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La “Rerum novarum” del nostro tempo. Considerazioni in margine all’ultima enciclica di Papa Francesco

Posted By Comitato di Redazione On 1 gennaio 2021 @ 01:07 In Letture,Religioni | No Comments

fratelli_tuttidi Francesco Virga

La lettera enciclica Fratelli tutti, firmata ad Assisi il 3 ottobre 2020 dal papa argentino che, non a caso, ha scelto di chiamarsi Francesco, sta suscitando un animato dibattito sia dentro che fuori la Chiesa cattolica. D’altra parte non è la prima volta che un intervento informale o un documento ufficiale del papa venuto “dalla fine del mondo” solleva un vespaio.

In questo articolo cercheremo di esaminarla, come un documento storico, con il massimo scrupolo filologico anche perché i temi trattati sono di grande attualità e di estremo interesse anche per chi non condivide la visione religiosa della vita del papa. L’enciclica, nel solco del Concilio voluto da Giovanni XXIII, non è rivolta solo ai fedeli della Chiesa ma a «tutte le persone di buona volontà».

Nel preambolo il pontefice cita le parole di San Francesco: «beato colui che ama l’altro quando fosse lontano da lui, quanto se fosse accanto a lui», ricordando che il Santo di Assisi dappertutto «seminò pace e camminò accanto ai poveri, agli abbandonati, ai malati, agli scartati, agli ultimi». Particolarmente significativa appare inoltre, agli occhi del pontefice, la visita compiuta dal fraticello in Egitto, presso il Sultano Malik al Kamil, in un periodo storico segnato dalle crociate: «Egli non faceva la guerra dialettica imponendo dottrine, ma comunicava l’amore di Dio. Aveva compreso che «Dio è amore; chi rimane nell’amore rimane in Dio e Dio rimane in lui» (1 Gv4,16).

Mentre il suo predecessore, Benedetto XVI, nella sua Enciclica sociale Caritas in veritate, sosteneva con energia la sua continuità con la tradizione, negando che possa distinguersi una Dottrina sociale preconciliare da una postconciliare, Francesco, pur senza dirlo, afferma il contrario e tutto il suo pensiero, oltre al suo operato, lo dimostra ampiamente. Bergoglio, nel suo ottavo anno di pontificato, non ha alcuna difficoltà a riconoscere tra le sue fonti di ispirazione, oltre la Sacra Scrittura, uomini non cattolici come Martin Luther King, Desond Tutu, il Mahatma Gandhi e, soprattutto, il Grande Imam Ahmad Al Tayyeb, con cui si era incontrato il 4 febbraio 2019, nella città di Abu Dhabi, sottoscrivendo insieme il Documento sulla fratellanza umana per la pace mondiale e la convivenza umana che anticipa alcuni contenuti di questa enciclica (Cfr. 5, 192, 285).

Il preambolo dell’enciclica di Francesco si chiude con un riferimento alla pandemia del Covid 19 che ha investito il mondo intero, con una stoccata finale, piuttosto insolita rispetto al linguaggio felpato tradizionale:

«Proprio mentre stavo scrivendo questa lettera ha fatto irruzione in maniera inattesa la pandemia […] che ha messo in luce le nostre false sicurezze. Al di là delle varie risposte che hanno dato i diversi Paesi, è apparsa evidente l’incapacità di agire insieme. Malgrado si sia iperconnessi, si è verificata una frammentazione che ha reso più difficile risolvere i problemi che ci toccano tutti. Se qualcuno pensa che si tratti solo di far funzionare meglio quello che già facevamo, o che l’unico messaggio sia che dobbiamo migliorare i sistemi e le regole già esistenti, sta negando la realtà».

Tema questo che Bergoglio riprenderà e svilupperà nei capitoli I e V dell’enciclica. Di seguito procediamo nell’analisi seguendo l’ordine e gli stessi titoli dati dal Pontefice agli otto capitoli della sua lettera.

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l’incontro con il Grande Imam Ahmad Al Tayyeb

Ombre di un mondo chiuso

Nel primo capitolo dell’enciclica Francesco analizza realisticamente le contraddizioni del nostro tempo, segnato dal dominio incontrastato del potere finanziario, cresciuto con la digitalizzazione e la globalizzazione dei processi produttivi. Tanti sogni sono andati in frantumi e la storia sembra dare «segni di un ritorno all’indietro»:

«Si accendono conflitti anacronistici che si ritenevano superati, risorgono nazionalismi chiusi […]; la società sempre più globalizzata ci rende vicini, ma non ci rende fratelli Siamo più soli che mai in questo mondo massificato che privilegia gli interessi individuali e indebolisce la dimensione comunitaria dell’esistenza […]. La politica diventa sempre più fragile di fronte ai poteri economici transnazionali che applicano il divide et impera».

Bergoglio avverte il pericolo della crescente «perdita del senso della storia» che sta svuotando di senso parole e concetti antichi come democrazia, libertà e giustizia (14) . E, rivolgendosi alle giovani generazioni, afferma:

«Se una persona […] vi dice di ignorare la storia, di non fare tesoro dell’esperienza degli anziani, di disprezzare tutto ciò che è passato e guardare solo al futuro […], non è forse questo un modo facile di attirarvi […] per farvi fare solo quello che lui vi dice? Quella persona ha bisogno che siate vuoti, sradicati, diffidenti di tutto […]. Così funzionano le ideologie di diversi colori, che distruggono (o de-costruiscono) tutto ciò che è diverso e in questo modo possono dominare senza opposizioni. A tale scopo hanno bisogno di giovani che disprezzino la storia, che rifiutino la ricchezza spirituale e umana tramandata attraverso le generazioni».

Per Francesco la perdita della coscienza storica è uno dei mali peggiori del nostro tempo. Questo tema sta particolarmente a cuore del pontefice. Non caso, come vedremo, torna ad occuparsene negli ultimi due capitoli dell’enciclica. Tutto il punto 14 dell’enciclica si potrebbe riassumere con le parole di Adorno: «Le cose sono giunte al punto che la bugia ha il suono della verità e la verità il suono della bugia» (T.W. Adorno, Minima moralia. Meditazioni sulla vita offesa). Non a caso, d’altra parte, oggi si parla tanto di post-verità. Particolarmente interessante ed attuale appare il passo seguente:

«Il modo migliore per dominare e avanzare senza limiti è seminare la mancanza di speranza e suscitare la sfiducia costante, benché mascherata con la difesa di alcuni valori. Oggi in molti Paesi si utilizza il meccanismo politico di esasperare, esacerbare e polarizzare. Con varie modalità si nega ad altri il diritto di esistere e di pensare e a tale scopo si ricorre alla strategia di ridicolizzarli, di insinuare sospetti su di loro di accerchiarli. Non si accoglie la loro parte di verità, i loro valori […]. La politica così non è più una sana discussione su progetti a lungo termine per lo sviluppo di tutti e del bene comune».

È questa la ragione per cui qualsiasi progetto per il progresso di tutta l’umanità, oggi, «suona come un delirio». Pur consapevole del cinismo dominante nel mondo d’oggi, Bergoglio non si rassegna di fronte all’«aumento della ricchezza senza equità». Anzi individua e denuncia con forza le contraddizioni del nostro tempo: «Mentre una parte dell’umanità vive nell’opulenza, un’altra parte vede la propria dignità disconosciuta, disprezzata o calpestata». Infatti «milioni di persone – bambini, uomini e donne di ogni età – vengono private della libertà e costrette a vivere in condizioni assimilabili a quelle della schiavitù». Ma le contraddizioni e le storture del mondo odierno non sono solo queste: guerre, attentati, persecuzioni per motivi politici, razziali o religiosi vengono giudicati in modi diversi a seconda che convengano o meno a determinati interessi: «Ciò che è vero quando conviene a un potente, cessa di esserlo quando non è nel suo interesse».

Lo straordinario sviluppo tecnologico non ha cancellato «paure ancestrali»: «Anche oggi, dietro le mura dell’antica città c’è l’abisso […]. È il territorio di ciò che è ‘barbaro’, da cui bisogna difendersi a ogni costo. Riappare la tentazione di alzare muri, […]. E chi alza un muro, […] finirà schiavo dentro ai muri che ha costruito, senza orizzonti. Perché gli manca l’alterità». La solitudine, le paure e l’insicurezza di tante persone creano «terreno fertile per le mafie. Queste infatti si impongono presentandosi come ‘protettrici’ dei dimenticati, […]. C’è una pedagogia tipicamente mafiosa che, con un falso spirito comunitario, crea legami di dipendenza e di subordinazione dai quali è molto difficile liberarsi».

Francesco non poteva chiudere gli occhi di fronte alla pandemia del Covid 19, che ha investito il mondo intero nel corso dello stesso anno in cui viene pubblicata la sua enciclica. La pandemia sta accentuando le contraddizioni del nostro tempo e Bergoglio le coglie lucidamente:

«Il mondo avanzava implacabilmente verso un’economia che, utilizzando i progressi tecnologici, cercava di ridurre i “costi umani” – alcune pagine prima era già stata notata e denunciata «l’ossessione di ridurre i costi del lavoro» – e qualcuno pretendeva di farci credere che bastava la libertà di mercato perché tutto si potesse considerare sicuro. Ma il colpo duro e inaspettato di questa pandemia fuori controllo ha obbligato per forza a pensare agli esseri umani, a tutti, più che al beneficio di alcuni. Oggi possiamo riconoscere che […] ci siamo ingozzati di connessioni e abbiamo perso il gusto della fraternità. Abbiamo cercato il risultato rapido e sicuro e ci troviamo oppressi dall’impazienza e dall’ansia. Prigionieri della virtualità, abbiamo perso il gusto e il sapore della realtà».

Se tutto è connesso, incalza Francesco, «è difficile pensare che questo disastro mondiale non sia in rapporto con il nostro modo di porci rispetto alla realtà, pretendendo di essere padroni assoluti della nostra vita e di tutto ciò che esiste. Non voglio dire che si tratta di una sorta di castigo divino». Francesco sa che gli uomini dimenticano velocemente le lezioni della storia, per questo avverte:

«Passata la crisi sanitaria, la peggiore reazione sarebbe quella di cadere ancora di più in un febbrile consumismo e in nuove forme di auto-protezione egoistica. […]. Che non sia l’ennesimo grave evento storico da cui non siamo stati capaci di imparare. Che non ci dimentichiamo degli anziani morti per mancanza di respiratori, in parte effetto di sistemi sanitari smantellati anno dopo anno. Che un così grande dolore non sia inutile, che facciamo un salto verso un nuovo modo di vivere e scopriamo una volta per tutte che abbiamo bisogno e siamo debitori gli uni degli altri, affinché l’umanità rinasca con tutti i volti, tutte le mani e tutte le voci, al di là delle frontiere che abbiamo creato».

pope-francis-migrant-statueNei paragrafi successivi (36-40) l’enciclica si sofferma a trattare il tema delle migrazioni, tema particolarmente caro a Francesco su cui più volte ha parlato nel corso del suo pontificato, a partire dal suo primo intervento a Lampedusa quando parlò della “globalizzazione dell’indifferenza”. Adesso, nel ribadire che «le migrazioni costituiranno un elemento fondante del futuro del mondo» osserva che «i fenomeni migratori suscitano allarme e paure, spesso fomentate e sfruttate a fini politici».

Non meno attuali le successive osservazioni sull’ombra che si annida nella sempre più invadente «comunicazione digitale» che – oltre ad esporre al «rischio di dipendenza, di isolamento e di progressiva perdita di contatto con la realtà concreta» – abbandona ogni individuo agli «sguardi che frugano, denudano e divulgano, spesso in maniera anonima». Mentre, oggi più che mai, ci sarebbe bisogno «di gesti fisici, di espressioni del volto, di silenzi, di linguaggio corporeo, e persino di profumo, tremito delle mani, rossore, sudore, perché tutto ci parla e fa parte della vera comunicazione umana. I rapporti digitali, che dispensano dalla fatica di coltivare un’amicizia, una reciprocità stabile e anche un consenso che matura con il tempo, hanno solo un’apparenza di socievolezza».

Francesco è altresì consapevole del fatto che, nel mondo digitale odierno, operano «giganteschi interessi economici capaci di realizzare forme di controllo tanto sottili quanto invasivi, creando meccanismi di manipolazione delle coscienze e del processo democratico». Sta qui una delle principali fonti della crescente diffusione nel mondo delle cosiddette fake news ossia di «informazioni e notizie false, fomentando pregiudizi e odio». Attraverso i media oggi «si cerca di creare una nuova cultura al servizio dei più potenti. Da ciò traggono vantaggio l’opportunismo della speculazione finanziaria e lo sfruttamento, dove i poveri sono sempre quelli che perdono». Su questo punto, come vedremo, Francesco tornerà nei capitoli III e IV.

Il primo capitolo dell’enciclica – contrassegnato da uno stile fresco e vivace, talora anche aspro e duro, abbastanza dissonante rispetto allo stile paludato della tradizione ecclesiastica – si chiude con una nota di speranza:

«Malgrado queste dense ombre, che non vanno ignorate, […] la recente pandemia ci ha permesso di recuperare e apprezzare tanti compagni e compagne di viaggio che, nella paura, hanno reagito donando la propria vita […]: medici, infermieri, farmacisti, addetti ai supermercati, personale delle pulizie, badanti, trasportatori, uomini e donne che lavorano per fornire servizi essenziali e sicurezza, volontari, sacerdoti, religiose, … hanno capito che nessuno si salva da solo».

cq5dam-thumbnail-cropped-1500-844Un estraneo sulla strada

Il secondo capitolo della lettera di Francesco è un originale commento della parabola evangelica del buon samaritano (Lc 10, 25-37). La parabola per Francesco ha un valore simbolico particolarmente attuale. La lettura che ne offre è molto originale e tutt’altro che clericale. La parabola, come è noto, racconta di un uomo assalito e ferito da briganti, abbandonato ai bordi di una strada. Diverse persone, compreso un sacerdote, gli passano accanto ignorandolo. Soltanto uno straniero, considerato barbaro e infedele (il samaritano), si ferma e si prende cura dell’uomo ferito. La parabola, osserva Francesco, «mette in discussione ogni tipo di determinismo o fatalismo che pretenda di giustificare l’indifferenza come unica risposta possibile».

Il mondo d’oggi è pieno di indifferenti alla sofferenza del prossimo: «Ci siamo abituati a girare lo sguardo, a passare oltre, a ignorare le situazioni finché queste non ci toccano direttamente». Ma la cosa più scandalosa, agli occhi di Francesco, appare il fatto che siano proprio le «persone con funzioni importanti nella società» e, addirittura, come già notato dallo stesso evangelista Luca, «persone religiose» come il sacerdote e il levita della parabola, ad essere indifferenti e a non prendersi cura del bene comune: «Questo è degno di speciale nota» perché mostra che «credere in Dio ed adorarlo non garantisce di vivere come a Dio piace. […]. Il paradosso è che, a volte, coloro che dicono di non credere possono vivere la volontà di Dio meglio dei credenti».

La pesante responsabilità delle classi dirigenti e di coloro che ci governano non annullano le responsabilità di tutti gli altri, sottolinea Francesco con il suo realistico buon senso: «Non dobbiamo aspettarci tutto da coloro che ci governano, sarebbe infantile. Godiamo di uno spazio di corresponsabilità capace di avviare e generare nuovi processi e trasformazioni». Infatti i «briganti della strada» hanno di solito come segreti alleati quelli che «passano per la strada guardando dall’altra parte». Così,

«si chiude il cerchio tra quelli che usano e ingannano la società per prosciugarla e quelli che pensano di mantenere la purezza nella loro funzione critica, ma nello stesso tempo vivono di quel sistema e delle sue risorse. C’è una triste ipocrisia là dove l’impunità del delitto, dell’uso delle istituzioni per interessi privati, e altri mali che non riusciamo a eliminare, si uniscono a un permanente squalificare tutto, al costante seminare sospetti propagando la diffidenza e la perplessità. All’inganno del ‘tutto va male’ corrisponde un ‘nessuno può aggiustare le cose, ‘che posso fare io?’. In tal modo, si alimenta il disincanto e la mancanza di speranza, […]. Far sprofondare un popolo nello scoraggiamento è la chiusura di un perfetto circolo vizioso: così opera la dittatura invisibile dei veri interessi occulti, che si sono impadroniti delle risorse e della capacità di avere opinioni e di pensare».

Penso che non ci sia alcuna ideologia dietro queste illuminate parole, ma solo tanto buon senso accompagnato dalla fiducia che sia ancora possibile «cominciare dal basso e, caso per caso, lottare per ciò che è più concreto e locale, fino all’ultimo angolo della patria e del mondo, con la stessa cura che il viandante di Samaria ebbe per ogni piaga dell’uomo ferito».

09-07b-fratelliaPensare e generare un mondo aperto

Il terzo capitolo di Fratelli tutti è uno dei più politici (in senso lato) dell’enciclica. Esordisce con un invito ad aprirsi all’incontro con gli altri: «Nessuno matura né raggiunge la propria pienezza isolandosi».

«Tuttavia – sottolinea il papa argentino, con un colpo d’ala che lo distacca nettamente da molti suoi predecessori – ci sono credenti che pensano che la loro grandezza consista nell’imporre le proprie ideologie agli altri, o nella difesa violenta della verità, […]. Tutti noi credenti dobbiamo riconoscere questo: al primo posto c’è l’amore, il pericolo più grande è non amare» (Cfr. 1Cor.13, 1-13).

Francesco ricorda inoltre che il «razzismo è un virus che muta facilmente e invece di sparire si nasconde, ma è sempre in agguato». Particolare attenzione va riposta alle persone anziane. Con particolare forza ed efficacia Francesco afferma:

«Ogni essere umano ha diritto a vivere con dignità e a svilupparsi integralmente, e nessun Paese può negare tale diritto fondamentale. Ognuno lo possiede, anche se poco efficiente, anche se nato o cresciuto con delle limitazioni; infatti ciò non sminuisce la sua immensa dignità come persona umana, che non si fonda sulle circostanze bensì sul valore del suo essere. Quando questo principio elementare non è salvaguardato, non c’è futuro né per la fraternità né per la sopravvivenza dell’umanità».

A questo punto Francesco sferra un attacco alla filosofia e alla economia liberista che regna ormai incontrastata nel mondo occidentale: Vi sono società che accettano che ci siano opportunità per tutti, però sostengono che tutto dipende da ciascuno. Secondo tale prospettiva non avrebbe senso investire affinché quelli che rimangono indietro i deboli o i meno dotati possano farsi strada nella vita. Investire a favore delle persone fragili può non essere redditizio, può comportare minore efficienza. Esige uno Stato presente e attivo e istituzioni della società civile che vadano oltre la libertà dei meccanismi efficientisti di certi sistemi economici, politici o ideologici.

«Alcuni nascono in famiglie di buone condizioni economiche ricevono una buona educazione, crescono ben nutriti, possiedono capacità notevoli. Essi sicuramente non avranno bisogno di uno Stato attivo e chiederanno solo libertà. Ma evidentemente non vale la stessa regola per una persona disabile, per chi è nato in una casa misera, […]. Se la società si regge primariamente sui criteri della libertà di mercato e dell’efficienza, non c’è posto per costoro, e la fraternità sarà tutt’al più un’espressione romantica. Il fatto è che ‘la semplice proclamazione della libertà economica, quando però le condizioni reali impediscono che molti possano accedervi realmente, e quando si riduce l’accesso al lavoro, diventa un discorso contraddittorio’ (Laudato sì). Parole come libertà, democrazia o fraternità, si svuotano di senso […]. Vi è oggi la tendenza verso una rivendicazione sempre più ampia di diritti individuali – sarei tentato di dire individualistici – che cela una concezione di persona umana staccata da ogni contesto sociale e antropologico, quasi come una monade (monas) […]. Se il diritto di ciascuno non è armonicamente ordinato al bene più grande, finisce per concepirsi senza limitazioni e dunque per diventare sorgente di conflitti e di violenze».

Ancor più esplicito diventa Bergoglio nei paragrafi seguenti, quando, in modo originalissimo, riprende alcuni temi classici della Dottrina Sociale della Chiesa. Innanzitutto ribadisce che l’invito evangelico ad aver cura degli ultimi, nel nostro tempo, è più ignorato che mai; quindi usa espressioni forti, mai lette prima in una enciclica papale: «Bisogna lottare contro le cause strutturali della povertà, la disuguaglianza, la mancanza di lavoro, della terra e della casa […]. E far fronte agli effetti distruttori dell’Impero del denaro».

paoloTierra, techo, trabajo sono tre T care alla lingua del papa argentino

«Il mondo esiste per tutti, perché tutti noi esseri umani nasciamo su questa terra con la stessa dignità. Le differenze di colore, religione, capacità, luogo di origine, luogo di residenza e tante altre cose non si possono anteporre o utilizzare per giustificare i privilegi di alcuni a scapito dei diritti di tutti». Quindi, per non scandalizzare troppo i lettori cattolici, Francesco abilmente ricorda un passo dell’Enciclica sociale del papa polacco, Centesimus annus (1991), in questo modo: «faccio mie e propongo a tutti alcune parole di San Giovanni Paolo II, la cui forza non è stata forse compresa: ‘Dio ha dato la terra a tutto il genere umano, perché essa sostenti tutti i suoi membri, senza escludere né privilegiare nessuno’. In questa linea ricordo che la tradizione cristiana – si noti la finezza di distinguere la “tradizione” dalla “dottrina sociale della Chiesa”, cui ad ogni passo rimanda invece Ratzinger nella sua Enciclica sociale Caritas in veritate (2009) – non ha mai riconosciuto come assoluto e intoccabile il diritto alla proprietà privata». Quindi rimanda ad un’altra enciclica del papa polacco, la Laborem exercens del 1981, per sostenere che «l’uso comune dei beni creati per tutti» è il ‘primo principio di tutto l’ordinamento etico-sociale’. Principio questo sostenuto anche da Paolo VI nella sua famosa Populorum progressio del 1967.

Da questi principi Francesco trae indicazioni operative particolarmente attuali oggi: Nessuno può rimanere escluso, a prescindere da dove sia nato, e tanto meno a causa dei privilegi che altri possiedono per esser nati in luoghi con maggiori opportunità. I confini e le frontiere degli Stati non possono impedire che questo si realizzi; Lo sviluppo non dev’essere orientato all’ accumulazione crescente di pochi: «Il diritto di alcuni alla libertà d’impresa o di mercato non può stare al di sopra dei diritti dei popoli e della dignità dei poveri; e neppure al di sopra del rispetto dell’ambiente. L’attività degli imprenditori è una nobile vocazione orientata a produrre ricchezza, a migliorare il mondo per tutti. In ogni caso, aggiunge Francesco, le capacità imprenditoriali, che sono un dono di Dio, devono essere orientate al progresso di tutte le persone e al superamento della miseria.

Francesco, mostrando di curarsi poco della ricorrente accusa da parte di tanti liberisti odierni di essere un populista, se non addirittura un comunista, insiste nel sostenere «la destinazione comune dei beni della terra», e rimanda a un Documento di Vescovi degli Stati Uniti del 2018 per ribadire che esistono «diritti fondamentali che precedono qualunque società perché derivano dalla dignità conferita a ogni persona in quanto creata da Dio». Bergoglio è ben consapevole del fatto che le sue parole oggi cozzano contro la status quo. Per questo scrive:

«senza dubbio si tratta di un’altra logica. Se non ci si sforza di entrare in questa logica, le mie parole suoneranno come fantasie. Ma se si accetta il grande principio dei diritti che promanano dal solo fatto di possedere l’inalienabile dignità umana, è possibile accettare la sfida di sognare e pensare a un’altra umanità. È possibile desiderare un pianeta che assicuri terra, casa e lavoro a tutti».

cq5dam-thumbnail-cropped-750-422Un cuore aperto al mondo intero

In questo capitolo dell’enciclica Francesco riprende temi e princìpi trattati prima con il dichiarato proposito di uscire dall’astrazione per dare sempre più corpo e concretezza alle sue proposte. Così, per quanto riguarda il tema delle migrazioni e dei migranti – che ha occupato l’attenzione di Bergoglio fin dal suo primo intervento pubblico svoltosi a Lampedusa nel luglio 2013 – colpisce la sua straordinaria capacità di tener conto sia dei principi che della realtà e di riuscire sempre a coniugare le due cose tra loro in modo sapiente:

«Certo, l’ideale sarebbe evitare le migrazioni non necessarie e a tale scopo la strada è creare nei Paesi di origine la possibilità concreta di vivere e di crescere con dignità […]. Ma, finché non ci sono seri progressi in questa direzione, è nostro dovere rispettare il diritto di ogni essere umano di trovare un luogo dove poter non solo soddisfare i suoi bisogni primari e quelli della sua famiglia, ma anche realizzarsi pienamente come persona. I nostri sforzi nei confronti delle persone migranti che arrivano si possono riassumere in quattro verbi: accogliere, proteggere, promuovere e integrare».

Attenzione però, raccomanda Francesco: non si tratta di calare dall’alto programmi assistenziali, ma di lavorare insieme per costruire città e Paesi che, pur conservando le rispettive identità culturali e religiose, siano aperti alle differenze e sappiano valorizzarle nel segno della fratellanza umana. Col suo tipico realismo il papa gesuita riconosce che la complessità dei problemi richiede l’impegno dell’intera Comunità internazionale. I singoli Stati, infatti, non possono affrontare da soli la questione.

Quando avviene l’integrazione tra popoli e culture diverse se ne esce tutti arricchiti. Bergoglio indica al riguardo come esemplare l’esperienza argentina, memore anche della vita vissuta dai suoi stessi avi: «in Argentina, la forte immigrazione italiana ha segnato la cultura della società, e nello stile culturale di Buenos Aires si nota molto anche la presenza di circa duecentomila ebrei. Gli immigrati, se li si aiuta a integrarsi, sono una benedizione, una ricchezza e un nuovo dono che invita una società a crescere».

E non poteva mancare il riferimento al documento sottoscritto insieme al Grande Imam in cui si afferma che il rapporto tra Occidente e Oriente è un indiscutibile reciproca necessità: «L’Occidente potrebbe trovare nella civiltà dell’Oriente rimedi per alcune sue malattie spirituali e religiose causate dal dominio del materialismo. E l’Oriente potrebbe trovare nella civiltà dell’Occidente tanti elementi che possono aiutarlo a salvarsi dalla debolezza, dalla divisione, dal conflitto e dal declino scientifico, tecnico e culturale». Una pagina di autentica poesia evangelica si trova in un paragrafo successivo che, non a caso, cita il famoso Discorso della montagna di Gesù ripreso da Matteo:

«Chi non vive la gratuità fraterna fa della propria esistenza un commercio affannoso, sempre misurando quello che dà e quello che riceve in cambio. Dio, invece, dà gratis, fino al punto che aiuta persino quelli che non sono fedeli, e ‘fa sorgere il suo sole sui cattivi e sui buoni’ (Mt 5,45). Per questo Gesù raccomanda: ‘Mentre tu fai l’elemosina, non sappia la tua sinistra ciò che fa la tua destra, perché la tua elemosina resti nel segreto’ (Mt 6, 3-4). Abbiamo ricevuto la vita gratis, non abbiamo pagato per essa. Dunque tutti possiamo dare senza aspettare qualcosa, fare il bene senza pretendere altrettanto dalla persona che aiutiamo. E quello che Gesù diceva ai suoi discepoli: ‘Gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date’ (Mt 10,8).

I paragrafi successivi di questo capitolo dell’enciclica mettono a fuoco il rapporto dialettico tra il locale e il globale, tra l’individuale e l’universale. E, giustamente, il pontefice raccomanda di superare la tensione e l’opposizione tra i due opposti: «Bisogna prestare attenzione alla dimensione globale per non cadere nella meschinità quotidiana. Al tempo stesso non è opportuno perdere di vista ciò che è locale, che ci fa camminare con i piedi per terra. Le due cose unite impediscono di cadere in uno di questi due estremi».

A questo punto Francesco introduce l’immagine del poliedro per far comprendere meglio il suo punto di vista. Occorre partire sempre dal locale, dal piccolo, dal vicino per essere efficaci; ma senza mai perdere di vista una prospettiva più ampia. Il mondo nuovo da costruire deve somigliare ad un poliedro in cui «ognuno è rispettato nel suo valore». Ma – consapevole del fatto che ‘il tutto è più delle parti, ed anche più della loro semplice somma’ – insiste nel sottolineare che «ogni cultura sana è per natura aperta e accogliente, cosi che una cultura senza valori universali non è una vera cultura». Per concludere con queste parole:

«Questo approccio richiede di accettare con gioia che nessun popolo, nessuna cultura o persona può ottenere tutto da sé. Gli altri sino costitutivamente necessari per la costruzione di una vita piena. La consapevolezza del limite o della parzialità , lungi dall’essere una minaccia, diventa la chiave secondo la quale sognare ed elaborare un progetto comune. Perché ‘l’uomo è l’essere-limite che non ha limite’».

Penso che meriti di essere rimarcata questa singolare citazione del filosofo e sociologo tedesco Georg Simmel da parte di Bergoglio.

papa-solo-1La migliore politica

Questo è sicuramente il capitolo più politico, anche in senso stretto, dell’enciclica ed è quello che ha più irritato i numerosi araldi del liberismo che governa oggi il mondo intero, al di là delle apparenze, persino quei Paesi che un tempo chiamavano “socialisti”! Senza preamboli, Francesco attacca apertamente la dominante visione liberista del mondo che regola l’economia, prima ancora della politica, e che sembra prevalere ormai su tutto. La critica è particolarmente chiara ed esplicita:

«Il mercato da solo non risolve tutto, benchè a volte vogliano farci credere questo dogma di fede neoliberale. Si tratta di un pensiero povero, ripetitivo, che propone sempre le stesse ricette di fronte a qualunque sfida si presenti. Il neoliberismo riproduce sé stesso tale e quale, ricorrendo alla magica teoria del ‘traboccamento’ o del ‘gocciolamento’ – senza nominarla – come unica via per risolvere i problemi sociali. Non ci si accorge che il presunto traboccamento non risolve l’iniquità, la quale è fonte di nuove forme di violenza che minacciano il tessuto sociale. Da una parte è indispensabile una politica economica attiva, orientata a promuovere un’economia che favorisca la diversificazione produttiva e la creatività imprenditoriale, perché sia possibile aumentare i posti di lavoro invece di ridurli. La speculazione finanziaria con il guadagno facile come scopo fondamentale continua a fare strage […]. La fine della storia non è stata tale, e le ricette dogmatiche della teoria economica imperante hanno dimostrato di non essere infallibili. La fragilità dei sistemi mondiali di fronte alla pandemia ha evidenziato che non tutto si risolve con la libertà di mercato e che, oltre a riabilitare una politica sana non sottomessa al dettato della finanza, ‘dobbiamo rimettere la dignità umana al centro e su questo pilastro vanno costruite le strutture sociali alternative di cui abbiamo bisogno’».

Consapevole comunque del fatto che la sua critica possa venir fraintesa e confusa con il populismo che circola oggi nel mondo intero, non solo in Italia, Francesco ne prende nettamente le distanze:

«Negli ultimi anni l’espressione “populismo” o “populista” ha invaso i mezzi di comunicazione e il linguaggio in generale. Così essa perde il valore che potrebbe possedere e diventa una delle polarità della società divisa. Ciò è arrivato al punto di pretendere di classificare tutte le persone, i gruppi, le società e i governi a partire da una divisione binaria: “populista” o “non populista”. […]. La pretesa di porre il populismo come chiave di lettura della realtà sociale contiene un altro punto debole: il fatto che ignora la legittimità della nozione di popolo. Il tentativo di far sparire dal linguaggio tale categoria potrebbe portare ad eliminare la parola stessa “democrazia” (“governo del popolo”)».

E, per evitare altri malintesi, rimanda ad una intervista rilasciata al Direttore de La Civiltà Cattolica nel 2016: «Popolo non è una categoria logica, né una categoria mistica, se la intendiamo nel senso che tutto quello che fa il popolo sia buono, o nel senso che il popolo sia una categoria angelicata. Ma no! È una categoria mitica […]. La parola popolo ha qualcosa di più che non può essere spiegato in maniera logica. Essere parte del popolo e far parte di un’identità comune fatta di legami sociali e culturali. E questa non è una cosa automatica, anzi è un processo lento, difficile…verso un progetto comune».

Ma diventa ancor più chiara ed efficace la sua argomentazione quando afferma:

«Ci sono leader popolari capaci di interpretare il sentire di un popolo, la sua dinamica culturale e le grandi tendenze di una società. Il servizio che prestano, aggregando e guidando, può essere la base per un progetto duraturo di trasformazione e di crescita, che implica anche la capacità di cedere il posto ad altri nella ricerca del bene comune. Ma esso degenera in insano populismo quando si muta nell’abilità di qualcuno di attrarre consenso allo scopo di strumentalizzare politicamente la cultura del popolo, sotto qualunque segno ideologico, al servizio del proprio progetto personale e della propria permanenza al potere. Altre volte mira ad accumulare popolarità fomentando le inclinazioni più basse ed egoistiche di alcuni settori della popolazione. […]. I gruppi populisti chiusi deformano la parola “popolo”, poiché in realtà ciò di cui parlano non è un vero popolo. Infatti, la categoria di “popolo” è aperta. Un popolo vivo, dinamico e con un futuro è quello che rimane costantemente aperto a nuove sintesi assumendo in sé ciò che è diverso. Non lo fa negando sé stesso, ma piuttosto con la disposizione a essere messo in movimento e in discussione, a essere allargato, arricchito da altri, e in tal modo può evolversi».

Ma il bersaglio principale del discorso del papa argentino rimane, oltre al liberismo economico, la stessa visione liberale del mondo che, per via del suo fondamentale individualismo, nega la dimensione comunitaria della condizione umana. Scrive infatti Francesco: «La categoria di popolo, a cui è intrinseca una valutazione positiva dei legami comunitari e culturali, è abitualmente rifiutata dalle visioni liberali individualistiche, in cui la società è considerata una mera somma di interessi che coesistono. Parlano di rispetto per la libertà, ma senza la radice di una narrativa comune. In certi contesti, è frequente l’accusa di populismo verso tutti coloro che difendono i diritti dei più deboli della società».

lenciclica-fratelli-tutti-sara-firmata-domani-ad-assisi-768x513Bergoglio, comunque, anche in questo capitolo mostra di non avere ricette già pronte per l’avvenire dell’umanità. L’esperienza storica, il fallimento di tante rivoluzioni, gli hanno insegnato ad essere prudente e a rifuggire da tutte le ideologie: «Non c’è una sola via d’uscita possibile, un’unica metodologia accettabile, una ricetta economica che possa essere applicata egualmente per tutti, e presuppone che anche la scienza più rigorosa possa proporre percorsi differenti».

Così, dopo aver ribadito la sua critica al liberismo e al paradigma tecnocratico, Bergoglio, rivestendo il suo abito religioso, ammonisce che alla base di tutti i problemi sta «la fragilità umana», la tendenza umana costante all’egoismo, che non è solo un difetto della nostra epoca, superabile soltanto con l’aiuto di Dio. Ciò non vuol dire che sarà la Provvidenza a risolvere tutti i problemi. Il pontefice ricorda, al riguardo, di essere già intervenuto, in occasione della crisi finanziaria del 2007-2008 per cercare di far capire ai governanti del mondo che la crisi era un’occasione per sviluppare un’economia più attenta ai principi etici. Ed oggi, con la crisi provocata dal Covid 19, urge un nuovo modo di fare politica: «la politica non deve sottomettersi all’economia e questa non deve sottomettersi ai dettami e al paradigma efficientista della tecnocrazia», ripete Francesco citando un passo della sua precedente enciclica Laudato sì. Occorre, da un lato, rivalutare la politica impegnata a cercare il bene comune; dall’altro, respingere la politica meschina tesa all’interesse immediato. Oggi, più che mai, occorre «pensare a quelli che verranno, […], perché, come hanno insegnato i Vescovi del Portogallo, la terra “è un prestito che ogni generazione riceve e deve trasmettere alla generazione successiva” ».

bneettoEppure in questo capitolo, che a prima vista appare il più rivoluzionario di tutti rispetto alla tradizione cattolica, Francesco, per la prima ed unica volta in questa enciclica, richiama la “dottrina sociale della Chiesa” fondata sulla «carità che, secondo l’insegnamento di Gesù, è la sintesi di tutta la Legge (cfr. Mt 22, 36-40)», e cita, subito dopo, un passo dell’Enciclica sociale di Ratzinger dove si afferma che l’amore si esprime non solo in relazioni intime e vicine, ma anche nelle «macro-relazioni: rapporti sociali, economici, politici» (Caritas in veritate). Il punto di vista del suo predecessore torna ad essere richiamato da Bergoglio nei paragrafi successivi. Ma, questi rimandi al pensiero sociale del papa tedesco, mi sembrano più un formale atto dovuto piuttosto che un profondo convincimento del papa gesuita che, non a caso, rinvia nuovamente al documento sottoscritto con il Grande Imam Amhad Al-Tayyeb per ribadire l’invito a diffondere «la cultura della tolleranza, della convivenza e della pace» in un tempo, come il nostro, in cui «proliferano i fanatismi, le logiche chiuse e la frammentazione sociale e culturale».

Il capitolo si chiude con una energica denuncia del degrado della politica nella società attuale: «la politica è più nobile dell’apparire, del marketing, di varie forme di maquillage mediatico. Tutto ciò non semina altro che divisione, inimicizia e uno scetticismo desolante, incapace di appellarsi a un progetto comune». E, ancora una volta colpisce la freschezza e franchezza del linguaggio usato.

Dialogo e amicizia sociale

Questo capitolo si apre con un vero e proprio inno al dialogo: «Avvicinarsi, esprimersi, guardarsi, conoscersi, provare a comprendersi, cercare punti di contatto, tutto questo si riassume nel verbo “dialogare”. Per incontrarci e aiutarci a vicenda abbiamo bisogno di dialogare». Un Paese cresce, afferma giustamente Francesco, quando dialogano tra loro le generazioni e le diverse ricchezze culturali: «la cultura popolare, la cultura universitaria, la cultura giovanile, la cultura artistica e la cultura tecnologica». Particolarmente interessante ed attuale appare il riferimento critico alla «cultura dei media»:

«La risonante diffusione di fatti e richiami nei media, chiude spesso la possibilità del dialogo, perché permette che ciascuno, con la scusa degli errori altrui, mantenga intatti e senza sfumature le idee, gli interessi e le scelte propri. Predomina l’abitudine di screditare rapidamente l’avversario, attribuendogli epiteti umilianti, invece di affrontare un dialogo aperto e rispettoso, in cui si cerchi di raggiungere una sintesi che vada oltre. [...] Il dibattito molte volte è manipolato da determinati interessi che hanno maggior potere e cercano in maniera disonesta di piegare l’opinione pubblica a loro favore».

L’autentico dialogo invece presuppone la capacità di rispettare il punto di vista dell’altro, avendo riguardo per la sua diversità che ci arricchisce sempre. Infatti, come afferma lo stesso Francesco nel film che gli ha dedicato W. Wenders nel 2018 (citato nella enciclica), «le differenze sono creative, creano tensione e nella risoluzione di una tensione consiste il progresso dell’umanità». Poco più avanti il Pontefice torna a parlare dell’invadenza dei media nel nostro tempo e lo fa con la sua tipica capacità di cogliere l’unità degli opposti:

«i media possono aiutare a farci sentire più prossimi gli uni agli altri; a farci percepire un rinnovato senso di unità della famiglia umana […]. Possono aiutarci in questo, particolarmente oggi, quando le reti della comunicazione umana hanno raggiunto sviluppi inauditi. In particolare internet può offrire maggiori possibilità di incontro e di solidarietà tra tutti, e questa è una cosa buona, è un dono di Dio. È però necessario verificare continuamente che le attuali forme di comunicazione ci orientino effettivamente all’incontro generoso, alla ricerca sincera della verità piena, al servizio, alla vicinanza con gli ultimi, all’impegno di costruire il bene comune. Nello stesso tempo, […], non possiamo accettare un mondo digitale progettato per sfruttare la nostra debolezza e tirare fuori il peggio dalla gente».

La grande apertura mentale mostrata da Francesco in questa enciclica non va però fraintesa. Bergoglio è pur sempre il Pontefice della Chiesa Cattolica e possiede una grande fede in Dio e nella Verità. Il relativismo, oggi imperante ovunque, non è la soluzione ai problemi del presente: «Quando è la cultura che si corrompe e non si riconosce più alcuna verità oggettiva o princìpi universalmente validi, le leggi verranno intese solo come imposizioni arbitrarie e come ostacoli da evitare». E ancora più esplicitamente, facendo riferimento alle tante manipolazioni che subisce la verità ai nostri giorni, sferra un duro attacco all’«individualismo indifferente e spietato» in cui siamo caduti: «Al relativismo si somma il rischio che il potente o il più abile riesca a imporre una presunta verità.[...]. Essere il padrone del mondo o l’ultimo “miserabile” della terra non fa alcuna differenza, davanti alle esigenze morali siamo tutti assolutamente uguali».

Eppure lo stesso Pontefice sa che «nessuno possiede tutta la verità», anche per questo occorre un po’ più di umiltà da parte di tutti. E, mentre respinge nettamente il cinico trionfo della forza, richiama tutti a riconoscere la «dignità inalienabile» di ogni essere umano. Per i credenti, la natura umana è stata creata da Dio, e la sua dignità deriva da questo principio. Ma Francesco ritiene che anche gli agnostici potrebbero riconoscere il valore di questo principio «per impedire nuove catastrofi».

 A questo punto Francesco ritorna ad usare la metafora del poliedro per scrivere uno dei passi più belli dell’intera enciclica, che si apre con la citazione della famosa Samba della benedizione di Vinicius de Moraes, e che riprendiamo per esteso:

 « “La vita è l’arte dell’incontro, anche se tanti scontri ci sono nella vita”. Tante volte ho invitato a far crescere una cultura dell’incontro, che vada oltre le dialettiche che mettono l’uno contro l’altro. È uno stile di vita che tende a formare quel poliedro che ha molte facce, moltissimi lati, ma tutti compongono un’unità ricca di sfumature, perché “il tutto è superiore alle parti”. Il poliedro rappresenta una società in cui le differenze convivono integrandosi, arricchendosi e illuminandosi a vicenda, benché ciò comporti discussioni e diffidenze. Da tutti, infatti, si può imparare qualcosa, nessuno è inutile, nessuno è superfluo. Ciò implica includere le periferie. Chi vive in esse ha un altro punto di vista, vede aspetti della realtà che non si riconoscono dai centri di potere dove si prendono le decisioni più determinanti».

Il paragrafo successivo contiene un aggiornato concetto antropologico di cultura: «La parola “cultura” indica qualcosa che è penetrato nel popolo, nelle sue convinzioni più profonde e nel suo stile di vita. Se parliamo di una “cultura” nel popolo, ciò è più di un’idea o di un’astrazione. Comprende i desideri, l’entusiasmo e in definitiva un modo di vivere che caratterizza quel gruppo umano». E, ancora una volta, colpisce il linguaggio semplice e diretto usato da questo Papa per esprimere anche concetti complessi. E non mi sembra affatto banale e fuori luogo che il capitolo si chiuda con un invito alla gentilezza. Bertolt Brecht, in alcuni suoi famosi versi, si è scusato coi posteri per non essere riuscito ad essere gentile. Francesco non è meno rivoluzionario del poeta comunista se elogia la gentilezza:

«La gentilezza è una liberazione dalla crudeltà che a volte penetra le relazioni umane, dall’ansietà che non ci lascia pensare agli altri, dall’urgenza distratta che ignora che anche gli altri hanno diritto a essere felici. Oggi raramente si trovano tempo ed energie disponibili per soffermarsi a trattare bene gli altri, a dire “permesso”, “scusa”, “grazie”. Eppure ogni tanto si presenta il miracolo di una persona gentile, che mette da parte le sue preoccupazioni e le sue urgenze per prestare attenzione, per regalare un sorriso, per dire una parola di stimolo, per rendere possibile uno spazio di ascolto in mezzo a tanta indifferenza. [...]. La pratica della gentilezza non è un particolare secondario né un atteggiamento superficiale o borghese».

Percorsi di un nuovo incontro

Il penultimo capitolo di Fratelli tutti si apre con un richiamo alla «verità storica dei fatti». Bergoglio è profondamente convinto che bisogna “ricominciare dalla verità”, ma a questo antico termine dà un significato ben diverso da quello dato dal suo predecessore tedesco. Infatti, mentre Ratzinger nella sua Enciclica sociale Caritas in veritate, del 2009, guarda alla veritas dal punto di vista teologico e dottrinale, rivendicando con forza l’immutabilità e la continuità della dottrina sociale cattolica, fino ad affermare che «non ci sono due tipologie di dottrina sociale, una preconciliare e una postconciliare», Bergoglio è più attento e sensibile alla «verità storica dei fatti», per questo ha l’umiltà e il coraggio insieme di riconoscere:

 «Col tempo tutti siamo cambiati. Il dolore e le contrapposizioni ci hanno trasformato. […], non c’è più spazio per diplomazie vuote, per dissimulazioni, discorsi doppi, occultamenti, buone maniere che nascondono la realtà. Quanti si sono confrontati duramente si parlano a partire dalla verità, chiara e nuda. […]. Solo dalla verità storica dei fatti potranno nascere lo sforzo perseverante e duraturo di comprendersi a vicenda e di tentare una nuova sintesi per il bene di tutti».

Bergoglio si mostra ben consapevole dei danni prodotti dall’ignoranza della storia e dall’omertà che, anche in un recente passato, ha condotto tanti uomini di Chiesa a coprire tante nefandezze: «Il popolo ha il diritto di sapere che cosa è successo. […]. Verità è confessare che cosa è successo ai minori […]. Verità è riconoscere il dolore delle donne vittime di violenza e di abusi […]. La violenza genera violenza, l’odio genera altro odio e la morte altra morte. Dobbiamo spezzare questa catena che appare ineluttabile». E, tornando sulla necessità di dialogare sempre con tutti, e specialmente con chi ha idee diverse dalle nostre, usa parole che mi fanno tornare alla mente quelle scritte tanti anni fa da J. P. Sartre in L’esistenzialismo è un umanismo: «l’altro non va mai rinchiuso in ciò che ha potuto dire o fare, ma va considerato per la promessa che porta in sè».

710eivimbrlGran parte di questo capitolo è dedicato al tema sempre attuale della pace nel mondo, minacciata continuamente: «La guerra non è un fantasma del passato, ma una minaccia costante». Questa Enciclica, sviluppando in modo creativo i principi contenuti nella Pacem in Terris (1963) di Giovanni XXIII, segna la fine dell’antica dottrina della «guerra giusta». Da tempo si attendeva una parola chiara e forte su questo antico principio. Finalmente questa parola è arrivata: «Oggi è molto difficile sostenere i criteri razionali maturati in altri secoli per parlare di una possibile “guerra giusta”». E in nota si aggiunge: «Sant’Agostino […] elaborò un’idea della “guerra giusta” che oggi ormai non sosteniamo». Inoltre si nota un maggior realismo e una maggiore consapevolezza del mancato rispetto dei princìpi sanciti dalla Carta delle Nazioni Unite, sottoscritta nel 1945, più volte violata negli ultimi 30 anni.

Gli «ultimi della società» rimangono comunque al centro dell’attenzione di Francesco. Ma, ancora una volta, è diverso il linguaggio usato da Bergoglio, rispetto ai suoi predecessori. Colpisce, soprattutto, il puntuale e concreto riferimento ai conflitti presenti nel mondo odierno: «Se talvolta i più poveri e gli scartati reagiscono con atteggiamenti che sembrano antisociali, è importante capire che in molti casi tali reazioni dipendono da una storia di disprezzo e di mancata inclusione sociale». Particolarmente significativo appare, inoltre, il rimando a documenti episcopali latinoamericani ed africani (Cfr. 226-234), che conducono alcuni commentatori a parlare di “riscoperta dell’anima afroamericana” della Chiesa di Francesco (Cfr. Marco Grieco, Domani, 8 e 13 dicembre 2020).

Ma Bergoglio dimostra di essere un vero e proprio Pontefice – ossia, come ci ricorda la stessa etimologia del termine, un grande Costruttore di ponti – quando, facendo riferimento ai diversi e numerosi conflitti esistenti nel mondo, afferma: «Quando i conflitti non si risolvono ma si nascondono o si seppelliscono nel passato, ci sono silenzi che possono significare il rendersi complici di gravi errori e peccati. Invece la vera riconciliazione non rifugge dal conflitto, bensì si ottiene nel conflitto, superandolo attraverso il dialogo e la trattativa trasparente, sincera e paziente».

Ecco perché è necessario avere sempre memoria del passato, in ogni caso, raccomanda Francesco, «quello che mai si deve proporre è il dimenticare». Non si possono dimenticare i bombardamenti atomici a Hiroshima e Nagasaki, non si può dimenticare la Shoah e «nemmeno vanno dimenticati le persecuzioni, il traffico di schiavi e i massacri etnici che sono avvenuti e avvengono in diversi Paesi, e tanti altri fatti storici che ci fanno vergognare di essere umani». E aggiunge: «È facile oggi cadere nella tentazione di voltare pagina dicendo che ormai è passato molto tempo e che bisogna guardare avanti. No, per amor di Dio! Senza memoria non si va mai avanti, non si cresce senza una memoria integra e luminosa».

Si può ricordare e perdonare insieme, sostiene Francesco: «Il perdono non implica il dimenticare». Anzi, chi perdona davvero non dimentica. L’autentico perdono scaturisce dalla volontà di non lasciarsi dominare dalla stessa forza distruttiva che ha prodotto tanto male. Solo così si può spezzare il circolo vizioso che riproduce distruzione e morte: «La vendetta non risolve nulla». Da questo principio Francesco fa discendere anche la proposta di abolire la pena di morte.

 Le religioni al servizio della fraternità

L’ultimo capitolo di Fratelli tutti, apparentemente, sembra il più ortodosso e in linea con la tradizione cattolica. Salta agli occhi, immediatamente, la citazione di un lungo passo dell’enciclica Centesimus annus (1991) del papa polacco:

«Se non esiste una verità trascendente, obbedendo alla quale l’uomo acquista la sua piena identità, allora non esiste nessun principio sicuro che garantisca giusti rapporti tra gli uomini. Il loro interesse di classe, di gruppo, di Nazione li oppone inevitabilmente gli uni agli altri. Se non si riconosce la verità trascendente, allora trionfa la forza del potere, e ciascuno tende a utilizzare fino in fondo i mezzi di cui dispone per imporre il proprio interesse o la propria opinione, senza riguardo ai diritti dell’altro. […] La radice del moderno totalitarismo è da individuare nella negazione della trascendente dignità della persona umana, immagine visibile del Dio invisibile e, proprio per questo, soggetto di diritti che nessuno può violare: né l’individuo, né il gruppo, né la classe, né la Nazione o lo Stato».

Eppure, anche nel capitolo conclusivo della sua enciclica, Francesco continua a tendere la mano a tutti. E quando rivendica la libertà di coscienza, insieme alla libertà religiosa, la rivendica per tutti. Anche per questo Bergoglio torna a ricordare con gioia l’incontro fraterno con il Grande Imam Ahmad Al-Tayyeb, alla fine del quale i due leader religiosi, in un documento più volte richiamato in questa enciclica, hanno solennemente dichiarato: «Le religioni non incitano mai alla guerra e non sollecitano sentimenti di odio, ostilità, estremismo, né invitano alla violenza o allo spargimento di sangue. Queste sciagure sono frutto della deviazione degli insegnamenti religiosi, dell’uso politico delle religioni». E Francesco, nel condannare ogni forma di terrorismo e di «violenza fondamentalista», ribadisce che «la violenza non trova base alcuna nelle convinzioni religiose fondamentali, bensì nelle loro deformazioni».

Ma, per dare maggior forza al suo articolato ragionamento, forse sarebbe stato opportuno ripetere quanto affermato nella prima parte delle stessa enciclica: «credere in Dio ed adorarlo non garantisce di vivere come a Dio piace. Il paradosso è che, a volte, coloro che dicono di non credere possono vivere la volontà di Dio meglio dei credenti». In ogni caso Bergoglio conclude la sua lettera affermando di avere trovato la principale fonte di ispirazione nell’opera di San Francesco d’Assisi e nei seguenti «fratelli che non sono cattolici: Martin Luther King, Desmond Tutu e il Mahatma Gandhi».

389_001Qualche considerazione finale

Fratelli tutti è la Rerum novarum del nostro tempo. Francesco, con la sua enciclica, è riuscito ad individuare i problemi emergenti del presente con la stessa efficacia mostrata nell’800 da Leone XIII. In nessun libro di sociologia e di storia contemporanea si trova la stessa lucidità di analisi e la stessa capacità di sintesi mostrata dal papa argentino nella sua ultima enciclica. Una vera e propria summa dei problemi del nostro tempo: la globalizzazione e la digitalizzazione del mondo, il neoliberismo imperante nel mondo intero che non riesce più a rispondere ai bisogni degli ultimi, la perdita del senso della storia e i numerosi segni di un ritorno all’indietro, la crescita delle disuguaglianze sociali, l’esplodere della sfiducia, della rabbia, del cinismo e dell’indifferenza, l’incomprensione del fenomeno delle migrazioni, le contraddizioni prodotte da internet che avvicina ed insieme allontana le persone, facendo spesso perdere il gusto e il sapore della realtà concreta. Il tutto poi espresso con un linguaggio fresco, diretto e semplice.

Condivido, in gran parte, quanto sostenuto dallo storico Miguel Gotor in un eccellente articolo, intitolato Il Papa gesuita e i suoi nemici, pubblicato da La Repubblica lo scorso 18 novembre. In particolare anche Gotor è rimasto colpito dal suo stile comunicativo, affabile, diretto, fedele all’antico precetto dei Padri della Compagnia di Gesù: Suaviter in modo, sed fortiter in re. Egli è attento non soltanto alla sostanza delle cose, ma al come sono dette e da ciò deriva una speciale sensibilità al mondo della comunicazione con cui interloquisce, con una vigilata e dissimulata spontaneità.

Un altro tratto distintivo di Bergoglio è la predisposizione al dialogo. Per un gesuita la propria identità non è una fortezza da difendere, ma un ponte verso gli altri. In questa visione il dialogo diventa un metodo che si fa sostanza. Per un gesuita la verità non è un ciondolo da esibire, ma il prodotto di una ricerca che si arricchisce mediante la ricerca stessa. Gotor ha ragione di dire che Francesco ha tanti nemici dentro e fuori la sua Chiesa. Il loro astio poggia su una solidissima tradizione anti-gesuitica. Ma noi speriamo che il difficile ma coraggioso progetto di rinnovamento della Chiesa Cattolica intrapreso dal papa gesuita abbia alla fine successo.

Dialoghi Mediterranei, n. 47, gennaio 2021

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Francesco Virga, laureato in storia e filosofia con una tesi su Antonio Gramsci nel 1975, fino al 1977 lavora con Danilo Dolci nel Centro Studi e Iniziative di Partinico. Successivamente insegna Italiano nelle scuole medie della provincia di Palermo. Nel 1978 crea il Centro Studi e Iniziative di Marineo che continua ad animare anche attraverso un blog. È stato redattore delle riviste «Città Nuove», «Segno» e «Nuova Busambra». Tra le sue pubblicazioni si ricordano: Il concetto di egemonia in Gramsci (1979); I beni culturali a Marineo (1981); I mafiosi come mediatori politici (1986); Cosa è poesia? (1995); Leonardo Sciascia è ancora vivo (1999); Pier Paolo Pasolini corsaro (2004); Giacomo Giardina, bosco e versi (2006); Poesia e storia in Tutti dicono Germania Germania di Stefano Vilardo (2010); Lingua e potere in Pier Paolo Pasolini (2011); Danilo Dolci quando giocava solo. Il sistema di potere clientelare-mafioso dagli anni cinquanta ai nostri giorni (2012).

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