” si ripetono anche più volte nella stessa pagina, a indicare un andirivieni di personaggi, fatti, paesaggi che si rincorrono senza posa, mentre noi lettori non possiamo non restarne coinvolti, anche perché l’autore ci interpella più volte con il suo «Signuri mei», che richiama  la nostra attenzione, e poi spiega, chiarisce, spesso svela la trama nascosta degli eventi: «Ora signuri mei, dovete sapere che i cavalieri di queste nostre storie spesso si smarriscono, ma così come si perdono poi si ritrovano…» , oppure ci informa  di quello che Astolfo e Orlando, caduti in un’imboscata e smarriti in un bosco, non sanno: «Quell’altro vecchio – Orlando non lo sapeva, ma noi sì – era il mago Malagigi, che agiva in favore dei paladini» , o quando a Rinaldo e Florindo, mentre attraversano un fiume, capita di salire su un barcone e il capitano regala loro una splendida armatura e un cavallo nero come la notte e, «Ora signuri mei, voi vi domanderete: Ma si regalavano così facilmente armi e cavalli?. No! E infatti lì c’era lo zampino di mago Malagigi..

Mimmo Cuticchio

Mimmo Cuticchio

Il testo, che segue la traccia delle vicende rappresentate nel teatro dell’Opra, è percorso da vocaboli e situazioni tipici delle fiabe: maghi, draghi, filtri incantati, elmi, spade prodigiose che hanno un  nome: Chiarenza, Almanza, Fusberta, Durlindana, cavalli alati, fontane, anelli, scudi che possono trasformare, nascon- dere addormentare, e poi il rincorrersi di nomi inconsueti, ma di grande musicalità: Aldalabella, Fedesmonda, Mandricardo, Polinarda, Bulugante, Rodomonte, in cui si affollano allitterazioni e assonanze. La lingua con cui le vicende sono narrate è l’italiano, ma Cuticchio non ha dimenticato la “sua lingua”, il siciliano, presente nelle parti in corsivo, che connotano, in una apparente forma metrica, quei momenti del racconto da immaginare detti con la scansione martellante e sillabata, accompagnata dal ritmico battere del piede, che è tipica del cunto.

Nell’introduzione al libro Cuticchio, dopo aver ricordato la sua infanzia e l’ adolescenza vissute tra le panche e le quinte del teatro dei suoi genitori, Giacomo e Pina Patti, parla del rapporto con quello che considera il suo maestro nell’arte del cunto, Peppino Celano, l’ultimo dei cuntisti. È da lui che Cuticchio riconosce di aver appreso, carpendogli quasi di sotterfugio, nel contatto quotidiano, i segreti della mirabolante dizione del cunto.

Anche Antonio Pasqualino nel suo  molto documentato L’Opera dei pupi (Sellerio 1977), riconosce che, dopo la morte di Celano, «l’unico che sia capace di recitare il cuntu con l’antica scansione è il giovane puparo Mimmo Cuticchio». Se questo giudizio era vero quaranta anni fa, tanto più lo è oggi, quando dopo aver affinato nel corso del tempo le sue grandi doti attoriali, Cuticchio ha fatto ormai del cunto la sua espressione più incisiva, capace di suscitare nello spettatore l‘emozionante attesa del culmine degli eventi narrati, per cui quasi si trattiene il respiro fin quando non giunge la catarsi finale. La stessa tensione che percorre questo bellissimo volume, adatto a grandi e piccini, arricchito, nella elegante veste tipografica, dalle espressionistiche, oniriche illustrazioni di Tania Giordano.                                                                                                                                                            Nella sua prefazione al libro, Giovanni Puglisi, dopo aver individuato «la grande novità culturale di questa raccolta che non sta solo nell’unicità dell’operazione editoriale»,  afferma che «Cuticchio con quest’opera, per così dire unica nel panorama letterario contemporaneo, chiude un ciclo culturale e lancia un forte messaggio morale», quello della «grazia ontologica del narrare», per dirla con Pier Paolo Pasolini, e della necessità della conservazione della memoria.

Dialoghi Mediterranei, n.30, marzo 2018
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Antonietta Sammartano, ha insegnato nei Licei classici lettere italiane e latine; diarista d’onore al Premio Saverio Tutino Pieve Santo Stefano con Campo San Polo 2024 – Ricordi 1943-45, presidente onorario di U.NI.MA Italia (Union Internationale de la Marionnette), si occupa come ricercatrice di Teatro di figura. Ha redatto le voci relative all’Italia per l’Enciclopedia Mondiale della Marionetta edita da L’Entretemps-Montpellier-Parigi.   
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