Ilaria Palomba è una giovane scrittrice, poeta e saggista. Autrice prolifica e sempre originale recentemente si è segnalata per una raccolta di poesie Scisma, a cui è seguito Purgatorio, un memoir “che segue un andamento poetico”: entrambi affrontano, tra gli altri, il tema degli attraversamenti solcando tre territori distinti ma confinanti: il disagio di vivere, il tentativo di suicidio, e il purgatorio, appunto, il “tra” pur sempre così complicato da affrontare e denso di nuovi approdi. Le abbiamo proposto questa intervista, che possiamo definire senz’altro “in presa diretta”, con l’obiettivo di documentare come la poesia possa essere davvero un autentico strumento di ricerca anche esistenziale a patto che non ci si parcheggi placidamente nella “sindrome dello specchio”. Lo specchio non è una identità, anzi. Lo specchio bypassa a piè pari il tema dell’altro che nella società odierna si sta affermando come l’ultima possibilità che davvero ci è data per uscire fuori dal caos che abbiamo prodotto.
Siamo con Ilaria Palomba, poeta, scrittrice… sei anche saggista?
«Ho scritto un solo saggio, grazie a una borsa di studio Rotary che mi ha permesso un anno di ricerca al CeaQ di Parigi. Il libro s’intitola Io sono un’opera d’arte, viaggio nel mondo della performance art. Ho applicato la sociologia dell’immaginario di Michel Maffesoli al mondo delle arti performative, ma c’è anche un capitolo sul Sex appeal dell’inorganico di Mario Perniola, sono stata guidata dal sociologo Vincenzo Susca, che mi ha fatto scoprire molti degli autori che tutt’ora leggo, tra cui Deleuze e Bataille».
Ecco cominciamo da qui. Stare in una dimensione intellettuale mai codificata e mai codificante, sempre nel segno della ricerca. È questo quello che ti guida?
«Sì. Potrebbe essere quello che Deleuze definisce “nomadismo”. Mi guida il fluttuare, stare in una forma veramente fluida, anche se sembra un ossimoro, tra i mondi, tra le persone; perché mi piace tirare fuori sempre qualcosa da tutto ciò che incontro. E per farlo bisogna essere un po’ liquidi. Aiuta sicuramente il fatto che la mente sia fluida, gli argini siano un po’ più deboli. Aiuta ad entrare in contatto con gli altri. Facile è entrare, difficile uscire. L’arte sta sulla soglia».
Questo però vuol dire una maggiore capacità di consapevolezza.
«Sì perché è anche un rischio. Lo è a livello affettivo, sicuramente. Ci ritroviamo in una forma di perdita del sé, una crisi della presenza, per usare un’espressione cara a De Martino. Si possono far saltare i confini dell’ego, ma deve avvenire per stadi successivi di consapevolezza. Fortificarsi prima in quanto Sé, non in quanto Ego: solo allora si può accogliere l’altro. Se non hai la forza distruggi te e l’altro».
Parte di questa forza può derivare dalla parola. Parola che sta attraversando una fase particolare. Condividi il fatto che in una fase del genere la centralità, anche qui un ossimoro ci aiuta, è della parola di confine. Basta riflettere soltanto sulle parole che il Papa ha avuto a proposito della poesia, se vuoi un fatto inedito, visto che per il mondo cattolico il massimo di poesia è la preghiera. Con Scisma e con Purgatorio metti in campo una parola che abita proprio le zone liminari. Lo condividi?
«Deleuze utilizzava il concetto di soglia. Il confine come un qualcosa che ti getta in un reale lacaniano che non è il principio di realtà. Chi parla della mia scrittura come di una scrittura realista, come se tutto quello che scrivo fosse avvenuto a me, non ha compreso il mio lavoro. Non è né un diario, né una forma di denuncia, ma un’irruzione dell’inconscio. Mi sento molto più vicina al surrealismo che al realismo di chi racconta con l’idea di essere nella sola realtà della materia. Uso la mia autobiografia come trama. Ma al di là di questo, vado talmente oltre i fatti, a tali profondità del reale che ad un certo punto perdono il contatto con il possibile. È sempre il racconto di un impossibile. La parola poetica in particolare rispetto alla prosa ha questa potenzialità, che è l’accesso a quello che io definisco il sacro, cioè l’impersonale, come lo definiscono Simone Weil e Maurice Blanche: è ciò che avviene quando la persona è in un certo senso “bucata”. C’è un’apertura estrema. Da un lato la persona è gettata nel maleur, quindi nella disgrazia, ma è proprio da quella disgrazia che entra la grazia».
Nella nostra epoca, se vogliamo, si palesa una forma di impersonale che è l’intelligenza artificiale, ovvero una procedura, un insieme di pratiche da cui l’individuo finisce per dipendere, ma che non lo sostanziano, anzi. Da lì non arriva nessuna sacralità.
«Ci sono due libri interessanti in proposito: Un oscuro riflettere di Claudia Attimonelli e Vincenzo Susca, e un altro, di Paolo Ercolani, Nietzsche l’iperboreo, il profeta della morte dell’uomo nell’epoca dell’intelligenza artificiale, che la vede come un deragliamento dall’umano. Il libro di Attimonelli e Susca è un saggio sulla nota serie televisiva inglese che ha catturato l’attenzione di molte persone, in modo particolare degli addetti ai lavori: filosofi, sociologi e massmediologi. Ma Un oscuro riflettere non è solo un testo su Black Mirror, è un’acuta e profonda analisi estetica del mondo in cui viviamo in vista del suo superamento. Qual è il mondo in cui viviamo? Fino a poco tempo fa si sarebbe detto il mondo umano, quello in cui l’uomo domina sugli altri esseri e, in seguito alla secolarizzazione e alla rivoluzione industriale, sottomette ogni alterità. Questo mondo frana da lungo tempo ma è proprio negli ultimi tragici sviluppi della vicenda umana che possiamo vederne crollare le fondamenta. Non solo i media da essere mero strumento sono diventati, come immaginava McLuhan, messaggio ma addirittura diventano il presupposto dell’umano nella concretezza della sua definizione ancipite: animale sociale. Attimonelli e Susca sostengono che Black Mirror sia stato non profetico ma attuale nel mettere in luce il venir meno del soggetto moderno, ma perché ci piace vederci riflessi in quello specchio nero mentre franiamo? Forse perché «siamo affaticati dal peso della nostra storia, non ci crediamo più da tempo e accarezziamo con segreto giubilo l’idea e la rappresentazione della sua rovina».
Il libro di Ercolani invece si sofferma sulle modalità in cui l’umano è stato superato e per andare verso cosa. Si tratta di passare dalla morte di Dio alla morte dell’uomo, ma naturalmente siamo ancora a lutto per tale morte, ne paghiamo uno scotto pesante. Quindi c’è una domanda sull’utilizzo improprio della filosofia nietzscheiana, e uno sguardo al confine che l’umano dovrebbe porre per non involvere anziché evolvere. Perché Nietzsche può portare a gettarsi nell’idea oltranzista di superamento, ma ci è ancora dato di riflettere in vista di cosa. Qui l’intelligenza artificiale non è condannata in quanto tale, ma se ne analizzano utilizzi e finalità.
Io credo che il transumanesimo possa esercitare un grande fascino, specialmente sulle nuove generazioni, ma dobbiamo sempre chiederci a cosa siamo disposti a rinunciare, e quanto potremmo pagare la rinuncia alla ragione, quanto potrebbe costarci in chiave psichica, fisica, economica, sociale, e cosa possa essere più questa società postumana se non una nuova forma di nazismo dove l’ambivalenza, l’errore, la deflessione dell’umore vengano automaticamente corretti o rigettati nel regime della non validità. Quindi, non solo la morte dell’uomo ma, per conseguenza, la morte dell’arte. Come sappiamo, tutte le avanguardie nascono dalla mancata adesione a un canone, dall’errare e dall’errore. Eliminato l’errore resta la tecnica ma muore l’arte (ne ho scritto in un romanzano pubblicato online, e mai preso in considerazione dagli editori)».
Torniamo alla parola sacra. Tra l’altro nella lettera ai poeti papa Francesco sembra un po’ rimettere in discussione gli argini. La parola di Scisma e Purgatorio è una parola che serve ad indagare ma nello stesso tempo tende a prendersi uno spazio per sé, a conquistare una propria locazione.
«Sento che questo Papa è una persona speciale, che ci dice cose importanti sulla pace. La parola poetica è importante perché permette agli individui di riprendersi un po’ di potere, il potere del dire tra le righe, il potere di autodeterminarsi. Sta a noi poi decidere se volgerlo al male, questo potere, ovvero al dominio sul prossimo, oppure verso la luce e l’armonia. Lo puoi aprire alla luce ma anche alla lamentazione continua. Aprirlo alla luce, e alla vita, è già di per sé un gesto politico».
Con la parola sacra siamo vicini, davvero di poco, alla filosofia. Sarebbe interessante perché assisteremmo a una ricongiunzione epocale.
«Mi viene da ripensare a Hölderlin che in “Come quando al dì di festa” dice che compito del poeta è proprio quello di tornare sulle tracce di un sacro che non c’è più. Il limite del nichilismo da questo punto di vista è correre il rischio di non riuscire a lasciare traccia di nulla agli altri. La vocazione artistica è una chiamata. E non serve solo a fare una collezione di encomi. Non necessariamente deve essere un messaggio codificato, ma anche una semplice traccia che dica che la vita umana è ancora possibile, che si può sperare».
La poesia intimista corre sempre il rischio di un ermetismo autoreferenziale. Di per sé non sarebbe un problema se questo percorso, in fondo auto-riflettente, non creasse degli esiti tragici per l’autore stesso.
«A me l’intimismo ha molto affascinato. Quando scrivevo “Mancanza”, per esempio. Poi è accaduta una contaminazione con scritture e maestri. Per esempio, Antonio Veneziani, Luigia Sorrentino, Alfonso Guida, mi influenzano tutt’ora moltissimo. La poesia intimista può essere affascinante perché comunque c’è una vertigine. Il problema è se tu stai raccontando questa storia soltanto per la funzione dello specchio, oppure se è uno specchio di lacaniana memoria per ritrovare l’altro nel riflesso. Per arrivare a dire, insomma, tu sei come me, sei un altro me. Una discesa sciamanica dentro di me per riconoscere l’altro».
Uno dei limiti della poesia intimista è quella di consegnarci in un tempo X non caratterizzato. E quindi tutto viene vissuto in una sorta di sospensione. È troppo questo punto di vista per analizzare la generazione di oggi?
«È da un po’ che non ci si esprime in modo originale, ma semplicemente perché non si capisce dove stiamo andando, a cosa andiamo incontro, a chi stiamo dando cosa, e cosa ci aspetta un domani (ma anche un oggi) a livello geopolitico. Quindi, secondo me la poesia non solo deve dire qualcosa di esplicito, ma deve anche giocare in modo obliquo, ovvero far arrivare i concetti senza buttarteli in faccia, come era il codice quando l’arte veniva vietata».
Il rapporto della tua poesia con l’universale. Vai alla ricerca di un universale non improvvisato, come ci viene indicato…
«Per me l’importante è uscire dall’idea che sto parlando solo a me stessa. È un rimprovero che mi hanno fatto, anche editori. Grazie alla psicoanalisi ho capito che l’universale in me arriva dalla discesa dentro se stessi. Non giunge dalla pretesa di raccontare il mondo, magari da una posizione di realismo assoluto. Non raccontare solo fatti ma quanto più possibile l’inconscio, dove si può incontrare l’inconscio collettivo».
Nella tua poesia c’è comunque un canto che corrisponde a una grande indignazione, ed è sempre più o meno latente un desiderio di giustizia riparatrice.
«Sì, è vero. Una protesta contro le ingiustizie, contro l’idea di essere buttato nel malheur solo perché si è nati in un contesto preciso e in una definizione, e lì ti costringono per tutto il resto della vita. Eppure questo desiderio di dire qualcosa di diverso e di manifestarlo è un bisogno insopprimibile».
Come si rende pubblica la poesia considerando che da una parte l’editoria classica sembra alle battute finali e i social hanno manifestamente tradito le attese. È tutto molto rigido, che trasmette rigidità ai poeti, che si sentono tutti legati al ‘900.
«La poesia è difficile da collocare. Qualcuno, major a parte, ci riesce, come Interno Poesia, o Interlinea, o Arcipelago Itaca, o AnimaMundi, o la Gialla di Pordenonelegge, o la collana Icone di Les Flaneurs, che sta facendo un ottimo lavoro. Siamo legati al ‘900 perché ci sono stati maestri inarrivabili. Chi può oggi eguagliare un’Amelia Rosselli, un Pier Paolo Pasolini, un Ferruccio Benzoni, un Guido Ceronetti? Cosa può fare di nuovo la parola? Ridursi, forse? Tornare indietro? A me piace chi scrive in metrica, ma si possono trovare altre forme in cui nella ripetizione si dice qualcosa di nuovo, come teorizzato in Differenza e ripetizione per quanto concerne invece l’esperienza filosofica. L’impegno è ripetere l’antico giungendo al nuovo, con variazioni che esprimono qualcosa di personale e di molto profondo tale da raggiungere l’impersonale».
Insomma, per te l’autorialità vale ancora a livello individuale.
«Domanda difficile, perché da una parte il genio va protetto, come sostiene Nietzsche in Schopenhauer come educatore; dall’altra dobbiamo aprirci all’alterità, non è detto che ciò che vale oggi valga sempre: magari un domani scopriremo che a restare sarà qualcuno che oggi non è considerato valido. Credo molto nella gentilezza, in forma rivoluzionaria. Sono certa che una parte resterà ma, nel qui e ora, perché applicare categorie violente e rigide verso chi comunque cerca di esprimersi?».
Dialoghi Mediterranei, n. 73, maggio 2025
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Fabio Sebastiani, giornalista e poeta, è laureato in Filosofia nel 1988 con una tesi sulle lingue artificiali. Dal ’95 e fino al 2012 fa parte della redazione di Liberazione occupandosi del settore sindacale. Ha al suo attivo diverse iniziative giornalistiche come la creazione e la conduzione di alcune web radio come Radio Rete Edicole, Radio Iafue, Radio Mir e Radio Anmil Network. Come poeta ha pubblicato un libro di aforismi e una raccolta di poesie dal titolo Molecole semplici per rivoluzioni complesse. Ha curato insieme ad altri due poeti due poemi collettivi, Gabbia no e Amicizia Virale.
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