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La prostituzione del corpo e la criminalizzazione della donna
Posted By Comitato di Redazione On 1 luglio 2020 @ 01:57 In Cultura,Società | No Comments
di Laura Sugamele
La questione
Il termine prostituzione deriva dal latino prostitùere (“mettere in vendita”). La sua origine è molto antica, tanto che una delle forme più conosciute nel mondo antico era quella “sacra”. Tale pratica rituale era prevalentemente diffusa nelle società orientali, tra cui quella babilonese, fenicia e assira (Prati, Pietrantoni 2010: 222). In Grecia e nella Roma antica, la prostituzione prevedeva il pagamento obbligatorio di una tassa per i clienti e i relativi controlli sanitari. Con la religione cristiana la prostituzione viene invece identificata con l’impossibilità della redenzione e il peccato. Nel Medioevo, la prostituzione continuò ad essere praticata, addirittura tollerata e regolamentata negli ordinamenti cittadini, mentre in età moderna assunse una specifica connotazione, laddove, all’atto di esporre pubblicamente il corpo, ne conseguiva la vendita della prestazione sessuale.
Come sottolinea Nanette Davis (Davis 1993), con il termine prostituzione si intende un servizio di tipo sessuale a scopo di lucro, la cui caratteristica è quindi strettamente economica. In quest’ottica, la connessione tra corpo e prestazione, pone in luce la subalternità sessuale ed economica insita nel rapporto di prostituzione, ove le prestazioni sessuali sono configurate alla pari di una merce (Becucci, Garosi 2008: 5). Il commercio delle prestazioni sessuali si profila «come un rapporto sociale che porta con sé disuguaglianze di potere, di status, di ricchezza e di genere» (idem: 6-7). La componente economica della prostituzione, dunque, pone in evidenza le disuguaglianze strutturali tra i generi, la classe sociale e l’intersezione con diversi assi di potere. In tal senso, l’esperienza sessuale nella prostituzione, inevitabilmente, è soggetta oltre che allo stigma sociale (Nussbaum 1999), anche a certe discriminanti di carattere monetario. Lo scambio contrattuale tra le due parti: la donna prostituta e il cliente, impone di considerare la sessualità quale fattore allineato a mere esigenze economiche. In tal modo, la funzione del “contratto sociale” (Pateman 1988) conduce a individuare un ruolo sociale nelle donne così incardinato ad una determinata rappresentazione dei loro corpi, su cui gli uomini percepiscono un diritto di gestione e sopraffazione.
A questo proposito, di rilievo è la posizione della sociologa Julia O’Connell Davidson:
Lo scambio
Dagli anni Settanta e Ottanta, il mercato della prostituzione ha avuto alcuni cambiamenti in merito ad una espansione del business sessuale (Abbatecola 2018: 17). In questa fase, l’arrivo dei migranti e l’incremento delle richieste sessuali, in convergenza all’epoca del cyber porno, dunque dei siti porno, hanno prodotto una trasformazione di rilievo su tale scenario, in relazione ad un aumento della domanda e dell’offerta. In tale prospettiva, il mercato del sesso converge con un sistema economico che ha la necessità di incorporare una forza-lavoro specifica, in cui la domanda di provenienza autoctona viene sovrastata da un’altra domanda di derivazione estera, dai Paesi dell’Est-Europa, Sud-America e Asia, sino a quelli africani come la Nigeria.
Il punto su cui è necessario porre attenzione, è lo sfruttamento delle donne, tra l’altro giovani – ma anche di giovani uomini – ingannate con la possibilità di cambiare e migliorare la propria vita, separate dai familiari e dai loro luoghi di origine, inserite con forza nell’economia della schiavitù sessuale. Donne provenienti dai cosiddetti Paesi sotto-sviluppati, nei quali la migrazione può rivelarsi una scelta legata alla ricerca di un lavoro e di una vita dignitosa, piuttosto che, fuggire dalle difficoltà economiche del proprio contesto di origine. In tali termini, vi è la possibilità che le donne migranti siano più vulnerabili al pericolo della prostituzione.
Non tutte le donne e non tutte le donne migranti che decidono di prostituirsi sono realmente sfruttate, ma la maggior parte è vittima di questa forma di schiavitù, caratterizzata peraltro da ulteriori forme di violenze psicologiche e sessuali, oltre che da minacce che hanno il fine di creare in queste donne ancora più terrore, con intimidazioni legate a possibili ritorsioni sulla famiglia di origine, impedendo loro di rivolgersi alle autorità. Se negli anni Ottanta la prostituzione di donne prevalentemente straniere proveniva dal sud-America (Brasile, Colombia, Perù), con l’inizio degli anni Novanta il fenomeno cambia volto, privilegiando il traffico di donne africane, come le nigeriane e di quelle provenienti dall’est-Europa (Prati, Pietrantoni 2010: 223). Negli ultimi anni, tuttavia, anche le donne cinesi sono coinvolte nei traffici delle prestazioni sessuali.
Lo sfruttamento della prostituzione delle donne cinesi, infatti, sembra avvenire per lo più all’interno di appartamenti o nei centri di massaggio, e questo settore vede il coinvolgimento della malavita organizzata e della mafia cinese. «Il nuovo corso della prostituzione si caratterizza per la presenza di donne “trafficate”» (Idem). A rendere dunque complessa la questione è la sua fisionomia irregolare ed illegale, giacché le vittime, il più delle volte, non denunciano la propria situazione alle forze dell’ordine. Sulla connessione tra prostituzione e donne migranti, nel 2016 i dati forniti dall’Organizzazione internazionale per le migrazioni (OIM), evidenziarono una crescita esponenziale degli arrivi che Italia erano intorno ai 181 mila. Anche nel rapporto del 2015 dell’European Asylum Support Office, si osservava come nei traffici delle donne nigeriane le destinazioni erano Italia e Malta [1]. Da questo punto di vista, è indubbio che il mercato della prostituzione sia contraddistinto per le storie:
Nonostante ciò, molteplici sono i tentativi di contrasto del traffico sessuale di donne e ragazze. Molte organizzazioni, ONG e associazioni, hanno concentrato le proprie azioni sulla tutela delle donne vittime di tratta, cercando, per esempio, di focalizzare l’attenzione su un altro problema insito nel mercato della prostituzione e nello sfruttamento dei corpi, quello del turismo sessuale, notevolmente diffuso in alcuni Paesi come la Thailandia, ma presente anche in Europa; Amsterdam e Rotterdam infatti costituiscono due mete particolarmente ambite per i turisti sessuali. Sono inoltre aumentati i controlli nell’industria del sesso, specialmente alle frontiere, fattori che di certo hanno contribuito ad arginare il problema della tratta.
A questo riguardo, un’associazione il cui lavoro si è rivelato essenziale nell’assistenza di donne e ragazze vittime di tratta sessuale è l’Agir pour les femmes en situation précaire (AFESIP), fondata da una donna cambogiana Somaly Mam nel 1996, che ha come obiettivo quello di prevenire il turismo sessuale nei villaggi di Thainlandia, Laos e Vietnam e di evitare che bambine e ragazze vengano vendute ai bordelli cittadini. Grazie alle iniziative di organizzazioni e associazioni di questo tipo, sono state potenziate le campagne e le iniziative di informazione rivolte anche alla reintegrazione delle vittime di tratta, incrementando dunque una forte sensibilizzazione sul problema dello sfruttamento del corpo e sulla criminalizzazione sociale della prostituta, che difficilmente nell’opinione pubblica viene estesa ai clienti.
La narrazione
Nell’opera La donna delinquente, la prostituta, la donna normale di Lombroso e Ferrero, appare il termine di “prostituta-nata” (Lombroso, Ferrero 1893). Per la prima volta, venne concettualizzata la sindrome della donna prostituta che, per i due studiosi, aveva determinate caratteristiche. Capacità razionali inferiori; inclinazione a compiere azioni malevoli; eccitazione morbosa; attitudine alle azioni violente, all’adulterio e alla sindrome isterica; assenza di morale; una natura predisposta alla menzogna e alla vanità; definivano le prostitute, così categorizzate entro tali variabili. La descrizione della prostituta procede mediante un linguaggio, in un certo senso, “deumanizzante” (Simone 2017: 391), che aveva il fine di accentuare con le parole l’inferiorità biologica e razionale della donna. Inoltre, l’equiparazione della prostituzione con la nozione di crimine, serviva a creare una sorta di similitudine tra condotta sessuale riprovevole e azione delinquenziale.
Lo studio compiuto da Lombroso e Ferrero può ritenersi fondamentale per lo sviluppo del positivismo criminologico e l’analisi della personalità delinquente, in tal modo, categorizzata su specifiche anomalie fisiche da cui ne poteva conseguire un comportamento cosiddetto “deviante” (Cianciola 2009: 8). La “mostruosità” di presunti comportamenti devianti, riconducibile a determinati tratti somatici e fisici, di conseguenza, provocò culturalmente una profonda criminalizzazione sociale della donna prostituta. In tali termini, lo studio «della devianza femminile, […] parte dal presupposto che la principale forma di delinquenza nella donna, si esplica attraverso la “prostituzione”» (idem: 27).
Secondo lo studio di Lombroso e Ferrero, nella devianza connaturata alla donna prostituta, l’atto di prostituzione rappresenterebbe un modo per esprimere la sua degenerazione interiore. Pertanto, la prostituta sarebbe biologicamente predisposta a compiere atti sessuali immorali. Ed è nell’Ottocento, in concomitanza con la scienza positivista, che la donna prostituta veniva identificata con un tipo specifico di comportamento tale da determinarla come “criminale nata”, le cui caratteristiche erano molto simili a quelle maschili, ove una presunta tendenza alla mascolinità e alla crudeltà, sembravano connotare le sue alterazioni caratteriali (Núñez Paz 2015: 4).
Le leggi
Da Lombroso in poi, la stigmatizzazione della prostituta – portatrice di una morale deviata, consolidata da una inferiorità fisica e mentale – per converso, contribuì ad una costruzione “narrativa” del “femminile materno” come immagine della purezza, la cui attività sessuale doveva esplicarsi soltanto a fini procreativi.
La critica alla prostituzione, che ebbe uno sviluppo anche in termini legislativi, condusse alla formazione del modello regolativo di tipo abolizionista, di cui l’Italia divenne espressione con la legge Merlin n. 75 del 20 febbraio 1958. Introdotto il controllo sulle case chiuse e una serie di reati contro lo sfruttamento della prostituzione, si decretò la fine del modello regolamentarista a favore di quello abolizionista. Su questo punto, comunque, è bene precisare che il femminismo si è diversificato nel dibattito tra posizione abolizionista e quella a favore del sex-worker.
Negli ultimi anni, la riflessione femminista si muove nella direzione di una frattura rispetto alla questione della prostituzione; cosicché, se da una parte il femminismo pone enfasi sulla critica alla prostituzione – posizione che viene a configurarsi in linea ad un atteggiamento abolizionista – e su una identificazione sessuale del corpo femminile strumentale al piacere maschile e quindi oggetto di sfruttamento, dall’altra parte sottolinea, invece, l’importanza di non ignorare la voce delle stesse donne, per le quali la propria attività di prostitute andrebbe considerata come sex-worker. Da un lato, dunque, viene sostenuta la mercificazione del corpo femminile; dall’altro l’autodeterminazione del corpo sul piano sessuale-prostitutivo [2]. Sulla questione del sex-work, Paola Monzini scrive:
In questi termini, dall’approvazione della legge Merlin del 1958, ne consegue la cessazione di ogni controllo dello Stato, laddove il modello prescritto nella legge presenta comunque due problemi: in primo luogo, indebolisce la soggettività giuridica della sex-worker, categorizzandola in una visione esclusivamente degradante del corpo; in secondo luogo, assimila qualsiasi azione allo sfruttamento sessuale (Casalini 2014).
Per quanto le posizioni interne al femminismo siano oggi diversificate sul tema, in ogni caso, è indiscutibile l’importanza che la legge Merlin ebbe nella storia italiana, soprattutto, in merito al tema della condizione femminile, della protezione, della tutela delle donne prostitute e sulla questione del contrasto alla criminalizzazione sociale. Secondo Adelmo Manna «la legge Merlin costituisce una vera e propria “rivoluzione copernicana”, […] che prevedeva l’abolizione delle cosiddette case chiuse, proprio per evitare che la prostituta fosse una sorta di “vittima sacrificale” o, meglio, una sorta di merce in mano allo Stato» (Manna 2013: 1). La legge Merlin, dal nome della promotrice Lina Merlin, socialista e senatrice della Repubblica, promulgata il 20 febbraio 1958, determinò l’abolizione della regolamentazione della prostituzione e la lotta contro lo sfruttamento altrui.
Le conseguenze della legge furono radicali e il dibattito politico dell’epoca si incentrò sul nesso tra moralità ed etica pubblica. L’importanza di quella legge, per la prima volta, portò l’opinione pubblica a riflettere sulla subalternità sessuale di alcune donne, provenienti da strati sociali svantaggiati o con situazioni complesse di vita tali, da essere costrette ad utilizzare sé stesse come merce di guadagno, e con la legge emerse la problematicità insita nella discussione sul principio di autodeterminazione delle donne sul proprio corpo. Alla promulgazione della legge ne conseguì la chiusura delle case di tolleranza e l’introduzione del reato di favoreggiamento alla prostituzione, punito con la reclusione da due a sei anni e una multa da 500 mila a 20 milioni di lire. Nell’articolo n. 1, capo 1 “Chiusura delle case di prostituzione”, era sancito il divieto di esercizio «di case di prostituzione nel territorio dello Stato e nei territori sottoposti all’amministrazione di autorità italiane» (Gazzetta Ufficiale 1958).
Secondo le disposizioni di legge, la prostituzione di tipo volontaria e compiuta da donne maggiorenni non venne perseguita, perché ritenuta parte delle azioni e scelte individuali. Il medico e politico socialista Gaetano Pieraccini, non diede il suo consenso a questa disposizione di legge, in quanto le restrizioni che ne sarebbero derivate, secondo lui, avrebbero soltanto prodotto un peggioramento della situazione relegandola nell’ombra. Pieraccini, il quale basava le proprie convinzioni mediche sulla tesi lombrosiana della prostituzione, sosteneva la difficoltà per le prostitute di un reinserimento nella società, spiegando l’esistenza della prostituzione come un “fatto” naturale, di ausilio alle necessità fisiologiche maschili.
Analoghe considerazioni erano presenti nel pensiero di Vincenzo Monaldi, medico e Ministro della sanità durante il governo Fanfani (14 agosto 1958-15 febbraio 1959). Monaldi, affermava, addirittura, che vi fosse una predeterminazione biologica nella prostituta e delle variabili fisio-anatomiche che definivano la tipologia della “meretrice” (Azara 2017: 30). In modo specifico, la legge Merlin ebbe l’effetto di contrastare la compravendita di sesso, quindi la tassa di esercizio e la percentuale sugli incassi delle prestazioni delle prostitute. E un sostegno importante all’azione legislativa giunse dall’adesione dell’Italia alla Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo (1948), trattato che obbligava gli Stati firmatari ad impedire ogni forma di oppressione di esseri umani e sfruttamento della prostituzione.
Il progetto di legge della Merlin, infatti, mirava a reprimere il mercato dello sfruttamento, all’ombra delle leggi dello Stato. Del resto, per le donne, le condizioni di vita all’interno delle cosiddette “case di tolleranza” erano terribili. Le lettere che molte di queste donne scrissero alla senatrice Merlin, dimostravano la realtà dei fatti.
Le tenutarie infatti avevano un potere assoluto all’interno delle case, controllando la vita delle donne con una provenienza povera, caratterizzata da disoccupazione e dunque, con una difficoltà di reintegrazione sociale. Esse amministravano in prima persona i guadagni e le tariffe per i clienti. Le donne soggette alla prostituzione così descrivevano la loro terribile situazione, il più delle volte aggravata nella salute, a causa dei contatti con diversi clienti da loro accolti ogni giorno,«divenendo vittime di un’assistenza medica privata e clientelare» (Azara 2017: 21).
In merito all’eventuale reintegrazione sociale delle prostitute, l’articolo 8 “Dei patronati ed istituti di rieducazione” (Capo II), prevedeva la creazione di patronati, istituti che avevano il compito di tutelare e assistere le donne in un percorso di rieducazione e reinserimento sociale; l’articolo 10 (capo 2), invece, si rivolgeva alle minorenni, disponendo la riconsegna alle famiglie di origine o il loro affido agli istituti di patronato. È appena il caso di precisare che la legge Merlin non determinò la soluzione della prostituzione che, ad oggi, in tutta evidenza continua a persistere. Si può sostenere, tuttavia, che la legge contribuì ad arginare il problema e a contrastare una giustificazione di “normalità” dell’utilizzo del corpo femminile per fini sessuali. Alla chiusura delle case di tolleranza, molte donne si riversarono nelle strade, trovandosi in una situazione di vulnerabilità e di difficoltà nel reinserimento sociale, così che finirono per precipitare nuovamente nello sfruttamento sessuale su strada.
Nodi critici
Rispetto ai tempi della legge Merlin, il mondo della attuale prostituzione si è notevolmente diversificato: dalla prostituzione su strada e in prevalenza straniera, al fenomeno delle escort e della vendita di sesso sul web. Secondo Tamar Pitch, parlare di prostituzione come se fosse un mondo unitario è quindi limitante (Pitch 2013: 28). Secondo la studiosa non è caratterizzata soltanto da sfruttamento, tratta e coercizione. Non tutte le donne, infatti, sono da considerare soggette ad una oppressione sessuale o, in genere, vittime di tratta sessuale.
Nel dibattito sul “sex-work” – argomento su cui oggi il femminismo sembra dividersi – viene evidenziata l’eccessiva identificazione tra prostituzione, criminalizzazione e stigmatizzazione sociale. In tal senso, riconoscere il sex-work significa ri-definire la prostituzione stessa in funzione dell’affermazione del proprio status. Se da una parte, c’è un femminismo il cui obiettivo è l’eliminazione del mercato del sesso e la salvezza delle donne, dall’altra parte il movimento delle sex workers chiede il riconoscimento di diritti e della sessualità come soggettività, e la rimozione della pervasiva criminalizzazione dello status prostituente. Tale aspetto intrinseco alla prostituzione, dunque, va tenuto in conto.
Per quanto riguarda le donne vittime di tratta, invece, la situazione è ben diversa. In questo caso, prostituzione e scelta personale difficilmente convergono, anzi, paura e vergogna indotte nelle donne costituiscono le armi principali della costrizione, necessarie al mantenimento della gerarchia uomo-donna. Ed è la vergogna, l’arma più usata dalla cultura patriarcale per tenere sotto oppressione ogni forma di indipendenza femminile; a questa si aggiunge la violenza psicologica e sessuale, utile a perpetrare i meccanismi di soggezione e subordinazione su cui il dominio maschile ha definito le proprie fondamenta (Carpita 2019).
In questo profilo, Rachel Moran, donna sopravvissuta alla prostituzione, nel suo libro Stupro a pagamento. La verità sulla prostituzione, considera qualsiasi forma di prostituzione sul piano dello sfruttamento del corpo. Secondo Moran anche la prostituzione legale andrebbe vietata, in quanto anch’essa nasconde costrizione e dipendenza nel rapporto cliente-prostituta, alla pari della prostituzione da tratta, dato che la necessità economica che può esserci nella scelta della prostituzione è comunque espressione di uno status subalterno mascherato da una apparente autonomia. A tal proposito, le parole di Moran sono molto forti:
Offerta e domanda, dunque, esplicano una condizione permeata da una subordinazione economica-sessuale. Secondo le associazioni di settore, l’esercizio della prostituzione anche in appartamenti privati, rende le donne ancora più esposte allo sfruttamento sessuale, criminalizzate rispetto ai clienti e alle potenziali organizzazioni che vi sono dietro il mercato. In uno studio condotto dalla femminista Julie Bindel (Bindel 2019), sia per le strade che dentro i bordelli legali di Europa, Nordamerica, Australia, Nuova Zelanda e Africa, emerge quanto sia forte la criminalizzazione sociale nei confronti della prostituta, a differenza dei proprietari dei bordelli e dei clienti. E sulla prospettiva della stigmatizzazione sociale, è necessario sottolineare quanto il fenomeno della prostituzione sia ormai caratterizzato non solo da donne, ma anche da uomini e transessuali, in prevalenza migranti, costretti ad una situazione di esclusione ed emarginazione per il fatto di essere migranti, una esclusione che si estende dall’accesso alle risorse materiali a quelle culturali.
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