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La pandemia tra pubblicità e cultura popolare

Posted By Comitato di Redazione On 1 luglio 2020 @ 00:47 In Cultura,Società | No Comments

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Foto Kumiro Hirama (Getty images istockphoto)

dialoghi oltre il virus

di Pietro Clemente

Il virus, la televisione senza realtà e il narcisismo

Il tempo della clausura da virus, con la maggiore esposizione alla televisione per tante ragioni, tra le quali anche il giornaliero rapporto della Protezione civile, mi ha reso insofferente alla pubblicità che, spietata, ci infligge a ripetizione spot sulle acque, sulle auto, su farmaci e dentifrici, su assicurazioni e immobiliari, sempre gli stessi. Così che anche i pochissimi spot un po’ divertenti producono un vistoso fastidio alla bocca dello stomaco. Così almeno succede a me, che pure alcuni anni fa seguivo con curiosità e passione delle tesi di laurea sulla pubblicità e su giovani vivaci e pubblicitari. E pensavo allora che fossero un luogo di innovazione dei linguaggi. Ora mi sono convinto di una cosa detta da sempre dai più critici, ovvero che la pubblicità è una forma patologica della comunicazione, selettiva, quasi per statuto menzognera, centrata sull’induzione al consumo, capace di orientare programmi televisivi che danno visibilità a chi ha più soldi per pubblicizzarsi. Una mostruosa anomalia a cui ci siamo abituati, e che, nel tempo della quarantena, è tornata per me ad essere ‘evidente’ nella sua scandalosa presenza.

sqqrowbyjcqaeiv-800x450-nopadMa anche nei telegiornali della mia rete prediletta Sette di Mentana, che pena e che distanza dagli anni in cui era in auge il valore della ‘diretta’, il modello CNN! Quando si parla di economia si vedono in continuazione rotative che stampano euro, qualche volta pezzi da 100, qualcuna da 200, più raramente da 500. Così quando si parla della destra si vedono sempre gli stessi tre leader davanti a Palazzo Chigi, la Meloni sempre con lo stesso cappottino verde. Insomma prevale il repertorio sulla diretta, fino al nonsense. E perché mai un runner quando si parla di MES? Perché c’è una folla quando si tratta di eventi che, tra l’altro, non la possono più avere. Domina l’idea che le immagini sono lì per fare compagnia alle parole. Il rovescio della natura comunicativa radicalmente visiva della Televisione. Ma questo non è solo per colpa del virus, è così ormai da tempo anche nelle altre televisioni. Si risparmia, immagino. Avete visto sulla Tre i laboratori dove si analizzano i test sierologici? Sempre la stessa immagine, sempre la solita infermiera (o dottoressa) vista di schiena che va verso una porta. Forse oltre quella porta c’è la televisione che ci manca, quella che parla anche di altri Paesi e non solo di noi, quella di denuncia, di scoperta, di presa diretta sul mondo. Quella che ormai fanno solo le persone della strada, armate di telefonino al momento giusto e sul posto giusto.

All’uscita dalla fase Uno varie pubblicità sono cambiate (alcune già durante la fase Uno) e hanno voluto tener conto dell’esistenza del mondo. Ma come lo hanno fatto? Prevalentemente approfittando di una ondata di vanagloria nazionale alimentata dalla politica, arrivando al paradosso da un lato di vantare l’eccezionalità degli italiani da parte dell’antica FIAT che tutti accusano di avere largamente abbandonato l’Italia e non solo sul piano fiscale, dall’altro di cavalcare l’idea di bellezza unica, di eccezionale eccellenza propria del nostro super-Paese. Ai miei tempi la vanteria e la vanità erano due peccati gravi, ed anche segni di mancanza di educazione. Se sei bello aspetta che te lo dicano gli altri, dirselo da sé non è esattamente dignitoso. Anzi se ci si guardava a lungo allo specchio si diceva si vedesse il diavolo. Mia mamma di cultura napoletana diceva “Chi si vanta ‘a sulo non vale nu fasulo”[1]. Secondo i rappresentanti della politica italiana, l’Italia è la più bella, la più coraggiosa, la più gloriosa, la più eroica. Le parole bellezza ed eccellenza riguardano ormai tutto, dai vini alle uova, da Raffaello alla pastasciutta. Le pubblicità ci sguazzano.

uliveto-schermata-2020-01-21-alle-17-53-48Il terribile duo Uliveto e Rocchetta, campione di pubblicità frequenti e ripetitive fino al mal di stomaco (da quanti anni Del Piero e il passerotto ci invitano a bere?) si è prodotto in questa pubblicità: «Vivi il Paese più bello del mondo, le sue meravigliose montagne, il suo mare cristallino, la sua arte e la sua storia, oggi più che mai vivi l’Italia, Uliveto e Rocchetta acque della salute, viviamo l’Italia insieme». Monti, mari, scavi, quadri, assai generici, con immagini banali fanno da cornice al Paese più bello del mondo. Con queste acque (tra l’altro spesso denunciate da varie associazioni dei consumatori e plurimultate per uso millantato di autorità sanitarie, almeno così leggo sul web e potete farlo anche voi) dovremmo vivere insieme l’Italia. Ma volete sapere come siamo noi italiani? «Chi sono gli italiani? Sono quelli che non hanno paura delle salite, sono quelli che quando non c’è una strada se ne inventano una. Gli italiani sono quelli capaci di superare qualunque ostacolo. Ecco perché non potevamo che costruire qui le nostre auto ecco perché Jeep non poteva che ripartire così, prodotta in Italia. Stacco. Ripartiamo dall’Italia ripartiamo dai prodotti italiani».

Ora sappiamo chi siamo, e perché la FCA ‘riparte’ con la Jeep prodotto italiano (elettrica? Ibrida? No, questo non è rilevante). Una pubblicità più accurata dell’altra, dal punto di vista della qualità visiva, è basata soprattutto su immagini di persone in vari ambienti: s tratta per lo più di volti o mezzi busti maschili, di varie generazioni, connessi ad attività artigiane o di piccolo commercio, con l’aggiunta di personale medico e maschere per l’ossigeno e infine – in gloria – ecco gli stabilimenti e gli operai FCA di Melfi, che mostrano la scocca della Jeep.

Sono certo che non siamo il Paese più bello del mondo, almeno finché non ci sarà un concorso imparziale e interstellare che lo proclami. Né che siamo capaci di superare qualunque ostacolo. Pura retorica pubblicitaria per dire tutt’altro. Per associare prodotti da comprare in una fase in cui gli italiani si sono sentiti uniti profondamente dalla comune condizione di fragilità e di minaccia da parte del virus. Doloroso che anche il Ministro dei Beni Culturali e quello degli Esteri parlino come i pubblicitari.

In questo tempo molti contestano all’Italia i suoi primati, soprattutto quelli basati solo sulla autocertificazione. Fino a fare cadere tutto il nostro mondo ancora pieno di dolore nel ridicolo. La giostra della vanità si riproduce tra le regioni, nel conflitto tra i governatori. Specchio delle mie brame quale è la regione più bella del reame? E sono anche le regioni a farsi pubblicità:

schermata-2020-05-18-alle-16-47-24«Umbria: Bella e Sicura. Spot ufficiale per la Promozione della Regione Umbria. Estate 2020». Ecco lo spot di 10 secondi: «Umbria, la natura, l’arte, i sapori, una terra meravigliosa che vi fa sentire bene. Umbria cuore verde d’Italia». Forse, ricordando una delle deduzioni paradossali nei famosi falsi sillogismi attribuiti a Cirano de Bergerac: l’Umbria essendo meravigliosa, è anche la regione più bella d’Italia, ed essendo l’Italia la più bella del mondo se ne deduce che l’Umbria sia la più bella del mondo.

Una regione paga una pubblicità per dire che è meravigliosa. Un po’ meglio le Marche: «Ciao sono Vincenzo Nibali, mi sono innamorato delle Marche durante il giro d’Italia e da allora ogni volta che posso vengo a pedalare nei luoghi unici di questo territorio, questa regione ha in tutto 180 chilometri di coste incantate, montagne da togliere il fiato, intime strade di collina e centinaia di antichi borghi arroccati; la mia fuga sono le Marche paradiso del bike».  D’accordo sono il paradiso e questo è eccessivo, ma lo sono solo del bike. Però la pubblicità non è terminata. Ecco il colpo finale. Una voce fuori campo profonda e suadente dice: «Marche bellezza infinita». Ecco anche l’infinito. In fondo è un prodotto DOC grazie a Leopardi.

La mia tesi sarebbe che nella pubblicità si devono usare tutte le parti del discorso salvo gli aggettivi. Vieterei qualsiasi uso di aggettivi come base della comunicazione turistica professionale. Insomma tra pubblicità e politica c’è stata una esplosione di narcisismo, di vanità, di superbia (tra i peccati capitali la vanità è connessa alla superbia) che secondo me fa male a tutti noi che abbiamo vissuto questo difficile tempo di dolore e di morte. Che altera il giusto clima di una ripresa della vita, delle speranze, del lavoro, della dignità.

4Perfino l’ultimo spot per l’8 per mille alla Chiesa cattolica produce un – spero inconsapevole – effetto di vanità, pur parlando di una vera rete di solidarietà ormai riconosciuta anche dai laici: «C’è un Paese che non ha aspettato l’emergenza per sentirsi solidale, un Paese che non ha mai smesso nemmeno per un istante di prendersi cura dei più deboli, un Paese che da sempre conosce il valore di una carezza e di un abbraccio. È il Paese dell’8 per mille alla Chiesa cattolica». Forse avrebbero potuto aggiungere «e di tutte quelle realtà associative laiche che operano nella società civile a favore della solidarietà». No. La Chiesa fa diventare ‘Paese’ quelli che versano l’8 per mille. Io non lo ho mai fatto. Pur essendo non credente lo verso alla Chiesa valdese, quindi non faccio parte del Paese dei ‘buoni’. Non c’è anche qui un eccesso di superbia?

Forse – a vedere dalla pubblicità e dalle dichiarazioni dei politici – una delle conseguenze psicologiche della pandemia è stata quella di una spinta irresistibile di rivalsa, dopo la quarantena, che ha prodotto un narcisismo iperbolico.

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Tonio Pani (dalla pagina fb di Music mania)

Babalotti

Nella mia infanzia sarda di paese c’erano tanti nomi misteriosi come i bobbois e i bobboeddus (fantasmi e fantasmini), il ‘mommotti’ che era una specie di uomo nero, e c’era anche il babbillotti, una specie di strano insetto che camminava sulle gambe dei bambini, ma con le dita scherzose degli adulti che lo mimavano. Anche le mie figlie, ormai lontane da quel mondo, lo hanno conosciuto, il babbillotti è un vermino con i piedi, che cammina e arriva al corpo dei bambini per farli spaventare o per farli ridere di solletico o di scherzo. Il suo nome si pronuncia tante volte, ad ogni passo in avanti delle dita. È anche un gioco linguistico. Il cantante popolare sardo Tonio Pani ha fatto diventare il coronavirus un babbillotti, nel suo lessico campidanese è diventato Su baballotti. La sua musica, disponibile sulla sua pagina facebook, con la chitarra e la voce spiegata, è un gocciu, un canto di origine devozionale, adattato poi largamente alla espressione musicale canora comune:

Baballoti
Baballotiscurtamì a mei
Bessiminci de y custa zona
Mancai giriscun sa corona
No sesdignu de fai su rei.

 Sono molte strofe. Io propongo solo la prima con una traduzione sommaria:

Baballotti ascolta me/ vattene via  da qui/ anche se vai in giro con la corona/ non sei degno di fare il re. Questi ultimi due versi, fanno da ritornello ripetuto. È un modo raro di rispondere al virus quello che ha scelto Tonio Pani, una volta si sarebbe chiamata la folklorizzazione del virus. L’adattamento al codice popolare della minaccia esterna alla saluteal codice popolare, con la possibilità di cantare insieme, pregare insieme contro il virus, di minacciarlo, ma anche di raccomandare al pubblico la distanza di sicurezza e l’uso della mascherina . Rarissimo nel nostro scenario.

È invece il sito dell’Unesco ICH sul coronavirus a portarci verso la cultura popolare e verso il mondo.

0Finalmente il mondo!

Per rispondere alla mia richiesta di testimonianze dalle zone interne nel tempo del virus Agostina Lavagnino (Regione Lombardia, AESS) mi ha mandato tre link tutti e tre legati a una iniziativa dell’Unesco ICH (Intangible Culturale Heritage) in cui si racconta del rapporto tra culture locali patrimoni immateriali e virus. Eccone uno: www.intagiblesearch.eu https://ich.unesco.org/en/living-heritage-experience-and-covid-19-pandemic-01124?id=00139

 Guardate che inizio ha questo piccolo rapporto dalla Val Camonica:

«Le piccole comunità della Valle Camonica, nel cuore delle Alpi lombarde, sono state fortemente colpite dal Covid-19, che ha tragicamente portato alla morte di numerosi anziani, ospiti silenziosi isolati negli ospedali e nelle case di riposo. Il tempo della nostra comunità è stato improvvisamente sospeso, fermato, e i protettori della nostra memoria, gli anziani, sono stati  disperatamente protetti con l’isolamento e l’incomunicabilità.
Per la maggior parte di loro, le loro case sono diventate tane di un letargo obbligatorio, una prigione temporanea, ma ciò non significa meno difficile, per le persone che sono fortemente attaccate alla storia e alle abitudini quotidiane. Ormai mancano queste abitudini: le chiese sono chiuse, le feste vengono cancellate o posposte, i pasti vengono consumati in solitudine, i campi e le foreste vengono abbandonati e non curati, la comunità non può riunirsi per accompagnare i morti.
La tradizionale festa quinquennale della Madonna Grande di Demo è stata spostata nel 2021, così come le celebrazioni pasquali. Di fronte a questa situazione, stiamo tutti riposizionando il tempo e lo spazio, ripensando ciò che è personale e ciò che è pubblico, per cercare di scrivere nuove regole per stare insieme in modo diverso, ricreando un nuovo spazio per la nostra comunità» [2].

La comunità patrimoniale di questa Valle ha messo on line i materiali dell’Archivio, densi di memoria degli anziani, e segnala che molte delle esperienze di questa Valle sono state incluse nel REIL (Registro Eredità Immateriali Lombardia). Si insiste sul valore positivo e creativo di futuro della memoria degli anziani, e si propone di valorizzarla nel momento drammatico che vive e oltre, per riflettere sul tempo difficile e sul futuro incerto che si delinea.

Sono rimasto folgorato. Un po’ perché questi materiali in Italia circolano poco. Un po’ per la asciutta efficacia di quelle venti righe. E sono andato a vedere il sito Unesco https://ich.unesco.org/en/living-heritage-experiences-and-the-covid-19-pandemic-01123. Mi si è aperto un mondo. Quando ho aperto il sito, c’era una carta del mondo coi Paesi da dove vengono le segnalazioni che parlano del patrimonio immateriale al tempo del Covid 19. Ho trovato 7 schede dall’Africa, 8 dai Paesi arabi, 38 dall’Asia e dall’area del Pacifico, 74 dall’Europa e dal Nord America, 38 dall’America latina. Ho cominciato a leggerle ed ho trovato tante realtà locali, piccole, medie, per lo più marginali impegnate con il virus, con il distanziamento, con la mascherina. Mi sono detto: finalmente il mondo!!!

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Singapore, cerimonia buddista pre-covid

Ho sempre sostenuto che le politiche Unesco per il patrimonio immateriale cercano di costruire delle costellazioni dei beni culturali immateriali e di comunità patrimoniali che dialogano nella diversità e si incontrano per vivere in pace. Ma è vero che questa mentalità è ancora da conquistare e anche che le liste dei riconoscimenti Unesco Ich (che seguo e che studio) sono spesso pesanti da consultare e quasi sempre criticabili dal lettore esigente. In questo spazio invece c’è un mondo accomunato dalla paura e dal dolore. L’effetto immediato è ‘il mondo è una sola comunità’, e i racconti locali tutti diversi, alcuni quasi disperati, altri invece impegnati a vincere le difficoltà, sono una specie di inno della diversità nell’uguaglianza degli esseri umani.

Si comincia dal Marocco e subito si incontra una comunità berbera in cui ci sono poeti che cantano i loro versi spesso improvvisati sul Covid 19, e li mettono su You Tube per farli circolare. Un’altra comunità del Marocco che usa il tempo della quarantena per raccogliere narrazioni dai nonni. Anche qui si racconta di riti, di feste religiose completamente eliminate dalla pandemia e l’uso diffuso del web per trasmettere riti o immagini di essi (cattolici e tamil a Singapore). Vengono raccontate sedute di gruppi di buddisti su Zoom, nuovi rapporti tra generazioni dovuti all’isolamento.

Copyright Stephen Lioy - Photography and Travel Media

Kirghizistan, artigiane del feltro (ph. Stephen Lioy)

Dal Kirghizistan, uno Stato asiatico il cui popolo per me è legato al leopardiano pastore errante per l’Asia, e alla drammatica comparsa di truppe kirghise con l’esercito nazista nell’ultima guerra, ci viene raccontato che le donne, maestre artigiane dei tappeti in feltro, realizzano corsi di formazione on line e usano la rete per eventi di networking.

Dal Giappone ci vengono raccontati i drammatici problemi del teatro tradizionale del Nō, bloccato dalla pandemia, e per la difficoltà ad affrontare operativamente i tempi lunghi di preparazione e le raffinate artigianalità che lo caratterizzano.

In Kazakistan: «il 23 aprile si è svolta una cerimonia online veramente globale del rito tengriano della nascita della luna nuova, su iniziativa del movimento giovanile kazako Neonomad, tramite la piattaforma di videoconferenza Zoom e è durata diverse ore».

Potrei continuare a lungo. Ma è come se – pur avendo visto la televisione sempre in questo periodo – per la prima volta una fonte riguardasse non solo noi, non solo noi e i tedeschi, non solo noi e Trump, o Bolsonaro, ma il mondo inteso come patria comune. Non avrei immaginato i berberi, i buddisti di Singapore, i kirghisi, i valligiani camuni, insieme tutti in lotta col virus comune  nemico, e ognuno con le sue risposte culturali diverse, ma legate alla comune dimensione della vita quotidiana, ai riti, agli artigianati, alle trasmissioni tra le generazioni , alla musica e al canto, alla improvvisazione di versi sul Coronavirus, o al suonatore tradizionale cambogiano Chapei Dang Veng, che canta sul lavarsi le mani e tenere le distanze sociali ed altri suggerimenti contro il Covid.

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Val Camonica, @Unesco ICH

In Italia, oltre il canale Unesco ICH, l’Istituto Centrale per il Patrimonio Immateriale, che afferisce al Ministero dei beni e della attività culturali, ha avviato uno spazio facebook https://www.facebook.com/Demoetnoantropologia/?epa=SEARCH_BOX,  che ha la stessa finalità, e nella rubrica “La cultura non si ferma” ha raccolto dalle comunità molte testimonianze del patrimonio immateriale. Sul cibo, sulle feste, sui giochi e su come le realtà locali rispondono al non poter praticare lo spazio aperto e sociale, cercando sempre di mantenere una continuità simbolica, inventando, raccontando, incontrandosi sul web. È una visione inedita del mondo colpito dal coronavirus, e anche una visione inedita del mondo. Qui davvero la periferia si fa centro. Centro diffuso del mondo, umanità dei margini che riprende la scena.

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da La Gazzetta di Parma

La coda come simbolo

La coda, la fila, la sequenza ordinata delle persone che aspettano un turno, ormai dimenticata e relegata ai ricordi del secondo dopoguerra, è tornata a caratterizzare il mondo degli anni 2000. Chi poteva immaginarlo? Ormai non si vedevano più le code fatte dai militanti del PCI per prendere il primo posto nelle schede elettorali, e restavano solo quelle improvvise e presto sciolte dei giovani davanti ai negozi dove veniva venduto qualche inedito prototipo di telefono cellulare. Qualcuna per i saldi e per i distributori di benzina con un prezzo più basso. Personalmente se vedevo una coda lasciavo perdere. Non avrei immaginato che avrei fatto la coda per il supermercato, per il giornalaio, per la farmacia, per la distribuzione delle mascherine, per sapere se la ‘mesticheria’ avesse i guanti monouso.

Nelle riflessioni di J. P. Sartre nella Critica della Regione dialettica fare la fila, o la coda, è l’esempio che indica il mondo della penuria, dell’inerzia, degli individui in lotta per la sopravvivenza. Chissà se Sartre conosceva il film in cui Totò riusciva a passare davanti a tutti per arrivare primo nella fila. Arrivare primi (salire su un tram) o nella fila, è un’arte che per Sarte appartiene al mondo pratico-inerte della oggettività, dominato dal bisogno, in cui gli altri sono cose e non persone. La fila, dice Sartre, è una pluralità di solitudini. Per lui la risposta solidale, in cui gli individui recedono per mettere in prima fila il gruppo, la creazione di una comunità temporanea è data dal ‘gruppo in fusione’, che può essere anche una manifestazione spontanea, o la scelta di creare un movimento, la trasformazione di una coda in una assemblea di protesta. Nel caso della pandemia, paradossalmente è stato nella pluralità delle solitudini che si è verificato il gruppo in fusione. Ovvero nel sentire la comune sorte dello stare in casa. E anche le file distanziate non hanno visto i singoli un contro l’altro se non in via subordinata, in primis rappresentavano tutti contro il virus.

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Israele, manifestazione contro Nethaniau

Abbiamo anche appreso la possibilità del gruppo che si manifesta nella forma della fila (la manifestazione contro Netanyahu, in cui si rispettavano le distanze di sicurezza, in uno schieramento che ricorda il modo di fare la fila davanti a un supermercato di Prato). Sono nate forme nuove. Nella mia memoria remota c’è un parallelismo tra l’opposizione fila-gruppo di Sartre e quella tra rarefazione e densità nelle relazioni sociali per Durkheim (la festa contro la solitudine, fino all’anomia). Che ora uso solo perché mi rende più facile identificare degli ‘ibridi’ nati nel tempo – a suo modo creativo – del coronavirus. Ad esempio, la densità rarefatta si addice alla manifestazione di protesta israeliana (all’opposto la coda di Prato sarebbe una rarefazione densa), che è stata poi ripresa sia dalla destra che dalla sinistra, dai partiti e dai sindacati in Italia per le manifestazioni pubbliche nella fase seconda, negli USA almeno come modello per le manifestazioni contro la uccisone di George Floyd.

Analoga l’efficacia anche simbolica ma soprattutto pratica dell’invenzione della mascherina da viso trasparente, per poter essere capiti dai non udenti, ma anche per mostrare il proprio sorriso. Forse avere chiuso il mondo per non far passare il virus ha modificato un po’ le regole precedenti e ha fatto comparire nuove forme di socialità, non solo virtuali. La potenza dell’incontro virtuale però è stata potente e significativa, ha modificato anche il linguaggio retorico dei social a favore di incontri, tavole rotonde, conferenze, pranzi dalla nonna, incontri di famiglia virtuali. Per me scoprire l’incontro visivo di tre o più soggetti su Whatsapp è stata una cosa anche emotivamente importante, luogo di incontri familiari altrimenti interdetti. Una conferenza su temi di archeologia sarda organizzata dall’associazione dei sardi di Shangai in collaborazione con quella di Tokio, e con la rete delle associazioni toscane è stata il modello di tante altre possibilità. così come il festival Imagimondo di Lecco, fatto in diretta con incontri e conferenze su facebook. Così come il ciclo di conferenze promosso a Firenze dal gruppo teatrale Chille de la Balanza che opera nell’ex ospedale psichiatrico e ne costituisce l’anima contemporanea: si sono inventati un ‘Chille’s corner’ che ha funzionato egregiamente su Facebook.

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Prato, coda al supermercato

Il virus ha richiamato alla vita dentro il nostro mondo sociale impreviste straordinarie potenze. Ha sollevato problemi giganteschi come quelli dei longevi e del loro destino, come quello della morte che falcia e dove l’abusata parola ecatombe (il sacrificio di cento buoi) perdeva forza espressiva. La morte che non può essere vissuta come rito di passaggio, dove i morti non possono essere salutati, baciati, pianti. Cerco sempre nella stampa e nella televisione tracce di possibili memorie di questi troppi morti. E non le trovo. Per ora forse solo le 24 pagine di ‘In memoria’ del Corriere della Sera di Lunedì 8 giugno mi fanno condividere il cordoglio, con le belle parole del Direttore Fontana, di Aldo Cazzullo e soprattutto di Paolo Giordano. 320 schede di morti di tutta Italia che pur essendo tantissime da leggere e piangere (quante storie di dignità, di umanità e di dolore) fanno pensare al fatto che i morti sono stati 33.964 all’8 giugno. È difficile immaginare di poterli ricordare tutti fino a quando, come suggerisce Paolo Giordano: «il serbatoio gigantesco di lacrime sospeso sulle nostre teste non verrà squarciato e io, noi, tutti riusciremo finalmente a piangere».

Dialoghi Mediterranei, n. 44, luglio 2020
Note
[1] Nell’Atlante paremiologico italiano (2000): chi si vanta da solo – non vale un fagiolo   ma anche chi si loda – s’imbroda.
[2] Nel sito ci sono anche altre voci dal patrimonio immateriale italiano: il gioco delle noci di Monterosso, il Sant’Antuono di Macerata Campania, la liuteria di Cremona, il Museo de Albertis di Genova, la transumanza Italia-Austria

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Pietro Clemente, già professore ordinario di discipline demoetnoantropologiche in pensione. Ha insegnato Antropologia Culturale presso l’Università di Firenze e in quella di Roma, e prima ancora Storia delle tradizioni popolari a Siena. È presidente onorario della Società Italiana per la Museografia e i Beni DemoEtnoAntropologici (SIMBDEA); membro della redazione di LARES, e della redazione di Antropologia Museale. Tra le pubblicazioni recenti si segnalano: Antropologi tra museo e patrimonio in I. Maffi, a cura di, Il patrimonio culturale, numero unico di “Antropologia” (2006); L’antropologia del patrimonio culturale in L. Faldini, E. Pili, a cura di, Saperi antropologici, media e società civile nell’Italia contemporanea (2011); Le parole degli altri. Gli antropologi e le storie della vita (2013); Le culture popolari e l’impatto con le regioni, in M. Salvati, L. Sciolla, a cura di, “L’Italia e le sue regioni”, Istituto della Enciclopedia italiana (2014).

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