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La musica ritrovata: Francesco Santoliquido a Tunisi
Posted By Comitato di Redazione On 1 gennaio 2021 @ 02:35 In Cultura,Migrazioni | No Comments
di Rosy Candiani
Ci sono momenti passati della storia e della cultura che giacciono a lungo silenti tra le carte di archivi e biblioteche, nei depositi museali, talora destinati a un oblìo inconsapevole per il susseguirsi dei cicli e degli eventi, associati attraverso la rimozione o il rifiuto a periodi bui della storia e delle vicende umane. Per l’Italia tutto questo è stato, comprensibilmente, vissuto nei confronti del Ventennio fascista, dopo la sua fine e per un lungo periodo culturale della Penisola. Poi, la sedimentazione degli eventi storici, la messa in prospettiva e più banalmente il passare del tempo consentono che possano riaffiorare da quel passato episodi o figure di rilievo della cultura o di interesse testimoniale al di là di un culto acquiesciente e celebrativo, purtroppo diffuso e filtrante i risultati più originali, come un velo nebbioso.
Così l’iniziativa dell’Istituto Italiano di Cultura di Tunisi – nella lungimiranza e anche audacia culturale della sua Direttrice, Maria Vittoria Longhi – di contribuire all’ottobre musicale di Tunisi con un concerto di riscoperta del musicista Francesco Santoliquido [1], è una occasione per scandagliare i documenti presenti nell’Archivio delle Memorie Italiane di Tunisia e per valorizzare una figura e un momento della vita culturale della comunità italiana a Tunisi nel fervore cosmopolita degli anni Trenta [2].
Francesco Santoliquido non è un “italiano di Tunisia”: nasce a San Giorgio a Cremano, nel 1883, e si diploma nel 1908 al Conservatorio romano di Santa Cecilia, con già all’attivo la pubblicazione di alcuni libretti drammatici, a Roma presso Forzani, la Tipografia del Senato: “Alano e Bellisenda”, (rappresentato a San Giorgio a Cremano l’estate del 1904), “Lionella”, rappresentata a Roma, a Palazzo Antonelli, nell’autunno del 1905; e nel 1908 “Helga”, dramma lirico in un atto. Nel 1910 quest’opera, di cui Santoliquido compone musica e libretto, viene rappresentata al teatro Dal Verme di Milano [3]. Contemporaneamente, entra in contatto con Casa Ricordi, la più prestigiosa casa editrice musicale italiana e forse mondiale, per la stampa delle sue composizioni [4].
Una lettura critica di queste prime prove drammatiche rileva linee comuni che possiamo ascrivere al descrittivismo: riproposte anche nelle opere del periodo tunisino, si dimostrano la cifra stilistica dell’autore. Santoliquido fin da questi esempi giovanili ha una concezione globale dello spettacolo, demiurgo e ideatore unico di tutta la macchina teatrale: testo, musica, scenografia, costumi. Le sue ambientazioni sono “lontane” nel tempo (il Medioevo di “Lionella”) o nello spazio: la Bretagna medioevale di “Alano e Bellisenda” o la casa fiamminga di “Helga”. La vicenda si svolge per lo più in spazi chiusi, cupi e talora claustrofobici, descritti in didascalie sceniche minuziose, e ricordano per certi aspetti ambientazioni e situazioni ibseniane.
Il libretto ha una scrittura “essenziale”, come i canovacci che si definiscono direttamente in scena, che suggeriscono le situazioni scenografico-ambientali, talora un dettaglio di dialoghi; il testo è in prosa e rifugge dalla metrica e dalla rima di tradizione melodrammatica, con pochi passi lirico-musicali: si tratta di inserzioni poetiche che corrispondono a brani musicali “chiusi”, spesso brani pittorici a definire il personaggio, come la canzone del marinaio ubriaco, a pennellare la brutalità di Ned, in “Helga”; oppure canzoni tradizionali, come la canzone di bimbi per il Natale, sempre in “Helga” [5], con una certa propensione, o ossessione, per il sacro. I brani musicali enfatizzano l’ambientazione, che incornicia e “soffoca” l’impossibile storia d’amore, sempre presente nelle vicende a finire con l’ineluttabilità della tragedia e della morte: tra Alano e Bellisenda, tra lo scudiere Furetto e Lionella, e tra Allan “dalla chioma di poeta” e Helga che – lontano topos melodrammatico e forse inconscio tributo a Violetta e Mimì – soccombe alla tisi e alla morte del giovane amante, sia pure platonico.
Sicuramente già dal 1914 Santoliquido è in Tunisia, ad Hammamet, dove lavora al compimento della sua opera “L’Ignota”.
Non sappiamo i motivi che lo portano in Tunisia, ma la sua vicenda ricorda, con straordinarie analogie, il percorso dei pittori che chiamiamo orientalisti, Paul Klee e Auguste Macke che proprio in quello stesso 1914 – l’anno dello scoppio della prima guerra mondiale – compirono un viaggio in Tunisia che segnò la loro arte: le suggestioni dell’ambiente, i paesaggi, i colori e soprattutto la luce lasciarono un’impronta indelebile sui loro acquarelli, la “révélation de la couleur” di cui parla Klee. Lo stesso fu per Santoliquido che non a caso in Tunisia compone nel 1918 la suite sinfonica “Acquarelli”, ma anche altre opere dai titoli esplicitamente ispirati a questa terra: “I poemi del sole”, “Il crepuscolo sul mare”, “Il profumo delle oasi sahariane”, schizzo sinfonico per grande orchestra eseguito il 4 febbraio del 1918 a Bizerta sotto la Direzione del serbo Dragutin Pokorny [7].
Per la sua prolungata presenza in Tunisia e per la sua incidenza sulla vita culturale della comunità italiana possiamo definire Santoliquido un “Italiano in Tunisia”: tra puntate in Tunisia e rientri in Italia, questo musicista vive due lunghi periodi di soggiorno, soprattutto ad Hammamet, dal 1914 al 1921; e tra il 1926 e il 1928. Poi, stabilitosi dal 1933 ad Anacapri, sembra condividere il frustrante destino incrociato di molti italiani, noti e apprezzati per la loro attività in contesti culturali differenti, ma estranei e a un certo punto estraniati da entrambi, in questo caso Italia e Tunisia [8].
Questo studio si propone di mettere in luce la effettiva incidenza di questo compositore sulla scena musicale tunisina, cercandone testimonianza nelle carte dell’Archivio A.M.I.T. di Tunisi, e il riscontro nella ricca corrispondenza con Casa Ricordi. La documentazione riguarda da un lato il rapporto di Santoliquido con l’istituzione musicale della comunità italiana a Tunisi, il Conservatorio “Giuseppe Verdi”; e dall’altro la sua attività di compositore e la presenza dei suoi lavori sulle scene tunisine.
Come premessa, è opportuno anticipare solo due note sull’istituzione musicale del Conservatorio, nato in seno alla società Dante Alighieri, presente a Tunisi con un Comitato fin dal 1893. Tra le due guerre, l’attività culturale della Dante a profitto della collettività italiana si incrementa con diverse iniziative, tra cui i corsi della scuola di musica; ma una vera svolta, certamente legata alla politica di Mussolini verso la terra di Tunisia (Mussolini tra l’altro aveva beneficiato del prezioso reportage con relativi suggerimenti di strategie culturali di Margherita Sarfatti) [9] si ha nel 1926.
In quell’anno a Tunisi la Dante trasferisce la sede nella nuovissima palazzina Déco (esempio mirabile del savoir faire delle maestranze e degli architetti italiani a Tunisi) in pieno centro città, nell’attuale rue Ibn Khaldoun (traversa dell’avenue Bourghiba) dove oggi è aperta la sede della Maison de la Culture Ibn Khaldoun. Qui trovano spazi prestigiosi l’Istituto musicale Giuseppe Verdi e la considerevole collezione di strumenti musicali che fu poi, dopo la nazionalizzazione, trasferita e annessa alla collezione del Barone d’Erlanger, al Palazzo Nejma Ezzahra a Sidi Bou Said.
Questo anno 1926 è molto importante per Santoliquido, anzi possiamo dire che rappresenta forse l’apice della sua notorietà ufficiale a Tunisi e, probabilmente, l’ipotesi di ottenere un incarico stabile come direttore, malgrado la sua presenza più saltuaria in Tunisia, e le successive affermazioni trionfali del giovane Tito Aprea, arrivato da Roma come direttore del Conservatorio nel 1927.
Secondo le testimonianze dei giornali a Tunisi – come “L’Unione” in italiano e “La Dépeche tunisienne” – e in Italia, confermate dalle lettere inviate a Ricordi, Santoliquido fonda a Tunisi la “Società degli amici della musica”: «uno sparuto manipolo di amici della musica, capitanato dal maestro Santoliquido … riuscì a svolgere interamente il suo programma … di una serie di audizioni di musica da camera» (“L’Unione”, 27-11-1927), tra cui la sua “Sonata per violino e pianoforte”, eseguita alla casa della Dante in questo 1926, recensita in modo lusinghiero sul “Mattino” e sui giornali italiani.
A inizio gennaio 1927, da Hammamet, Santoliquido dà la notizia a Carlo Clausetti [10] – Direttore di Casa Ricordi – per ottenere la segnalazione sulla prestigiosa rivista “Musica d’oggi”:
Ancora nel 1927 il ruolo centrale di Santoliquido nella organizzazione di una attività musicale afferente la Dante è indiscusso: quando Tito Aprea assume la direzione del Conservatorio italiano di Tunisi, nell’estate del 1927, Santoliquido è citato come presidente fondatore [11], e secondo Henri Leca [12] è lui a portare a Tunisi il giovanissimo Aprea, dopo aver realizzato l’impresa di offrire al pubblico tunisino un’orchestra sinfonica. Ma all’arrivo a Tunisi di Aprea l’equilibrio dei rapporti si sposta progressivamente e rapidamente: dalle testimonoanze si ha quasi l’impressione del formarsi di una sorta di schieramento di sostenitori, per Santoliquido o per Aprea, che ricorda un po’ quello pro o contro Maria Callas e Renata Tebaldi.
Non è questa l’occasione per ricostruire il progressivo affermarsi di Aprea attraverso i documenti conservati in archivio, donati dal figlio, e nella biblioteca, cartacea e digitale. Comunque Santoliquido dovette percepire subito che gli spazi ufficiali dell’attività musicale a Tunisi si stavano per lui chiudendo. Nello stesso arco tra il 1927 e il 1928 cerca di spostare l’asse delle sue attività in Italia, dapprima muovendo, da Hammamet, tutte le sue conoscenze per essere inserito nella “Mostra musicale del Novecento” con la sua sonata per violino e pianoforte; e poi contribuendo alla nascita a Roma della “Società del quartetto”: in sostanza riproponendo a Roma il progetto di una stagione di musica da camera moderna, avviato a Tunisi [13].
Le vicende legate alla “Mostra musicale del ‘900”, prima manifestazione dedicata alla musica strumentale italiana contemporanea, voluta e patrocinata da Mussolini, ancora fautore in questa fase di scelte moderniste e di aperture con l’estero, è sintomatica del ruolo marginale di Santoliquido nell’ambiente musicale italiano, malgrado i suoi dichiarati successi all’estero [14], della sua convinzione e consapevolezza e quindi delle rivendicazioni per essere riconosciuto al livello dei colleghi, Respighi, Pizzetti etc.; rivendicazioni che assumono un tono sempre più vibrato e risentito nel carteggio con Ricordi, e che già si erano manifestate in occasione delle trattative attorno a “L’ignota” e “Ferhuda”. Dall’inizio gennaio del’27, Santoliquido si rivolge a Clausetti per essere invitato alla Mostra [15], e le sue proteste si fanno sentire, un mese dopo, quando la sua presenza non è prevista nella lista dei partecipanti:
Le rimostranze nei confronti di Casa Ricordi si fanno più risentite l’anno successivo, quando Santoliquido è rientrato a Roma e vive il nervosismo di non trovare un ruolo di primo piano nella vita musicale, di «essere un po’ trascurato dalla Casa Ricordi», di trovarsi «ancora, dopo 20 anni di carriera e di successi nella posizione di un principiante» (Ricordi, LLET014751: Roma, 28-10-1928, a Valcarenghi). Proteste vibrate che il musicista ribadisce in una lettera ufficiale indirizzata a “Casa Ricordi”:
Santoliquido è presente nelle prime stagioni musicali organizzate da Aprea; ma già da tempo i suoi lavori erano sulla scena a Tunisi, come del resto in Italia e nel mondo; le carte dell’Archivio dell’A.M.I.T. ci portano in particolare al 1919 e ci regalano la possibilità di parlare di una delle opere di questo musicista, forse la più innovativa: si tratta di “Ferhuda. Scene di vita araba”, opera lirica di cui in Archivio restano due copie della partitura per voce e pianoforte, una con correzioni autografe. Questo lavoro può forse essere letto come metafora dell’esperienza esistenziale di Santoliquido, e basta far parlare l’autore, nelle lettere a Casa Ricordi, per comprendere le difficoltà incontrate per «assicurare il mio [suo] avvenire artistico» [16] e un riconoscimento a questa sua opera: malgrado gli esiti sulla scena e il successo a Tunisi, al Teatro Rossini, gestito da italiani, nel gennaio del 1919 [17], in Italia non sortiscono reazioni oltre la curiosità e generiche manifestazioni d’interesse da parte del direttore di Ricordi:
E poco dopo, la richiesta più esplicita, sia pure nei toni della captatio benevolentiae amicale:
Tuttavia i risultati furono di fatto negativi, sia per arrivare alle scene, quelle milanesi del Teatro Dal Verme sollecitate dall’autore, sia per l’inserimento sul catalogo Ricordi, tanto che Santoliquido si rivolge alla casa editrice fiorentina Forlivesi per pubblicarne la riduzione per canto e pianoforte [20].
“Ferhuda. Scene di vita araba” [21] non è un capolavoro, ma un’opera senza dubbio interessante, una metafora dell’incontro impossibile tra due mondi che anche linguisticamente e musicalmente il compositore cerca di far dialogare: due mondi contigui, reciprocamente attratti e coesistenti, cui resta però preclusa la fusione e l’integrazione.
Naturalmente, secondo le consuetudini melodrammatiche, il libretto racconta di una storia d’amore fuggevole e infelice, destinata a infrangersi contro le convenienze sociali. Nella medina popolare di Tunisi, attorno al Souk El Attarine [22], Sergio, un giovane europeo, “Rumi” in tunisino, resta ammaliato dalla bella giovane vicina, la popolana Ferhuda, madre di un bimbo e moglie di Mouldi, che da tre anni si è allontanato per compiere il viaggio alla Mecca.
Affascinata dalle parole infiammate di Sergio – “oh le belle parole” (Ferhuda,54), “quante parole! parlano molto i Rumi, e bene” (Ferhuda,85) – Ferhuda sembra abbandonarsi al sogno impossibile della felicità; ma viene risucchiata nel gorgo delle presenze femminili, della indovina – la “dagghesa” – dal ritorno e dalla morte del marito; e ancorata al suo destino di vedova chiusa nella sua casa araba «come una povera rondine prigioniera» (Ferhuda,78).
Nei tre atti rivivono diverse ambientazioni e scene di vita tradizionale tunisina, che Santoliquido conosce bene, visto che a Tunisi risiedeva tra l’Hotel Eymon, una vera istituzione sulla attuale piazza di Bab Bhar [23], e rue El Hadjamine nella medina popolare di Bab Jdid:
il labirinto delle stradine e le impasse – le “zanca” – (Ferhuda, 25) e la piazza di Halfaouine nei gioiosi festeggiamenti di fine Ramadan (scenario al Preludio sinfonico dell’atto terzo); le tipiche case arabe con il terrazzo al posto del tetto e gli interni (Ferhuda, 61-65); i “marabut” e le superstiziose tradizioni popolari: quello di Sidi Messaud che con una licenza creativa Santoliquido trasporta a Tunisi da Tozeur, ove era stato [24], e quello di Sidi Ben Aissa, dove si svolge la festa religiosa della Aissaouia e poi la morte di Mouldi.
L’atmosfera e l’incontro conflittuale tra i due mondi non si limita a tocchi ambientali pittoreschi, a un descrittivismo popolaresco o misticizzante – componenti peraltro presenti – come nelle opere giovanili. Santoliquilido si è immerso nella cultura tunisina, non ha vissuto un’esperienza da turista o da italiano a contatto solo con la comunità dei connazionali, pur tanto vivace; ha studiato la musica araba e tunisina, ha ascoltato e assimilato la lingua tunisina e traspone nell’opera, talora con la soddisfazione del risultato, talora con qualche ingenuità, il suo sentirsi un po’ “tounsi” o “rumi”, cioè l’europeo assimilato.
I termini del tunisino punteggiano tutto il libretto, soprattutto per indicare i luoghi e gli abiti: la “cecia” (chechia, il copricapo tunisino maschile) di Sergio (Ferhuda, 25), gli “haiks” (i tessuti, Ferhuda, 46), la “fouta”, i “cabcab” (gli zoccoli) e il ”sefseri” (Ferhuda, 104) [25]; i mobili “strani” della stanza di Ferhuda, dove Sergio è finalmente potuto entrare e che si fa “nominare”, interrompendo un po’ goffamente le schermaglie nella penombra, forse per assecondare lo slancio nomenclatore tunisino del suo autore: il “sandouk” (la cassapanca), la “mehda” (il tavolo basso), il “canun” (lo scaldino in terracotta), la “derbuka” (il tamburello per le danze delle donne) [26]; i versetti dei sacerdoti della Aissaouia e la nomenclatura dei professionisti del rito funebre: lo “sceicco” (“schikh”, Ferhuda, 116), il “khassel”, i “korria”, cioè gli addetti al lavaggio del corpo e alla lettura del Corano.
A questo universo colorito e popolare fa da contrappunto la espressività di Sergio e il suo lirismo fiorito di immagini iperboliche che intreccia elementi della tradizione melodrammatica (come “Oh dolce dimora claustrale”, Ferhuda, 42; “stella fiammante delle mie notti insonni”, Ferhuda, 46; “non piangere o principessa delle mille e una notte finalmente sei mia …ti stringo fra le braccia e ti bacio sugli occhi”, Ferhuda, 82 [27]) con alcuni stilemi funzionali a un esotismo melodrammatico, come l’espressione “mia dolce sultana dalle vesti di seta”, inappropriata per una popolana del souk che per uscire cerca i “cabcab”, gli zoccoli; e con «le parole immaginose e sensuali» delle antiche canzoni orientali [28] che Santoliquido riproduce nelle infiammate dichiarazioni del suo personaggio (“piccola sultana … più dolce di tutti i giardini fioriti d’oriente”, Ferhuda, 54; “mio giardino d’aranci”, Ferhuda, 46).
L’accostamento di diversi linguaggi ritmici e melodici della musica occidentale e orientale si ripropone secondo procedimenti analoghi sul piano musicale, come possiamo leggere nella partitura per canto e pianoforte. Ferhuda è un’opera di impianto occidentale, direi secondo le tendenze della contemporanea musica italiana, più teatro di parola che opera lirica; lontane dalla ricchezza melodica ottocentesca, le voci non si dispiegano nel canto lirico ma in una declamazione spesso nervosa che ricorre ad arpeggi, inseguirsi di scale cromatiche ascendenti e discendenti, come nell’episodio della morte di Mouldi (Ferhuda, 146-150), con cambi rapidi di tonalità e alterazioni, come per esempio nel primo intermezzo strumentale.
Su questa struttura, con lo stesso procedimento che caratterizza la sua ricerca di integrazione di due universi linguistici distanti, cioè l’inserimento di termini tunisini nei dialoghi, Santoliquido innesta i momenti lirico-musicali dell’opera secondo la sua interpretazione di un milieu orientale o “arabo”. Si tratta per la maggior parte di melodie non banali, ma consuete, e che per il nostro orecchio musicale occidentale “suonano” come orientali, come accade anche nelle musiche da film, quando si vuole creare l’armosfera fascinosa, tra esotica, sensuale e misteriosa del nostro Oriente immaginario. Ma questa evocazione di un’atmosfera esotica tipica si apre a spunti interessanti con l’inserzione di autentici ritmi tunisini – “fazeni”, “masmoun” – che attestano la conoscenza non superficiale della musica locale da parte del musicista.
Alcuni rapidi esempi ci mostrano che egli ricorre alla musica tunisina per sottolineare il prevalere dell’universo più chiuso e tradizionale in cui invano cerca di sbocciare la storia tra Sergio e Ferhuda. Per esempio, all’inizio dell’opera, il cenno al ritmo arabo popolare di “fazeni”, la melodia “ihjaz kar”, che accompagna il dialogo tra Ferhuda e le amiche e la loro danza liberatoria ritmata dalla darbuka dopo la cupa profezia dell’indovina. Il “fazeni”, ritmo di danza molto popolare sottolineato dalle percussioni, accompagna anche il momento in cui Sergio “entra” nell’universo arabo orientale della casa di Ferhuda (Ferhuda,73). Talora a creare l’atmosfera orientale sono accordi del “masmoun” tunisino, il “malouf” della più viva tradizione popolare, come all’inizio del primo intermezzo strumentale (Ferhuda, 62 e l’esempio musicale). Ancora più evidente nel secondo atto, l’irruzione del mondo tunisino – le donne, il marito, le voci in strada – è preparata dai modi del “masmoun”, allegro e molto conosciuto, come i noti motivi “Ordouni zouz sbeia” [29] o “Hedi gouneya jdida” di Hedi Jouini.
Il terzo atto rappresenta la sintesi più significativa e originale del progetto drammaturgico-musicale di Santoliquido, la sua ricerca di dialogo tra i due universi in contrasto, Occidente e Oriente, che si attraggono fino all’epilogo tragico: il finale è melodrammaticamente scontato, ripropone l’ossessione del mistico e della morte nell’immaginario di questo autore, ma anche il rifiuto del ‘diverso’, in questo caso Sergio, l’europeo. Da un punto di vista scenografico musicale questo atto finale è la massima espressione del lavoro di assimilazione alla cultura tunisina: il preludio sinfonico è ambientato «nell’ultima notte di Ramadan a piazza Halfaouin» (Ferhuda, 106) e per rendere la gioia popolare sfrenata Santoliquido propone il ritmo “Mdauer houzi” in 6/8, che per tradizione, intonato sui “bendir” (le percussioni) accompagna la danza di festa delle donne, che si muovono ondeggiando i capelli sciolti in modo sempre più compulsivo, fino alla trance (Ferhuda,110-114). Poi: «S’alza la tela. Appare l’interno del Marabutto di Sidi Ben Aissa. È notte. Davanti alla tomba del Santo ha luogo la strana Messa degli Aissauia»[30].
Le notazioni in partitura indicano un ritmo «andante cupo e misterioso» per tenori e bassi; e per lo “Sceicco” un «canto ripreso a più modulazioni verso andante religioso mistico». L’espressione “strana messa” riassume bene il tipo di strumentazione scelto da Santoliquido, che conosce la musica della Aissaouia, ma accompagna i versi, tratti da un canto originale di circoncisione, con melodie occidentali di sua composizione ma di “eco” orientale, come ricostruisce anche nel suo articolo di poco posteriore:
Come per gran parte della musica araba tradizionale, non c’è trascrizione in partitura: il coro degli officianti e lo Sceicco ripetono più volte fino all’epilogo le strofe del canto che Santoliquido trascrive e traduce direttamente dall’ascolto durante la cerimonia, come si deduce dal fraintendimento dell’epiteto di Allah “khoui” – il possente – reso con il tunisino “khouia” e quindi tradotto nel refrain “fratello”:
Questa partitura di “Ferhuda” rivela dunque aspetti molto interessanti della personalità artistica di Francesco Santoliquido e sarebbe ancor più interessante ritrovare la partitura completa per orchestra. In particolare, la sua ricerca di creare un dialogo, una fusione, linguistico-musicale tra due universi culturali distanti ma comunicanti non può non far pensare alle modalità dell’operazione di rinnovamento musicale e linguistico della canzone che in quel periodo o pochi anni più tardi hanno visto protagonisti il più grande compositore del mondo arabo, Mohamed Abdelwaheb, e il più grande autore della musica tunisina moderna, Hédi Jouini, i quali rivoluzionarono la musica tradizionale araba con l’immissione dei ritmi occidentali più in voga e popolari quali la rumba, il tango e il popolarissimo valzer.
Si tratta in fondo del comune mito del cosmopolitismo che caratterizza la vita, non solo la sperimentazione musicale o artistica, di tutte le grandi capitali e metropoli dell’epoca, da Vienna a Parigi, a Milano, a Roma, al Cairo, a Tunisi, spazzato dal vento gelido dei nazionalismi e della guerra. Se quest’opera non ebbe gran seguito in Italia, ci lascia però anche un ultimo messaggio, a ribadire i legami e i diversi scambi di esperienze culturali tra le rive del Mediterraneo.
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