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La nuova messinscena del teatro novecentesco nell’epistolario di D’Annunzio

dannunzio_firmadi Giovanni Isgrò

Gabriele d’Annunzio è stato uno dei maggiori protagonisti della rivoluzione scenica in Europa fra Otto e Novecento. In assenza, tuttavia, di scritti sistematicamente dedicati al problema del rinnovamento della scena, il valore documentario del suo epistolario rimane fondamentale, in qualche caso persino unico, per comprendere il vero apporto dell’autore collegato alla operatività vissuta direttamente sul campo. Si tratta di testimonianze concrete, specificatamente tecniche, in grado di darci la misura dei problemi, spesso delle difficoltà obiettive, a tradurre scenicamente l’idea dannunziana del rappresentare, fino agli azzardi dell’invenzione collegata alle spettacolari visioni del maestro.

Se da un lato l’epistolario scenico assume le caratteristiche di estensione esplicativa e tecnicamente applicativa delle pur ampie didascalie del testo drammatico, dall’altro costituisce un contributo fondamentale per ricostruire, sia pure implicitamente, i fondamenti teorici dell’idea di messinscena. Ciò, soprattutto, in riferimento al concetto della spettacolarità en plein air forzatamente adattata agli spazi del teatro all’italiana, unitamente ai princìpi protoregistici della scena “vivente” in tutte le componenti espressive del dramma: dalla scenotecnica alla costumistica, dalla scenografia alla applicazione della luce al teatro; e in ogni caso, al di là della dominante della parola e del gesto dell’attore.

La testimonianza, per certi aspetti archetipica, di questo percorso riguarda la messinscena del primo dramma rappresentato, ossia La ville morte, che debutta, come è noto, al teatro “La Rénaissance” a Parigi, il 21 gennaio 1898. La preoccupazione tecnica di D’Annunzio ancora inesperto di approcci diretti nel campo della messinscena, si sovrappone alle due fasi preparatorie, entrambe testimoniate da documenti epistolari. La prima riguarda la lunga, minuziosa ricerca delle fonti utili a costruire la sua invenzione scenica. Sin dal 23 settembre 1895 D’Annunzio scriveva al suo amico Georges Hérelle perché gli acquistasse a Parigi l’introvabile libro di Schliemann Mycénes, e ancora, le edizioni classiche, curate da Firmin-Didot, di Omero, Esiodo e dei poeti dell’“Antologia” [1]. Poco più di un anno dopo (ottobre 1896), tornava a scrivere all’amico Hérelle, a conclusione delle definizioni dei primi due atti, per comunicargli la sua ansia di tradurre il suo sogno in una risoluzione scenica concretamente efficace al di là del valore letterario dell’opera:

 «il me semble que mon réve n’a pas trop perdu à revétir une forme concrète. Si je devais en juger par l’effet que produisit hier ma lecture sur Paolo Michetti, je devrais etre très content de mon oeuvre. Mais le théâtre est le théâtre» [2].

1In effetti D’Annunzio sente la responsabilità della sua rivoluzione teatrale che cancella già, con alcuni anni di anticipo rispetto a molti protagonisti della rifondazione del teatro europeo, la tradizione ottocentesca basata ancora sulla dominante della scenografia dipinta. Per questa ragione, per la messinscena de La ville morte, aveva pensato a sostituire le tradizionali quinte pittoriche con due colonne doriche costruite; così come costruito doveva essere l’insieme architettonico immaginato come per un teatro all’aperto (l’ampia scalinata, l’architrave, il velum). Il tutto arricchito dalla presenza di calchi di statue, bassorilievi, iscrizioni ecc. L’idea scenica è appunto quella di un’apertura totale verso l’infinita distesa che è al di fuori della stanza, tale da determinare dall’esterno un’inondazione di luce. La lettera inviata a Sarah Bernhardt, nella sua essenziale semplicità tecnica, rivela lo scarto fra gli scenografi realizzatori del teatro “La Rénaissance” abituati allo stile pittorico del teatro al chiuso e il punto di vista di D’Annunzio che, nel ricevere da Parigi le immagini dell’impianto scenico curato da Amable, chiede di alzare le colonne e la quota aerea del velum, dando alla sua perentoria richiesta una ragionata motivazione, che va al di là di quello specifico:

«[...] puisque dans le premier acte il y a un effect du soleil, presque une inondation de vive lumière, il faudrait óter ce velum qui donne de l’ombre, et en faudrait aussi rendre un peu plus hautes les colonnes pour donner au spectateur une vue encore plus large sur l’Acropole» [3].

La ricerca dell’essenzialità, ma anche della severa elevazione dell’insieme, unitamente al rifiuto di tutto ciò che potesse risultare superfluo e ingombrante, è precisata in un altro passo della lettera:

 «le deuxième décor est trop riche, troporné. Il faudrait le simplifier [...] l’unique richesse de cette chambre rouge devrait étre l’accumulation de l’or sépulcral. Je voudrais renoncer à cette frise, à cestrophées, à ces bustes, à tous ces ornements superflus. Je voudrais cette chamber comme une caverne sombre où reluit mysterieusement l’immense trésor royal. Il faudrait aussi rendre les colonnes du dévant plus sveltes, pour éviter un effect egyptien» [4].

2Lo scarto fra la concezione tradizionale della scena come imitazione della realtà e l’idea di D’Annunzio è proprio in questa semplice ma efficace correzione indicata dall’artista agli scenografi del teatro “La Renaissance”. L’uso degli elementi archeologici (come anche delle colonne), oltre a riproporre l’idea del plein air, attraverso l’impiego allusivo della parte per il tutto, si integra infatti con l’assetto fuori canone di un ambiente che deve dare, anche attraverso l’effetto del gigantismo, le suggestioni di eventi straordinari non inquadrabili nella logica del quotidiano. Si comprende così come la sovrabbondanza degli elementi scultorei e di arredo architettonico proposta dagli inscenatori francesi sarebbe stata per l’autore uno sforamento verso un’interpretazione di tipo ancora naturalistico. Poiché il décor per D’Annunzio, lungi dall’essere considerato componente autonoma e indipendente, è parte integrante della trasposizione teatrale del testo, esso prende valore nel momento in cui partecipa alla tensione dell’azione drammatica.

Ogni elemento, dunque, diventa non testimone dell’interpretazione, ma realtà che interpreta. Se D’Annunzio sarà molto attento ed esigente nella cura del dettaglio e della decorazione, come accadrà già per la messa in scena parigina de La ville morte, e ancora di più in quella de La città morta del 1901, non sarà per mero gusto di erudizione o per desiderio di realismo storico, ma perché sente che l’imperfezione e l’approssimazione di alcun fattore potrebbe turbare l’unità dell’immagine scenica. In questa contrapposizione al realismo descrittivo a favore di una valorizzazione dello spazio, in cui tutto partecipa all’interpretazione dell’opera, gli elementi del décor entrano in rapporto diretto con l’attore, non soltanto fornendogli le condizioni necessarie al suo gioco fisico, ma dando e ricevendo al tempo stesso dalle sue parole e dai suoi gesti entità e qualità drammatiche.

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Eleonora Duse

Anche sul piano dell’articolazione della luce in scena (la distinzione di più toni di luce di base, l’esigenza della combinazione luce diffusa/luce diretta, il rapporto di luminosità interno/esterno, l’interpretazione “vivente” di alcuni elementi di scena attraverso il gioco luminotecnico) D’Annunzio dà, attraverso le sue lettere, istruzioni tecniche che hanno le caratteristiche di veri e propri fondamenti della moderna idea di messa in scena, coevamente ad uno dei protagonisti riconosciuti dell’uso registico della luce, ossia Adolphe Appia. «II faut bien rélever le contraste entre la lumière froide de la chambre et la lumière chaude du dehors», scrive D’Annunzio ancora a Sarah Bernhardt nella lettera del 13 novembre 1897. Rispetto a questo documento epistolare, sul quale sarebbe stato necessario soffermarci un pò più a lungo, è utile sintetizzare sugli ultimi anni fin de siècle, in corrispondenza cioè dei drammi prenovecenteschi, per due ragioni fondamentali. L’accelerazione data da D’Annunzio alla sua produzione drammaturgica, al seguito del suo incontro con la Duse, e il ruolo avuto dalla “Divina” sia sul piano organizzativo che nel processo di adeguamento del suo mestiere di attrice rispetto all’arte recitativa richiesta dalla novità del teatro di poesia, costringono il Vate a misurarsi con due generi di problemi, rispetto ai quali si evidenzia la mancanza di una conoscenza concreta della pratica teatrale. Da un lato, c’è la fretta del drammaturgo di vedere realizzate sulla scena le sue opere e la necessità di operare in tempi e ritmi insostenibili per garantire l’organizzazione di lavori particolarmente impegnativi nello spazio di pochi giorni. Dall’altro, c’è l’insoddisfazione di un D’Annunzio che non accetta la precarietà artistica della pratica routinière delle tournées a gestione capocomicale, unitamente alla prassi del trovarobato che umilia il suo impegno artistico di creare scenari “viventi”.

vittoriale-_gv_9010L’epistolario di questi anni rispecchia questa convulsa fase dell’approccio dannunziano al teatro, in un certo senso speculare allo spaesamento che attraversa i migliori attori italiani del momento rispetto all’improvvisa proposta d’arte, a cominciare dallo stesso Ermete Zacconi [5]. Il passaggio dall’Ottocento al Novecento è emblematicamente vissuto da D’Annunzio come l’avvento del tempo nuovo: quello dell’assunzione diretta della responsabilità della messa in scena delle sue opere. Decisione necessaria, questa, per tentare di mettere in atto la sua rivoluzione teatrale. Anche in questo caso l’epistolario dannunziano rivela i retroscena di questo difficilissimo percorso, segnato, sin dall’inizio, dal grave manque del tanto cercato quanto mai realizzato intervento diretto dell’amico Mariano Fortuny, proprio nel tempo in cui il geniale artista catalano-veneziano sperimentava i dispositivi per l’applicazione della luce elettrica al teatro. «Le tue illuminazioni subitanee di ier sera sono mirabili» scriveva D’Annunzio a Fortuny, riferendosi ai prodigi luminotecnici mostrati dal magicien nella sua soffitta d’alchimista a Venezia, dove l’intero staff dannunziano si era trasferito per una prova di lettura della Francesca da Rimini.

In effetti D’Annunzio aveva sperato fortemente nelle rivoluzionarie possibilità offerte nel campo luminotecnico per attuare le sue idee di messa in scena. Di fatto, nonostante le numerose lettere, messaggi, telegrammi, inviati con ritmo a volte angosciante a Mariano Fortuny, lo sperato coinvolgimento non ebbe luogo. All’impazienza di D’Annunzio si contrapponeva infatti il disimpegno dell’artista della luce, troppo concentrato, in quei mesi, nei primi esperimenti tecnici della sua invenzione fondamentale, la cosiddetta cupola scenica che porta il suo nome. Torneremo più avanti sul rapporto D’Annunzio/Fortuny, a proposito dell’avventura parigina del nostro Vate.

4Nel tormentato percorso della messa in scena della Francesca da Rimini, in cui D’Annunzio fu costretto a ripiegare su parziali compromessi con la scenografia pittorica diretta da Rovescalli, nonostante la dominante di scene costruite, ci piace citare una testimonianza non secondaria del contributo offerto dalla documentazione epistolare, a dimostrazione del ruolo che la musica e la danza ebbero progressivamente nell’idea dannunziana di mise en scène secondo il concetto moderno di regia messo in atto dal drammaturgo. Nella Francesca da Rimini la musica serve ad evidenziare, di volta in volta, il coinvolgimento sentimentale dei protagonisti o un improvviso motus drammatico o, al contrario, una lenta dissolvenza. Per questa ragione D’Annunzio sceglie degli interventi musicali semplici, che tuttavia siano in grado di amalgamarsi con la tensione psicologica del dramma. In questo modo egli si rivolge, infatti, al maestro Antonio Scontrino, fornendogli le indicazioni di base per gli interventi dei musici in scena:

«mio caro Nino, ho trovato fra la musica le accordature /…/ devono essere bandite le indicazioni moderne (come allegretto, marziale, voluttuoso ecc). Le note devono essere nude. Queste accordature devono essere ridotte per piffero e liuto. Cerca di spedirmi presto queste battute» [6].

5Ancora a proposito di semplicità ed essenzialità, una delle testimonianze più illuminanti della ideologia scenica dannunziana è la famosa lettera indirizzata a Michetti il 31 agosto 1903, in preparazione della messa in scena de La figlia di Jorio, sulla quale, nell’anno commemorativo del centenario di questa rappresentazione, vale la pena, a maggior ragione, soffermarsi. Nelle parole che D’Annunzio rivolge all’amico, c’è tutto il senso del recupero e della risignificazione della ritualità antica come componente fondamentale della rivoluzione scenica europea, ma anche la necessità dell’invenzione creativa, la polemica nei confronti dell’impostazione naturalistica, ancora dominante nella pratica recitativa dei nostri attori, il bisogno forte di un teatro di poesia. Partendo dall’opportunità del rifiuto di ogni falsità teatrale, D’Annunzio raccomanda a Michetti di procurargli utensili, robe, suppellettili della terra d’Abruzzo, «perché essi recassero sulla scena l’impronta della vita vera», e non perché rappresentassero la vita vera, tant’è che nel medesimo tempo dichiarava l’intenzione di «diffondere sulla realtà dei quadri un velo di sogno antico».

L’anima poetica del suo teatro d’arte e il senso di quel rifiuto del falso scenico erano stati poi più direttamente precisati da D’Annunzio allo stesso Michetti:

«Ricordati di dare ai costumi un carattere arcaico, qualche cosa di barbarico e di remoto, che trasporti subitamente l’animo dello spettatore in un tempo lontano, quasi di leggenda. Tieni in mente questo anche per le scene»[7].

La rottura dell’equivoco di una impostazione «verista» nel quale Michetti stesso rischiava di cadere con le sue ricerche appassionate, viene reclamata dal poeta in un altro passo di questa lettera, in cui la necessità di affrettare i tempi di realizzazione e di trasferire la preparazione fuori dalla terra di Aligi, sembra quasi un pretesto per evitare il pericolo di proporre sulla scena una riproduzione fedele della realtà abruzzese:

«Conviene rinunziare alle ricerche, e metter da banda ogni esitazione [...] Penso che, per esprimere poesia, la lontananza e il ricordo giovino più che lo studio delle realtà presenti. Tanto per le scene quanto per i costumi, a noi bisognano invenzioni [...] Il costume dev’essere arcaico, d’uno stile semplice, austero. E dev’essere, con il concorso degli elementi reali, inventato».

In nome dunque dell’invenzione, e non del realismo, D’Annunzio sollecita l’amico al lavoro comune:

«Faremo le maquettes delle scene; e poi le porteremo al Rovescalli, scenografo, che le eseguirà. Tutto questo non potrà essere compiuto se non con un poco di febbre, abbandonandosi interamente all’invenzione [...] Tu sei già fortemente nutrito di linee e di colori. Devi esprimere dal fondo di te stesso un’armonia nuova [...] Perciò, giova allontanarsi dalla terra di Mila e di Aligi».

59d99725af86d63bfe24d27cÈ la stessa motivazione alla ricerca del canto interiore, per la quale D’Annunzio punta sull’affidabilità di attori non ancora integrati nella pratica interpretativa corrente, e per questo maggiormente in grado di adattare la sensibilità della propria voce alla poesia del dramma: «Per rappresentare una tale tragedia sono necessari attori vergini, pieni di vita raccolta, con gesti sobri ed eloquenti, con una voce retta dalle leggi del canto interiore. Perché qui tutto è canto e mimica». Si configura chiaramente in questo modo per la prima volta nell’opera dannunziana, come ha già notato Mirella Schino [8], l’idea di «una nuova forma di recitazione fisica e vocale (salmodiata e danzata, secondo le visioni d’avanguardia di quegli anni dal teatro simbolista a Claudel)» che mirava all’intero complesso dello spettacolo e che si integra, oltre che col tentativo di utilizzare quanto più possibile attori nuovi, anche con la funzione primaria che nello sviluppo drammaturgico hanno le parti corali: il coro dei mietitori contrapposto a quello delle parenti, il coro delle lamentatrici, il rito della lunga processione. Una materia intensamente lirica, come una liturgia antica, che D’Annunzio aveva cercato di comunicare ai suoi interpreti, prima dell’inizio delle lunghe prove, attraverso la sua lettura:

«[...] D’Annunzio disse i tre atti con cadenze ritmiche, e di scena in scena, d’atto in atto quelle cadenze rifuggenti da ogni speciale armonia, si foggiavano invece in un crescendo di armonie, fino a diventare musica, musica liturgica, canto fermo» [9].

3-1Dopo i non esaltanti esperimenti de La fiaccola sotto il moggio e di Più che l’amore, la messa in scena de La nave, avviene, come è noto, soltanto nel 1906, dopo una lunga gestazione dovuta anche alla necessità, da parte di D’Annunzio, di conseguire un linguaggio scenico adeguato alla sua idea innovativa. A livello epistolare evidenziamo due tipologie di testimonianze documentarie. La prima riguarda il lavoro di progettazione scenografica, condotto adesso direttamente dall’autore; la seconda costituisce un ulteriore progresso nel campo dell’invenzione musicale che si estende anche alla indicazione progettuale di alcuni strumenti necessari all’esecuzione orchestrale. D’Annunzio studiò, in effetti, attentamente possibilità ed attitudini degli scenografi operanti a quel tempo in Italia, fino alla scelta definitiva di Duilio Cambellotti. Guidò inoltre le fasi progettuali ed esecutive della messa in scena, con illustrazioni e schizzi da lui stesso disegnati.

In una lettera dell’8 novembre 1906 inviata al Barone Kanzler, supervisore degli allestimenti della Stabile Romana, l’autore scriveva:

«Le scene sono molto grandiose: ha ella già scelti gli scenografi? o posso io, sotto la mia indicazione, far eseguire i quattro bozzetti per meglio dichiarare le didascalie? Bisognerà studiare molto scaltramente la disposizione scenica per evitare i troppo lunghi intermezzi».

Al tempo stesso D’Annunzio fu pronto ad apportare, contestualmente alla creazione dell’opera, le opportune modifiche, qualora problemi contingenti lo richiedessero. Scrive infatti ancora al Kanzler nella qualità di esperto di arte e archeologia cristiana e di storia del costume, il 21 dicembre 1906:

«[...] Se ha dato un’occhiata al Prologo, ha forse notato la scena dell’elezione quando il cadavere del Vescovo è portato alla soglia della porta. Crede che quella scena possa rimanere così com’è, se noi mettiamo l’atrio? La Basilica deve essere consacrata con la deposizione dei Sacri Corpi sotto l’altare. Può il Vescovo essere condotto fino all’antiportico attraversando l’atrio? [...] Le raccomando lo stile delle travature: grande forza d’espressione nella semplicità rozza».

Non meno tecniche e puntuali erano le valutazioni che D’Annunzio, contemporaneamente, scambiava attraverso un fitto carteggio con il giovane maestro Ildebrando Pizzetti per far sì che le musiche entrassero nella struttura drammaturgica dell’opera:

«[-..] Nella mia tragedia i cori abbondano. Vuole ella tentare di mettere le note anche ai rimanenti? Nel prologo il coro dei Catecumeni appare molto prima del sopravvenire della processione [.-.] Vorrei esporle ampiamente questa tessitura musicale che abbraccia tutta l’opera; ma penso che più efficace sarebbe un colloquio di viva voce [...]».

6Come per un destino di alternanze, al successo e alle novità scenotecniche de La Nave, segue la prova assai discussa di Fedra (debutto al Teatro Lirico di Milano il 9 aprile 1908). Un esperimento quest’ultimo, che D’Annunzio intendeva basare sugli effetti di luci e sul gigantismo scenografico animato da un linguaggio, per così dire, “cinematografico”. Lo scarto fra l’idea innovativa e la materializzazione scenica, al di là della cura pittorica esibita da Rovescalli su bozzetti di De Carolis, fu tutta misurabile, in questo caso più che mai, nel disastro recitativo di buona parte degli attori, non abituati al teatro di poesia di D’Annunzio.

L’epistolario dannunziano testimonia questa ultima stagione italiana del Vate, decisiva per convincerlo al trasferimento parigino. Terminata la stesura dell’opera il 2 febbraio 1909, D’Annunzio ne aveva affidato la rappresentazione a Mario Fumagalli che per l’occasione costituì un’apposita compagnia con le prime parti affidate a Teresa Fumagalli Franchini (Fedra) e Gabriellino d’Annunzio (Ippolito). Gli attori, sottoposti a prove estenuanti in un arco di tempo ristrettissimo, si trovarono in grande difficoltà, nonostante D’Annunzio in quei giorni, pur in cattivo stato di salute, cercasse di trasmettere con letture faticosissime l’intensità interpretativa richiesta dal suo dramma. Una serie di lettere scritte tra la fine di marzo e i primi di aprile a Mario Fumagalli fanno rivivere il lavoro febbrile di tagli e aggiustamenti operati dal poeta e soprattutto l’energia operativa di un D’Annunzio che pure si ostina a non dirigere personalmente e direttamente l’evento scenico. «Caro amico, non posso ridurre la scena del pirata senza sapere a quale attore sia affidata la parte. La crudeltà dei tagli sarà misurata su la misura dell’attore», scriveva a fine marzo; e poi, qualche giorno dopo: «Le porterò i due atti con le cicatrizzazioni»; e ancora in una lettera successiva: «stamane io sono occupatissimo a preparare alcune note per la Fedra. La prego di condurre le prove col vigore e col fervore dei primi giorni, che la grande prova è prossima». La delusione di D’Annunzio per la interpretazione degli attori è sintetizzata in questo passo della lettera inviata a Maria Hardouin di Gallese: «La rappresentazione italiana fu ignobile. Soltanto Gabriellino mostrò una freschezza e una energia inattesa. Gli altri furono i cani di Ippolito, e latrarono con fervore più che canino» [10].

7bisL’epistolario scenico italiano di D’Annunzio si chiude alla fine del settembre 1909 proprio con la Fedra. Ancora a Mario Fumagalli, impegnato al Carignano di Torino per il resto dell’infelice tournée, D’Annunzio si dichiara disposto a concedere gli ultimi aggiustamenti alla sua opera: «Sono disposto a tutti gli accomodamenti. /…/ mi duole non potermi occupare d’altro. Mi rimetto alla Sua lealtà di socio /…/» [11]. Da quest’ultima testimonianza epistolare riferita al teatro alla prima lettera parigina trascorrono circa sei mesi. All’amico Gustavo Cohen, al suo arrivo a Parigi nella primavera del 1910, dichiara di trovarsi nella «seule ville où l’on puisse faire quelque chose» [12]. In effetti le cronache e i documenti del tempo registrano, sin dal primo mese del soggiorno parigino, l’entusiasmo progettuale e l’impegno febbrile di D’Annunzio: dall’avvenieristica idea del “Théâtre de fêtes”, peraltro mai realizzata, agli esperimenti presso il ristrutturato teatro della Contessa di Béarn, dove insieme al ritrovato amico Mariano Fortuny, trascorre interi pomeriggi a provare invenzioni ed effetti luminotecnici.

coverInsieme a queste aperture sperimentali, il rapporto diretto con gli artisti pittori vicini a Rouché, il più agguerrito esponente francese dell’avanguardia europea, non lascia spazio a documentazione epistolare. Bisogna attendere i preparativi per la messa in scena della prima opera parigina di D’Annunzio, il Martyre de Saint Sébastien, per ritrovare testimonianze di carteggio scenico. Anche in questo caso il fallimento di una collaborazione concreta con l’amico Fortuny fa registrare, come era successo per la Francesca da Rimini, la ricerca di una alternativa scenografica. Sarà Bakst, il grande scenografo dei Balletti Russi, il referente per la nuova messa in scena. E saranno le lettere di Bakst, a cominciare da quella lunghissima, con la quale l’artista russo espone al Vate il suo mestiere e la sua disponibilità alla collaborazione, a riconsegnarci le diverse tappe del lavoro creativo. Noi non seguiremo in questa sede il percorso di questo carteggio intenso e puntuale, se non minuziosamente tecnico, dal quale emerge, peraltro, il grande rispetto di Bakst per l’opera di D’Annunzio, nonostante alcune sostanziali divergenze fra l’idea scenica dannunziana e l’effettiva realizzazione bakstiana.

h-3000-annunzio_gabriele-d_le-martyre-de-saint-sebastien_1911_edition-originale_autographe_0_43928Riteniamo più opportuno, invece, puntare l’attenzione sulla modernità, al limite dell’azzardo, cercata dal Vate anche nelle altre componenti espressive; dalla musica alla voce dell’attore, all’uso del corpo in scena. Sicuramente la scelta più eclatante riguarda la figura di Ida Rubinstein, prima ballerina dei Balletti Russi, cui D’Annunzio affida il ruolo protagonistico di San Sebastiano. L’esperimento della danzatrice\attrice garantisce a D’Annunzio una gestualità profondamente ispirata, fatta di passi cauti, di gesti interiorizzati, quali solo una ballerina può esprimere, ma anche le straordinarie trasfigurazioni del viso mirabilmente raggiunte dal mestiere dell’artista\mimo. È l’arte del movimento del corpo trasferita dalla vertiginosa seduzione dei Balletti Russi alla mistica impronta del “Mistero”. Insieme allo straordinario dominio del corpo è il timbro metallico della voce, l’accento straniero, il tono che stenta ad arrivare agli spettatori proprio per mancanza di esercizio all’emissione di fiato, a costituire la vera originalità scenica della “trovata” dannunziana. All’amico Montesquiou, che l’aveva aiutato nei contatti con artisti ed intellettuali operanti a quell’epoca a Parigi, D’Annunzio scrive in proposito:

«Suivant votre conseil, j’ai forcé Sébastien à me réveler ce que vous appelez «la voix de tonnerre». Je n’ai pas été deçù. C’est une voix de riche airain encore un peu rude et confuse, enveloppé d’ombre» [14].

bakst_leon_-_bozz_x_st-_sebastien_di_debussy_-_1911Se il fascino e l’originalità scenica di Ida Rubinstein costituiscono elementi centrali dell’avventura parigina del Martyre, l’epistolario testimonia altresì l’articolata concentrazione della ricerca al di fuori dagli schemi consolidati della pratica attoriale. Dalle numerose lettere inviate all’impresario Astruc nei mesi di Gennaio e Febbraio 1911 [15], emerge la necessità di tener conto anche delle doti fisiche, oltre che artistiche, degli interpreti, in grado di confrontarsi con la vastità del luogo scenico (il teatro Chatelet), da un lato, e di sostenere la traduzione visiva, oltre che sonora, del suo verso. Nelle lettere inviate ad Astruc, D’Annunzio chiede, di volta in volta, “masques extraordinaires” e “corps éloquents”, e ancora, “voix harmonieuses” e “figures expressives”; ma anche doti mimiche e interpretative che consentano interscambiabilità di ruoli, quasi al limite del trasformismo. È così che le “vergini” del I atto diventano, subito dopo nel secondo atto, cinque delle sette maghe, mentre Astruc dovette alternare fermezza a diplomazia per convincere D’Annunzio ad evitare di mandare in scena il prorompente e riconoscibile De Max con due ruoli distinti [16].

Se per la scelta degli attori l’epistolario dannunziano rivela comunque un sostanziale dominio dell’autore, nell’ambito musicale sarà D’Annunzio stesso a sollecitare e coinvolgere Claude Debussy ad un lavoro comune:

«Une première lecture de votre part rendra plus facile notre travail commun. Les parties chorales sont développées en vue du livre, hélas! veuf de musique: vous pourrez choisir les strophes qui vous conviendront»[17].

Anche in questo caso, tuttavia, la simbiosi fra Debussy e D’Annunzio è voluta da quest’ultimo con il piglio e l’intenzione del “regista” o quanto meno dell’artista completo. L’intenso scambio epistolare D’Annunzio\Debussy è, in questo caso, documento unico per comprendere l’effettivo attuarsi di questo aspetto della messa in scena parigina. Per questa ragione riportiamo, di seguito, una scelta di passi significativi tratti dalle lettere dell’ultima settimana di Gennaio e della prima settimana di Febbraio 1911 [18]:

 «[...] Des jeunes filles – parmi lesquelles sont les soeurs des gémeaux attachés aux colonnes – chantent ensemble ces rondels. Des jeunes hommes répondent au choeur virginal par des voix plus ardentes. Cette vie diverse, toutes ces images tendres ou fortes, claires ou sombres, frémissent dans les contours d’un seul dessin mélodique: mais vous pouvez aussi choisir; prendre de la grappe doublé quelques grains savoureux. Vous pouvez aussi tout jeter [...] Préférez vous – pour le grand choeur final – le texte traditionnel du Te Deum ou bien des paroles francaises arrangées par moi?!» (D’Annunzio a Debussy , 23/1/1911).
«[...] Que voulez vous que je devienne en face du torrent de beauté de votre double et parallèle envoi, et sourtout comment choisir. A propos du grand choeur final, laissez-moi préférer au texte traditionnel les paroles francaises arrangées par vous [...]» (Lettera di Debussy a D’Annunzio dei 29/1/1911).
«Je vous envoie le choeur des Séraphins en petits vers francais, puisque nous avons decidé de supprimer le latin liturgique. C’est dans le style des séquences. J’ecris en grande hàte [...]» (D’Annunzio a Debussy, 7/2/1911).

Il fatto che l’autore sia riuscito a coinvolgere lo stesso Debussy nel lavoro comune e nell’attenzione a tutte le arti, è testimonianza di una aspirazione concreta verso la definizione di un evento totale. Una condizione, questa, che va vista come conseguenza diretta dell’accentuarsi della vocazione registica di D’Annunzio in una città come Parigi dove la funzione del regista si è da poco affermata e dove pertanto l’autore stesso sente di poterle esercitare senza scandalo.

7Dopo la grande prova del Martyre, le vicende che accompagnano l’impegno altrettanto complesso della messa in scena de La Pisanelle non trovano ampio riscontro nell’epistolario dannunziano. Ciò verisimilmente perché il rapporto di D’Annunzio con la Rubinstein e con Bakst è diventato ormai quotidiano e di collaborazione stretta. Bisogna, in effetti, ricorrere al confronto tra le didascalie dannunziane e le cronache che accompagnano la realizzazione dell’opera per rendersi conto di come il processo di russificazione gestito dalla danzatrice\attrice e attuato, per la parte di sua competenza, da Bakst, finì per snaturare l’originalità scenografica, direi cinematografica, oltre che poetica, di D’Annunzio [19].

Soltanto lo scambio epistolare con Mejerchol’d ci consente di entrare direttamente nel cuore del problema registico de La Pisanelle. Era la prima volta (e sarebbe stata anche l’unica) in cui D’Annunzio affidava la propria opera ad un regista vero, uno dei più significativi della rivoluzione teatrale europea. Nonostante questo, già la prima lettera del Vate all’artista russo rivela l’improprietàcdell’approccio dannunziano al ruolo della regia intesa come professione artistica autonoma, responsabile assoluta del processo della messa in scena:

«Cher monsieur, madame Ida Rubinstein et mon camarade Leon Bakst me font expérer votre collaboration à la mise en scène de ma nouvelle pièce La Pisanella. Je sais votre amour de la poesie, la richesse de vos inventions, la puissance de votre discipline. Je sais aussi que mon effort ne vous est pas inconnu. Pourrais-je donc me souhaiter un collaborateur plus efficace et plus génial?».

foto-di-scena-e1431798533823L’appellativo che D’Annunzio rivolge a Mejerchol’d, ossia «collaborateur», lascia capire il limite entro il quale, come si diceva all’inizio, il Vate rimaneva chiuso; da un lato non riconoscendosi egli quel domino scenico tale da consentirgli il ruolo completo del regista che pure le didascalie delle sue opere e il rapporto con gli artisti sembravano suggerire, e dall’altro non accettando che il suo dramma potesse essere interamente fatto proprio e restituito dal regista in modo non subordinato alla volontà e alle aspettative dell’autore. Su questo scarto si misurarono i dissapori che scoppiarono fra D’Annunzio e Mjerchol’d nel corso delle prime prove a causa di una intromissione operata dall’autore nei confronti del lavoro del regista, in particolare a proposito della recitazione di De Max; ma ancora di più, successivamente, per il totale stravolgimento dei piani di messa in scena suggeriti dalle didascalie dannunziane, a favore della originalità dello stile del regista russo. Una sorta di annullamento del lavoro dannunziano al fine di garantire l’unità della sintassi dinamica, fatta di una serie di trovate e di invenzioni registiche. In termini generali il conflitto D’Annunzio\Mejerchol’d riproduce dunque il bipolarismo teatrale autore\regista che tante volte si riproporrà nel ‘900. Purtroppo questa volta il documento epistolare non ci soccorre dalla parte dannunziana per contrapporre argomentazioni alle numerose lettere inviate da Mejercohl’d alla moglie,attraverso le quali il regista russo lamenta mancanza di unità e di forma nel teatro di D’Annunzio. C’è da chiedersi tuttavia se la vocazione sperimentale del Vate, volta a creare quasi sempre eventi eccezionali, e per questo non iscrivibili negli statuti di una pratica regolare, non sia, al tempo stesso, ricerca di unità rivolta alla materializzazione scenica dell’idea. Si ritorna così, anche per questa via, al doppio problema ben evidenziato finora dall’epistolario scenico: la insostituibilità dell’autore come garante della effettiva concretizzazione della sua opera a teatro, e al tempo stesso la mancanza di uno stile e di un mestiere che possa consentirgli la piena espressione della sua azione drammaturgica.

8A fronte del plateale stravolgimento del teatro di poesia perseguito da D’Annunzio ad opera della coppia russa Bakst\Mejerchol’d suggerita da Ida Rubinstein, la messa in scena de Le Chevrefeuille, è il tentativo dannunziano di riportare il linguaggio scenico nella misura di un prosciugamento funzionale all’approfondimento interiore, con la riduzione a pochi personaggi e con una scenografia essenziale. Su questo piano in cui si cerca di stabilire un rapporto diretto drammaturgo\regista, il documento epistolare, tuttavia, non fa che registrare l’impossibilità dell’intesa fra autore e attore. Costretto ad accondiscendere alle proteste degli attori e a riscrivere più volte la sua opera giudicata non recitabile da buona parte della compagnia, D’Annunzio stesso in una lettera carica di ironia inviata ai direttori del teatro di Porte Saint-Martin dichiara la sua volontà di sospendere le repliche de Le Chevrefeuille in un teatro sempre più deserto dopo le attenzioni ricevute alla prima.

«Pare che questo misterioso Caprifoglio sia un ben cattivo affare. Non fa abbastanza quattrini e il vostro teatro è così vasto! [...] Ben prima della generale, come in sogno, si vedeva spuntare il naso glorioso di Cirano nella maschera dell’eccellente assassino Pietro Dragon che il Le Bargy porta con una profonda abnegazione. L’illustre attore doveva andare a recitare a Montecarlo il giorno di S. Stefano, il 26 corrente. Reciterà la stessa grande parte della stessa sera a Parigi. Ecco tutto; bisogna rispettare i decreti del destino, specialmente quando si tratti di un lavoro come il mio, irto di fatalità più o meno antiche» [20] (Dalla lettera di D’Annunzio a Coquelin e a Hertz pubblicata da «il Giornale d’ltalia» del 27 dicembre 1913).

d-annunzio-e-pirandello-vita-e-poetica_749285È questa l’ultima testimonianza dell’interesse diretto di Gabriele d’Annunzio verso il teatro, prima del definitivo abbandono delle scene. Dal ritorno in Italia, in coincidenza con le imprese belliche, il carteggio scenico tace significativamente fino al 1934, anno in cui accade qualcosa di straordinariamente rivelatore nella storia del teatro italiano (e non soltanto italiano) del ‘900, ossia il dialogo epistolare D’Annunzio\Pirandello. Per la verità, già nel 1926, nel proporgli l’evento di una ripresa de La Nave al Teatro Argentina, l’artista siciliano aveva cercato di stimolare il Vate, ma senza successo, a prodursi in un’opera nuova per il teatro [21]. L’incontro, rinviato di otto anni, avvenne in occasione del «Convegno Volta» quando Pirandello decide di mettere in scena La Figlia di Iorio. Al giudizio che D’Annunzio dà della sua opera esprimendo al drammaturgo siciliano il suo entusiasmo per la scelta da lui operata («una grande canzone popolare per dialoghi» in cui sono vivi «gli accenti e le cadenze delle stupende canzoni di Sicilia») [22) fanno eco le dichiarazioni di Pirandello:

«[...] in questa occasione D’Annunzio ha esplicitamente confermato l’esattezza dell’interpretazione che io intendo sia data al dramma. Ho ritrovato certi motivi propri di alcune nostre regioni, particolarmente di quelle meridionali, motivi che furono caratteristici delle rappresentazioni sacre e che hanno quindi un loro sapore di classicità senza artifici».

Il riferimento di Pirandello alla preteatralità è ancora più preciso a proposito delle lamentatrici; «le lamentatrici sono, ad esempio, figure anche oggi vive e reali: si fasciano il capo di lutto, piangono lungamente la morte assumendo atteggiamenti che potrebbero sembrare perfino convenzionali e teatrali e che, invece, sono assolutamente spontanei». Mentre in un’altra dichiarazione è ancora più diretto il rapporto con la cultura siciliana:

«II nostro popolo – e noi in Sicilia lo sappiamo bene – nei momenti di maggiore dolore, sembra quasi fondere il pianto con la canzone. La nenia della donna che si lamenta per la morte della persona cara ha suono di canto e si esprime talora nelle forme più poetiche e immaginose [...] La figlia di lorio sarà presentata nel suo vero spirito, con quei caratteri nativi e spontanei che costituiscono l’essenza della tragedia pastorale» [23].
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Pirandello al Teatro Argentina con lo scenografo Virgilio Marchi, 1928

Dunque Pirandello associa l’essenza popolare della tragedia meridionale con l’esigenza di spontaneità, ma aggiunge anche: «ho cercato di riportare la tragedia alla semplicità primitiva e a quel senso di religiosità che D’Annunzio ha derivato dalle consuetudini della sua terra» [24]. Questa individuazione della «semplicità» come componente centrale della preteatralità della scena popolare e il riconoscimento del suo ruolo coagulante con il teatro d’arte è l’altro elemento che accomuna Pirandello a D’Annunzio; «[...] penso che tu vorrai ridurre l’allestimento scenico a pochi rilievi essenziali, ad una semplicità potente accordata con le forze ignude del contrasto scenico», scrive D’Annunzio a Pirandello a proposito della messa in scena de La figlia di Iorio [25]. È la cifra potente della «festa popolare» e della «festa dei primitivi», assunta nell’opposizione festa/teatro e infusa nella visione dinamica e dialettica che ridà energia al teatro.

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Pirandello e Marta Abba a teatro per La nuova colonia, 1928

Ma insieme al recupero dei valori forti della ritualità come elemento portante della rivoluzione del teatro, c’è un’altra componente sostanziale che rivela il senso dell’intesa fra i nostri due grandi artisti, troppo a lungo trascurata dalla storiografia del teatro e che proprio l’epistolario scenico dannunziano ha il merito di riproporre con tutta la sua forza rivelatrice: «gioverebbe ad entrambi un colloquio, quasi direi tecnico, perché tu sei o teknikos come io sono» [26]. In questa breve frase di D’Annunzio indirizzata a Pirandello c’è tutto il trasporto col quale l’autore\allestitore indica le condizioni di quell’aggiornamento e di quello stile, all’interno dei problemi della messa in scena, già posti da D’Annunzio nella sua scrittura in forma concorrenziale nei confronti del teatro degli attori e rivolto al teatro di poesia. Un orientamento che Pirandello, drammaturgo pur così profondamente diverso per molti aspetti dall’anticipatore D’Annunzio, sa prendere a suo carico e che solo la regia sarà in grado di risolvere. Una lezione storica che comunque sarebbe rimasta, almeno parzialmente, nel silenzio senza il contributo di quel grande patrimonio documentario che è ancora per il teatro, come per tante altre discipline, l’epistolario dannunziano.

Dialoghi Mediterranei, n. 41, gennaio 2020
 Note
[1] Je vous prie de me chercher à Paris le livre de Schliemann Mycénes traduit en français et publié par Hachette /. . ./ j’en prendrai méme un exemplaire usagé. Si par hasard vous trouvez les éditions classiques (Firmin – Didot) d’Homère, D’Hésiod, de l’Anthologie, etc., achetez-les pour moi». (Dalla lettera inviata da D’Annunzio al suo traduttore Georges Hérelle in data 23 settembre 1895, pubblicata in Gabriele D’Annunzio à Georges Hérelle. Correspondance, a cura di G. Tosi, cit: 257).
[2] La lettera è pubblicata in Gabriele D’Annunzio à Georges Hérelle. Correspondance a cura di G. Tosi, cit.: 295.
[3] Dalla lettera di D’Annunzio a Sarah Bernhardt inviata da Milano in data 13 novembre 1897, pubblicata nella rivista «Dante», Parigi, maggio-giugno 1938: 144-5, e successivamente da G. Tosi, Les rélations de G. D’Annunzio dans le monde du théâtre en France, in «Quaderni dannunziani», VI-VII, ottobre 1957: 11.
[4] Dalla citata lettera di D’Annunzio a Sarah Bernhardt del 13/11/1897.
[5] In particolare le lettere inviate a Zacconi testimoniano l’illusione dannunziana di plasmare uno dei rappresentanti più significativi del recitar naturalistico, tutto impostato sulla esteriorizzazione del personaggio e sulla espressività direttamente ispirata alla vita reale, ampiamente collaudata dalle sue interpretazioni dell’epoca, in particolare nella parte di Osvaldo negli Spettri e di Corrado ne La morte civile. Paradossalmente il grande attore riconduce così fuori dalle righe poetiche il progetto di D’Annunzio che pure aveva inteso dare carne e sangue all’idea tragica dei due personaggi Cesare Bronte e Ruggero Fiamma, pensando proprio all’attitudine interpretativa di Zacconi, anche nei suoi aspetti più specifici, come l’ormai celebre capacità di rendere le morti in scena, curate dall’attore nei dettagli fisiologici. Nella lettera che D’Annunzio aveva inviato a Zacconi da Corfù il 5 marzo 1899, mentre ancora lavorava alla stesura de La Gloria, gli aveva scritto; «[...] in questo tempo di lontananza ho vissuto meditando di foggiare una nuova persona secondo le prodigiose potenze espressive che sono in Lei, nell’arte Sua. E mi sono rimesso al lavoro avendo dinanzi agli occhi dello spirito taluna delle maschere viventi e terribili con cui Ella inspira nell’anima della Folla la pietà e il terrore. D’Annunzio aveva anche tratteggiato all’attore la figura del protagonista, dicendogli fra l’altro: «Tutte le essenze, tutte le espressioni sono condensate nella persona del protagonista, dal sentimento eroico alla paura, dall’ebbrezza oratoria fino al balbettio smarrito, dalla più fiera intensità di vita fino alla più atroce contrattura di morte. V’è inoltre una singolarità che non sarà per dispiacerle: l’apparizione di un personaggio gigantesco, un gran vecchio, un dittatore, l’ultimo sostegno che sta per crollare e crolla; e aveva aggiunto successivamente, ancora in forma di captatio, proprio per sottolineare la nota specialità di Zacconi: «Non Le dispiacerà troppo di morire due volte – e in due maniere diverse – io spero» (La lettera è riportata dallo stesso E. Zacconi, Ricordi e battaglie, Milano, 1946: 225-226 e Da «La città morta» a «Più che l’amore», in «Scenario», IV, 1938, cit.: 187). In questa stessa lettera D’Annunzio dà a Zacconi precise indicazioni sugli altri interpreti della sua produzione: «[...] Vorrebbe Ella affidare al signor Cappelli la parte di Cosimo Balbo? Quella parte, nel primo atto dovrà essere alleggerita per l’esigenza scenica. Ma io penso con maggiore inquietudine alla Sirenetta, che è una creatura prediletta della mia anima. Ho saputo ch’Ella ha ora nella Sua compagnia una giovane attrice di elettissima intelligenza, Emma Gramatica [...] io sarei molto lieto se il sogno della Sirenetta l’attraesse. Confido in Lei, caro Zacconi, nella Sua acutezza, nella Sua esperienza, nella Sua energia».
[6] Lettera di G. d’Annunzio ad Antonio Scontrino, s.l.n.d., Archivio del Vittoriale, Gardone Riviera, LXXXV: 3.
[7]  Dalla lettera di D’Annunzio a Michetti del 31 agosto 1903.
[8] Cfr. M. Schino, Sul progetto teatrale dannunziano: un’ombra tra «riformismo» e regia, in AA.VV., Gabriele D’Annunzio: grandezza e delirio nell’industria dello spettacolo, cit.: 173.
[9] V. Talli, La mia vita di teatro, cit.: 199-200.
[10] Lettera dell’11 maggio 1909, Settignano, Archivio Personale, Fondazione del Vittoriale.
[11] Lettera del 29 settembre 1909, Gardone Riviera. Archivio Personale, Fondazione del Vittoriale.
[12] G. Cohen, Etudes du théâtre en France au moyen age et à la Rénaissance, Paris, 1956: 364.
[13] Rimando, per questo, ancora al mio D’Annunzio e la mise en scène: 165 sgg.
[14]  Testimonianza raccolta e pubblicata da L. Coperchot, Souvenir d’un journaliste, Paris, 1937: 51. Dal canto suo Ida Rubinstein rimarrà sempre grata a D’Annunzio per questo coraggioso esperimento che avrebbe dato avvio alla sua carriera di attrice: «Je dansais, je mimais quand j’ai fait le rencontre de Gabriele D’Annunzio – Je puis dire qu’il m’a donné une voix. Il a fourni une expression verbale au grand é!an Iyrique qui me soulevait. II m’a apporté la révélation complète de moi-même, de tout que je ne connessais pas moi-même de moi-même» (Da una dichiarazione rilasciata da I. Rubinstein in una conferenza tenuta a Parigi nel 1927, riportata da G. Tosi, Aux sources du Martyre de S. Sébastìen, cit.: 308).
[15] Il carteggio D’Annunzio\Astruc è consultabile presso l’Archivio Generale del Vittoriale, IX: 3.
[16] Cfr., in particolare, la lettera di Astruc a D’Annunzio del 23/1/1911, preceduta da un telegramma del 20/1/1911, dove si legge fra l’altro: «Question De Max très grave. Impossibilité absolue créer deux personnages, voix et phisique se reconnaissant inévitablemenb» (entrambi in A. G. del Vittoriale, IX: 3).
[17] Lettera di D’Annunzio a Debussy dell’11/1/1911.
[18] Cfr. anche le lettere dell’11/12/13 febbraio 1911 del carteggio D’Annunzio/Debussy pubblicate, come quelle sopra riportate, da G. Tosi, Claude Debussy et Gabriele D’Annunzio. Correspondance inèdite, cit.: 57-63.
[19] Cfr. in proposito il mio D’Annunzio e la mise en scène: 178 sgg.
[20] Dalla lettera di D’Annunzio a Coquelin e a Hertz pubblicata da «il Giornale d’Italia» del 27 dicembre 1913.
[21] Pirandello comunicò con una lettera la sua intenzione a D’Annunzio nella certezza di trovarsi, sia pure a distanza di anni, accomunato all’artista pescarese da un medesimo impegno per una rinascita del teatro. La lettera di Pirandello che qui proponiamo, datata 4 ottobre 1926, contiene anche un accorato invito a D’Annunzio a prodursi nella realizzazione di un’opera nuova per il teatro: «Caro D’Annunzio, mi volete concedere l’onore e dare la gioia di rinnovare in Roma i fasti de “La Nave”? Il Teatro Argentina diverrà col prossimo anno Teatro Stabile, per volere del Duce e del Governatore di Roma, sotto la mia direzione e con la mia Compagnia accresciuta e migliorata. Perché l’avvenimento abbia valore di celebrazione dell’arte italiana la nuova stagione (che avrà principio il giorno 8 di marzo) dovrebbe aprirsi con una vostra Opera, che io preparerei e curerei con grandissimo amore, e porterei, dopo Roma nell’America Latina, e poi in tutto il mondo. La battaglia che tentai di combattere con Voi per il risanamento della vita teatrale italiana, sarebbe certo vinta con una vostra Opera nuova affidata a me: pensateci».
[22] Dalla lettera di D’Annunzio a Pirandello del 9 settembre 1934.
[23] Da una dichiarazione rilasciata da Pirandello al «Giornale di Sicilia» del 4 ottobre 1954.
[24] Dalla citata intervista di Pirandello pubblicata su «Il Tevere» del 6 ottobre 1934.
[25] Dalla lettera di D’Annunzio del 9 settembre 1934, cit.
[26] Dalla lettera di D’Annunzio del 9 settembre 1934, cit.

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Giovanni Isgrò, docente di Storia del Teatro e dello Spettacolo presso l’Università di Palermo, è autore e regista di teatralizzazioni urbane. Ha vinto il Premio Nazionale di Saggistica Dannunziana (1994) e il premio Pirandello per la saggistica teatrale (1997). I suoi ambiti di ricerca per i quali ha pubblicato numerosi saggi sono: Storia del Teatro e dello Spettacolo in Sicilia, lo spettacolo Barocco, la cultura materiale del teatro, la Drammatica Sacra in Europa, Il teatro e lo spettacolo in Italia nella prima metà del Novecento, il Teatro Gesuitico in Europa, nel centro e sud America e in Giappone. L’avventura scenica dei gesuiti in Giappone è il titolo dell’ultima sua pubblicazione.

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