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La scrittura necessaria di Vincenzo Consolo, sapiente speziale di parole
Posted By Comitato di Redazione On 1 marzo 2022 @ 02:15 In Cultura,Letture | No Comments
di Nicola Grato
«… non possiamo non sperare che la figlia di Demetra, la fanciulla assopita nell’inverno della grotta, negli ascosi meandri, si scuota, esca dal suo torpore di pupa, salga sopra il carro d’oro, torni alla superficie, risorga alla luce. Come fa l’ape nella primavera, come fa la primavera della storia». Con queste parole si conclude La Sicilia passeggiata [1], opera di Vincenzo Consolo ispirata al libro scritto nel XVII secolo dal gesuita Francesco Ambrogio Maja dal titolo che ricorda quello consoliano: Isola di Sicilia passeggiata.
Che la vergine dormiente Rosalia si risvegli, risorga e getti nuova luce sulla strada della storia, sulle strade tortuose, dimenticate, nascoste di questa Sicilia. E verrebbe da augurarsi sempre la risurrezione, l’evento che scardina e sconvolge spazio e tempo, la vita vera che non cancella dall’esistenza la morte ma la comprende e la significa.
Dieci anni fa moriva Vincenzo Consolo, scrittore magmatico, sapiente speziale di parole, rigoroso testimone del proprio tempo atroce. Passeggiare, volare da un capo all’altro dell’isola, planare come poiana sui campi gialli di Kore, rinvenire in ogni pietra, in ogni muro una storia da raccontare. Passeggiare quale comando etico per l’uomo, girovagare e imbattersi nelle feste, nelle tradizioni che in tanti vorrebbero immobili e invece mutano al mutare delle tensioni, dei desideri delle donne e degli uomini.
Apparentabile a questo libro di parole e immagini (del fotografo Giuseppe Leone, autore della celeberrima fotografia ai tre giganti della letteratura italiana del secondo Novecento) è L’olivo e l’olivastro, sorta di racconto – saggio e pietra miliare della commistione felice tra generi che è la cifra dell’intera opera di Consolo. Gianni Turchetta nota nella Prefazione all’edizione del 2021 de La Sicilia passeggiata come i verbi di moto adoperati da Consolo segnino ritmicamente i passaggi da un luogo a un altro della Trinacria, e certamente a questi verbi si accoppiano le fotografie di Leone: immagini non da cartolina ma racconti essi stessi, chiavi interpretative dei luoghi, a ben osservare.
Il paesaggio siciliano diventa così urgenza civile di parola e arte mai fine a se stessa ma rispettosa del senso di quei luoghi, delle memorie recenti e ancestrali che li abitano. Arte politica, quanto questo binomio ai giorni d’oggi suona stridente, datato, persino ingenuo. E quanto invece noi tutti abbiamo bisogno di proposte artistiche e letterarie informate da una tensione etica forte, oltre che da una forma non sciatta e commerciale: il tempo dell’utile ha relegato il girovagare straniero, da forestieri sempre e ovunque, a pratica residuale. E residuali sono pure diventati i luoghi, sempre più contenitori di attrazioni per i turisti, sempre più borghi e sempre meno paesi.
Lo sguardo di Consolo scruta, ricerca narrazione anche dove sembra essere calato il silenzio profondissimo della preistoria: ascoltare gessi e caligini dell’Isola, coglierne movimenti impercettibili della crosta, il travaglio del magma e dello zolfo, il paesaggio di giallo e pietrame ma anche i giardini odorosi che ancora ci sono, ma vanno cercati. Ricercare passeggiando, camminare alla ricerca dell’abbandono e del residuo di una civiltà votata allo spreco e al consumo: diremmo in questo caso Consolo affine nella tensione etica al Thoreau di Camminare: «…La speranza e il futuro per me non sono nei prati e nei campi coltivati, non nei villaggi e nelle città, bensì nelle paludi impervie e instabili»[2].
Il viaggio passeggiato comincia dalla Pantalica ctonia, luogo liminare e di contatto col mondo dei morti, e finisce a Palermo, nella grotta della Santa bambina: nel mezzo di questi due estremi e attraverso un viaggio dello sguardo e del corpo, Consolo ci consegna pagine indimenticabili sulle città del miele e delle api, sui poeti antichi Teocrito, Virgilio, Silio Italico che ne hanno cantato. Il lavoro dell’uomo e la poesia, temi costanti e domande sempre aperte nei testi consoliani.
Una fotografia di Leone s’affianca alla storia del miele, una finestra aperta, la visuale, appena velata da una cortina, su Noto, il nitore giallo della pietra ricostruita dopo l’immane tragedia; a questa fotografia assomiglia lo sguardo compassionevole e delicato di Vincenzo che scrive:
Il terremoto che squassa, apre voragini, fa vittime mentre c’è sempre chi fa affari e s’ingrassa: la storia del Belice, la storia dei paesi “traslati”, portati in piano, chiusi oggi in una mestizia di Rovine postmoderne; la storia di Messina, città che non esiste, di Noto escrescenza barocca, convolvolo di forme, pietre abbaglianti e mirifiche che raccontano lutto, tendine accostate alle persiane, pudore siciliano che è mostra di sé, spasimo: «Sono nato a Gibellina, di anni ventitré. Imparai il meccanico a Salemi, non mi ricordo niente, sentii un gran boato e il tetto che s’aprì, ho visto il cielo per un attimo, le stelle…»[3]. Smarrimento, sgomento di chi non può narrare, e l’impossibilità della scrittura è legata al lutto che tutto imbalsama.
Ma da questo lutto sempre presente può rinascere la parola, una parola poetica faticata, una parola che sia racconto di una condizione nomade e sempre straniera: L’olivo e l’olivastro è in questo senso il libro rappresentativo di una condizione sradicata che Consolo porta con sé, che informa la sua scrittura: «Corre il treno per la terra delle madri ruvide, per la costa alta e bassa di questa regione aspra sconsolata»[4]. La scrittura di Consolo dà voce alle persone pur non obliterando la propria; ci appare feconda la sua proposta di una scrittura sì dell’esilio ma di un esilio da cui egli intesse un dialogo con chi è rimasto, con chi non è partito.
Quella di Consolo è attenzione etnologica e poetica, un amore nei confronti del Mondo nei suoi infiniti mondi, infine forse il tentativo di superare questo tetro individualismo che ci separa, ci rinchiude nelle case e non ci permette di amare il bene del giorno.
La scrittura di Vincenzo Consolo è terremoto, pittura, inchiesta; è comando etico, stile inquieto, vagante, nomade per definizione e scaturigine: l’isola è uno scoglio piantato nel mare, ma può sempre fuggire, mettere vela all’oltremare, financo sparire. Consolo scrive necessariamente, sentiamo l’urgenza nelle sue parole, un’urgenza innanzitutto poetica, ricerca di verità molteplici, ascolto di voci, presenza della storia.
Le storie del terremoto, le storie delle raccoglitrici di gelsomino a Milazzo, la pesca del tonno, e ancora la disillusione amara di un barone collezionista di gusci di chiocciole. Una scrittura che ha riferimento a scene pittoriche, a versi di poeti classici; una scrittura di chi è straniero nel senso todoroviano di chi «ha perduto la patria senza acquistarne un’altra, uno che vive di una doppia esteriorità»[5].
La scrittura di Vincenzo Consolo oggi, in questi nostri tempi di guerra, cosa ci dice? Ci parla? Interroga le nostre coscienze? E noi siamo capaci, leggendo Consolo, di fare attenzione a quegli scrittori oggi vivi e discosti, lontani da ogni mercato editoriale come, ad esempio, Rocco Brindisi? Siamo capaci di amare profondamente questi paesi nei quali viviamo, dove ancora possiamo ascoltare i racconti delle persone e leggere – sbiadita ormai, quasi cancellata dagli anni – la scritta di un poeta che animava le feste?
Poesia e comando etico informano i libri di questo siciliano esiliato. Parole pesate, gravide e mai cesellate per gusto meramente esornativo. Ripensiamo a quella pagina magnifica de Il sorriso dell’ignoto marinaio, la lettera che il barone Enrico Pirajno scrive all’avvocato Interdonato:
Qui Consolo raggiunge, a nostro avviso, una delle vette più alte della sua scrittura: la parola quale strumento di narrazione e quale meccanismo di interrogazione di sé; la scrittura che è testimonianza corporale e non gesto tecnico solamente, affinché i nomina nuda si riempiano di vite, memorie, racconti. Allora la storia di questo barone collezionista di lumache, limacce, babbaluci è anche la storia, come in uno specchio o in più specchi mobili, di Salvatore Spinuzza, del servo Sasà, del poeta zappatore Carmine Papa; è la storia dei poveri cavatori di pomice di Lipari, di Messina città fantasma e delle Isole naviganti, le Eolie, e dell’immobile Palermo con la sua provincia di signorotti corrotti e mafiosi; la storia di quelle scritte dei condannati a morte, testamenti ineludibili, spietati documenti della rivolta di Alcàra Li Fusi e dell’oltraggio all’uomo e alla sua libertà: chi si rivolge alla madre in punto di morte, chi rivendica una lotta per i beni sacri della terra e del pane, chi ricorda al mondo la fame dei figli che porta alla tragedia dell’omicidio nei confronti del padrone.
Oggi Il sorriso dell’ignoto marinaio giunge a piena leggibilità, oggi, proprio oggi in questi tempi di pandemia e di guerre promesse; sono pagine queste che possono aiutarci a comprendere questi giorni, questa temperie confusa. Consolo mai propone una direzione interpretativa attraverso i suoi scritti, al contrario spesso “presenta” documenti, accoratamente ci dice dell’importanza della memoria dialettica che contrasti il silenzio della dimenticanza benché, come ci avverte Consolo per bocca di don Gennariello in Retablo,
Una parola, quella di Consolo, poetica dunque, metrica, ritmica, dove per metrica è da intendersi etimologicamente una parola “misurata”, una nenia che racconti e si faccia memoriale: la musa della poesia è anche la dea della memoria. Così le pagine di quella ardimentosa lingua che Vincenzo esperimenta in Retablo, le pagine su Rosalie e Isidoro; le cadenzate pagine de Lo Spasimo di Palermo in cui quasi ogni capoverso inizia con un aggettivo o con una coppia di aggettivi, quadri di un cunto. Una musica scorre nei meandri carsici dell’opera consoliana, una musica che la parola scrive in partitura: è la canzone popolare e Brahms, il ritornello e il melodramma.
La scrittura necessaria di Consolo è ricerca continua, la ricerca sugli uomini e le loro storie:
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