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La piazza “mediterranea” nei borghi rurali in Sicilia
Posted By Comitato di Redazione On 1 luglio 2019 @ 02:06 In Cultura,Società | No Comments
di Cesare Ajroldi
Affronto in questo articolo un tema che penso possa assumere un senso rispetto al dibattito contemporaneo: quello dei borghi rurali costruiti in Sicilia tra la fine degli anni Trenta e gli anni Cinquanta da un gruppo di architetti siciliani, il cui esponente principale è Edoardo Caracciolo, che si occupò alla fine degli anni Trenta di architettura spontanea. Caracciolo, figura nota e citata in molti testi, con altri (Gruppo Urbanisti Siciliani) lavorò tra l’altro con Giuseppe Samonà in alcune occasioni, la cui principale è la realizzazione di Borgo Ulivia a Palermo nella seconda metà degli anni ’50, un quartiere di edilizia sovvenzionata particolarmente innovativo per il periodo. E un altro protagonista di questo gruppo è Pietro Ajroldi, grande amico e di qualche anno più giovane di Caracciolo, autore con lui di studi e mostre sull’architettura minore e autore di molti progetti di case del fascio e di un borgo.
Pietro Ajroldi inizia a progettare alla fine degli anni ’30: i suoi primi progetti, redatti tra Roma e Palermo, risentono poco della stagione razionalista italiana, e pochissimo della retorica di regime. Si tratta soprattutto di progetti per Case del Fascio in piccoli centri e borghi rurali, di cui almeno uno costruito (Borgo Sparacia, poi Callea, in provincia di Agrigento). In questi l’architettura è caratterizzata da semplicità, utilizzazione di materiali naturali, in una parola da una sorta di mediterraneità, di vernacolarità derivata soprattutto dagli studi compiuti, in particolare con Edoardo Caracciolo, sull’architettura minore siciliana: Erice, i borghi attorno a Palermo, eccetera.
Scrive su Pietro Ajroldi Paola Barbera:
I progetti dei borghi rurali costituiscono un complesso di risultati di grande interesse, e rappresentano una stagione significativa dell’architettura siciliana. I primi otto sono stati progettati e in buona parte costruiti tra la fine degli anni Trenta e l’inizio dei Quaranta, e sono stati pubblicati nel 1941 su «Architettura» con un articolo di Maria Accascina, che scrive:
La piazza come elemento caratterizzante della gran parte di questi piccoli insediamenti, connessi secondo il progetto generale in una rete che li legava alle abitazioni rurali diffuse nel territorio diviso in lotti coltivabili in modo intensivo. La piazza è anche l’elemento che motiva la scelta degli esempi che presento, perché costituisce la struttura fondamentale di quelli più significativi. Le due bellissime immagini che corredano lo scritto di Accascina, di Borgo Gattuso e Borgo Fazio, appena costruiti, in rapporto con un territorio ancora assolutamente deserto, di cui i borghi dovevano essere l’occasione di una grande trasformazione produttiva, sono estremamente significative: ci danno, insieme alla citazione del tema della piazza, lo spunto per caratterizzare questa architettura come metafisica costruita, riprendendo il titolo di un testo relativo soprattutto alle città della bonifica pontina.
In un saggio di un testo riferito alle architetture pontine, ribadisce Giuseppe Strappa:
«… non si può non rilevare come gran parte dei borghi e delle Città di fondazione costruiti dagli architetti italiani tra le due guerre siano partecipi di una nuova, tutta moderna specificità mediterranea la quale, se si guarda alle radici organiche (tettoniche e tipologiche) della costruzione e del suo rapporto con l’organismo urbano, oltre le ideologie e le inevitabili diversità areali, sembra per larga parte derivare da un nucleo centrale di caratteri condivisi, la coscienza dei quali nasce e si evidenzia dalla contrapposizione con la serialità e discontinuità del mondo moderno nordeuropeo. E dalla quale traggono origine i linguaggi, cioè gli usi personali della lingua, il cui studio strutturale permetterebbe di legare in un inedito percorso, per esempio, la produzione “muraria” dei pionieri del moderno, testimoniata da Le Corbusier delle case Errazuris, De Mandrot, Jaoul; le opere degli architetti “emigrati” verso il sud, come i costruttori della “città bianca” di Tel Aviv; quelle di interpreti più recenti del linguaggio plastico e murario su cui si fonda la tradizionale organicità del mondo costruito mediterraneo come Pouillon, Pikionis, Costantinidis.
Illuminando di nuovi significati opere e personaggi che, se interpretati secondo i metodi e i principi delle storiografie ufficiali, non risulterebbero che frammenti dispersi della vicenda dell’architettura moderna»[3].
La assolutezza degli spazi delle piazze dei borghi, oggi particolarmente evidente per il fatto che sono in gran parte abbandonati e/o profondamente mutati (a eccezione di Borgo Callea e Borgo Cascino), rende esplicito il riferimento alla metafisica, e ci consente di approfondire i caratteri di questa mediterraneità: nel rapporto voluto con il territorio, nella persistenza della piazza come elemento fondante, nell’adozione della struttura muraria, nella semplicità delle forme. Così, questi esempi “minori” possono essere assai utili a dare un ulteriore contributo alla definizione del tema.
Questa esperienza si inserisce nel dibattito che si svolge in quegli anni in Italia sull’architettura spontanea, il cui protagonista principale è certamente Giuseppe Pagano. Scrive di lui Maria Luisa Madonna:
«Il suo richiamo a una meditazione più specifica e approfondita fa sì che la sua “casa mediterranea […] corrispondente in ogni suo particolare ai bisogni della vita agricola”, conclude la Danesi, risulti “in posizione opposta rispetto alla evocazione di canoni greci e di ideali neoplatonici che comporta il mare Mediterraneo” per tutti quegli intellettuali razionalisti puristi che si riconoscevano nei postulati lecorbusiani. In questa temperie diventa inequivocabile l’atteggiamento culturale e progettuale degli architetti palermitani del Gruppo M., di cui Caracciolo si fa portavoce: si tratta di fare architettura moderna ma in più si cerca una forma-funzione con radici specificamente siciliane ma non vernacolistiche, mantenendo l’impegno con le nuove vie dell’architettura. “Gli architetti del gruppo M. non si propongono di fissare caratteri generali distintivi dell’arte mediterranea, anche se limitata all’edilizia minore; vogliono solo continuare le ricerche già iniziate, mentre tendono a fissare alcuni elementari caratteri siciliani, inesattamente valutati” (1937)»[4].
I primi otto borghi sono stati realizzati in otto delle nove province dell’Isola; nel 1940 ne sono stati messi in cantiere altri sei, completati negli anni Cinquanta. Erano in gran parte posti in luoghi ritenuti salubri, per lo più su alture, e costituiscono così elementi di immediata riconoscibilità rispetto all’intorno.
Quelli che presento, in relazione ai temi della piazza e del rapporto col territorio, sono in buona parte del gruppo più antico. Il Borgo Gattuso, di Edoardo Caracciolo, presso Caltanissetta, è oggi quasi irriconoscibile, a eccezione della chiesa, architettura di pura forma cilindrica posta all’estremità del complesso in posizione elevata: ha un sistema planimetrico ordinato, come nei progetti coevi di Caracciolo, e legato alla particolarità del sito, con la scelta della sistemazione della chiesa.
Il Borgo Fazio, di Luigi Epifanio (un altro protagonista di quella stagione dell’architettura palermitana), in provincia di Trapani, anche questo pressoché abbandonato, è caratterizzato da un fronte aperto sul territorio, fronte posto su una quota leggermente superiore all’area adiacente.
Il Borgo Cascino, presso Enna, di Giuseppe Marletta (esponente del gruppo di architetti catanesi, per formazione e riferimenti in parte differenti dai palermitani), è molto compatto e ancora riconoscibile nei suoi aspetti principali. L’architettura presenta caratteri di qualità, anche nell’uso dei materiali (anche se i colori pastello del recente restauro sono alquanto discutibili, come si può notare dalla veduta di epoca precedente all’intervento). La pietra con cui è costruita la torre è riproposta, in forme di grande semplicità, negli elementi di decorazione degli edifici, cornicioni, portali, cornici di finestre e marcapiano. Il progetto prevedeva un ampliamento che non è stato realizzato.
Anche il Borgo Bonsignore, vicino Ribera in provincia di Agrigento, dell’ingegnere Donato Mendolia, è ben conservato, e come il precedente ha la piazza come elemento fondante.
Dei borghi successivi, abbiamo già accennato a Borgo Callea, di Pietro Ajroldi, in provincia di Agrigento, ancora ben conservato e utilizzato, anzi sottoposto a un’operazione di “restauro” recente, in cui però si è scelto di modificare la superficie esterna di gran parte degli edifici con un rivestimento in pietra, escludendo solo la torre littoria, l’unica del progetto originario (con la chiesa) prevista in pietra. Malgrado questo discutibile intervento, l’aspetto della piazza è ancora chiaramente leggibile ed è forse quello che maggiormente la apparenta alle piazze della pittura metafisica.
L’altro borgo coevo è il Borgo Borzellino, in provincia di Palermo, di Giuseppe Caronia e Guido Puleo, in cui ancora la piazza è il fulcro principale, ma è ormaidel tutto abbandonata e ridotta allo stato “vegetale”.
In conclusione si può asserire che il tema della piazza, ignorato dagli esempi emblematici del Movimento Moderno in quegli anni, costituisce un elemento profondamente connaturato alla architettura italiana, e ripreso negli anni ’60-’70 dall’architettura della “Tendenza”, alla quale si deve anche una indiscutibile coerenza con la pittura metafisica, con le piazze dipinte da De Chirico. Per cui queste realizzazioni di scala molto limitata possono rappresentare un carattere significativo dell’evoluzione della disciplina nel Ventesimo secolo.
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