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La memoria come patrimonio territoriale

Posted By Comitato di Redazione On 1 marzo 2018 @ 00:06 In Cultura,Società | No Comments

Paraloup

Paraloup (Alpi Nord-Ovest, prov. Cuneo)

di Antonella Tarpino

La memoria ha a che fare con i luoghi, anche quelli comuni (non solo con i celebrati luoghi della memoria della storia del ‘900): siano i piccoli paesi, spesso in via di spopolamento, siano i borghi abbandonati. Quei “troppo vuoti” a cui è importante tornare (o restare, che è la stessa cosa, come ci mostra Vito Teti) a fronte dei “troppo pieni” delle città in crisi e delle loro periferie sovraccariche. Oggi in Italia  più di 6000 paesi –  lo sappiamo – sono in stato di abbandono e altrettanti al di sotto dei 5000 abitanti. Quasi tutti con un carico di memoria fragile, a rischio o, in alcuni casi, al contrario, dissolto, disperso nelle retoriche del marketing turistico. La memoria è cruciale nella rinascita del  territorio: farei un passo in più, parlando di memoria, a tutti gli effetti, come patrimonio territoriale.

Una grande lezione sul senso della memoria l’ho ricevuta da Nuto Revelli nei suoi libri sul mondo dei vinti – i contadini in fuga verso le fabbriche in pianura – e sul loro paesaggio sommerso, perduto nell’abbandono: «Ormai il paesaggio lo leggo sempre e soltanto attraverso il filtro delle testimonianze – scriveva alla fine degli anni Settanta – Sono le testimonianze che mi condizionano che mi impongono un confronto continuo tra il passato lontano e il presente. Attraverso quelle storie (..) vedo il mosaico antico delle colture e dei colori anche dove è subentrato il gerbido, dove ha vinto la brughiera, vedo le borgate piene di gente e non in rovina, anche dove si è spenta la vita».

Così, si potrebbe dire, per questa via, che ogni forma di ri-territorializzazione è, metaforicamente, anche un’operazione di memoria. È la memoria di chi vi ha abitato, o è rimasto, che dà una forma a ciò che spesso é in rovina o in abbandono, ridisegna il senso degli antichi abitati, racconta anzitutto il “lavoro” della convivenza di uomini e donne con il proprio territorio. Con il più estremo, ad esempio, quello della montagna alpina quando la neve isola i paesi per mesi interi ma insieme unisce le comunità al proprio interno: ripenso alle sorprendenti testimonianze delle comunità della Val Maira (Alpi marittime) che ancora nei primi decenni del Novecento si organizzavano, secondo l’uso antichissimo, in ‘desene’, squadre composte da dieci uomini (o donne sovente), ognuna sotto il comando di un capo. O, per non sprofondare nella neve nel corso delle estenuanti traversate, srotolavano le lenzuola del pagliericcio a quattro metri per volta per poi passarci sopra.

La neve non era solo nemica. Intorno alla neve sono sorti nei secoli – ancora visibili come a Celle di Macra – quelle creature dell’inverno (così li definirebbe Lalla Romano) quei villaggi piccoli miracoli di urbanistica popolare, raccolti sotto un unico grande tetto per contendere al freddo e alle tempeste di neve gli spazi del lavoro, la possibilità di muoversi indisturbati tra i vicoli delle case.  E poi ci sono reperti antichissimi di un lavoro invisibile che il territorio l’ha mutato, ridisegnato nei secoli “a morsi”, secondo l’espressione dello scrittore Francesco Biamonti, pietra su pietra: i terrazzamenti (ho presenti in particolare quelli della Liguria dell’entroterra) con i loro profili scalari a sfidare ogni recondita pendenza.

Un mondo in sospensione. Lo mostrano anche i tragitti scoscesi dei colporteur (nei loro racconti) come dei tanti mulattieri  lungo i crinali delle antiche vie del sale  e il corteo di suonatori di oboe e fisarmonica al seguito: dal Piemonte meridionale all’Oltrepò pavese fino a ricongiungersi al nucleo più antico delle cosiddette Quattro province, la longobarda Bobbio e l’area piacentina circostante per rimanere al Nord delle Terre alte. È la memoria di questi testimoni, da rintracciare spesso a fatica, che ci permette di riconfigurare le aree e le direttrici di un “lavoro” spesso in movimento, molto di più di quanto si pensi, al di là degli astratti confini delle carte politiche, dei domini signorili che si sono succeduti nel corso del tempo, delle amministrazioni stato-nazionali.

È questo mondo parallelo, in larga parte invisibile, che va interrogato lungo tutte le possibili declinazioni della memoria così da ridare forma alla vita dei gruppi e delle comunità attraversate, per meglio dire “segnate” da quei territori lavorati, nel corso della storia, dalle generazioni che si sono succedute e che quei territori se li portano dentro (territori memori si potrebbero definire). E secondo un itinerario “à rebours” che, muovendo dalle impronte rimaste incorporate nel territorio, ne restituisca la memoria profonda, ponendo domande (meglio riempiendo di dubbi) a chi, nel presente, li osserva. Brusìo, “disturbo”  di sottofondo, storie e memorie lontane in cui stentiamo a “riconoscerci” – così risaltano sul piano sfalsato del divenire – ma che invece danno un senso ai luoghi (per altro in continuo movimento) sulla linea accidentata del tempo: dove ciò che oggi ci appare “eccezionale”, esotico, e non meno “marginale” (i mercanti di capelli sulle Alpi o i mulattieri dell’Appennino) era “normale”, per ricorrere al repertorio sperimentale dell’antropologia di fine secolo. Territorio dunque anzitutto come territorio memore.

Narbona

Narbona (prov. Cuneo)

 Memoria per tornare

Ma che cosa significa tornare (o restare)? Non si tratta di un movimento fermo o all’Indietro ma anzitutto è un’operazione mentale, culturale, sperimentale orientata in Avanti a cui  è urgente educarsi. Ritorno vuol dire allora richiamarsi alla memoria dei territori perché è la memoria ciò che dà senso ai territori secondo uno sviluppo coerente (ecco la vocazione dei territori)  e secondo gli stili  di vita locali  scavati dalle comunità viventi nella storia dei luoghi. La memoria dei luoghi, tanto più di quelli in sofferenza, è fatta, principalmente, da ciò che costituisce il sapere e l’esperienza condivisa, incorporata (talvolta “marchiata nella carne”): esperienza muta del mondo che in modo quasi spontaneo fa del corpo una sorta di promemoria universale.

E di questa esperienza  conserva l’impronta indelebile fino a fare del territorio il tessuto connettivo fra i luoghi la memoria e l’identità  stessa: vale a dire la comunità. Parliamo di una memoria profonda, di segno antropologico (la deep memory di Joel Candau) da interpretarsi non in termini di semplice  conservazione del passato o  peggio ancora di presunte nature originarie che non sono date ma, a tutti gli effetti, come investimento identitario sul futuro. È una memoria creativa (nella lezione di Pietro Clemente) quella che dalle comunità o dalle neocomunità va esercitata nel presente  contro l’omologazione del globale. Dove anche la stessa parola identità non è predeterminata dal tempo trascorso, consegnata al passato ma è una sfida, una posta in gioco, che si gioca ogni volta. A inseguire quei mondi interrotti dell’esperienza antica dell’abitare e del lavoro rimettendo al centro proprio quelle aree cadute ai margini dello sviluppo, le periferie del locale. Oggi che sono tornate improvvisamente visibili nel ridisegno territoriale in corso – segnato com’é dallo svuotamento del modello fordista, con i suoi relitti di fabbriche ormai in macerie depositate a terra. Al punto di fare  proprio di quei “troppo vuoti”(in opposizione ai “troppo pieni” delle periferie urbane in declino e delle coste) luoghi aperti a un futuro possibile, sia pur necessariamente ripensato.

Per qualificare il senso oggi dell’operazione del Ritorno (e di una sorta di memoria creativa) mi affido anche al linguaggio un po’ eretico dell’antropologia dell’innovazione di Jean Pierre Olivier de Sardan attenta alle continuità e insieme ai cambiamenti, alle rotture. E dove innovazione vuol dire sia apportare conoscenze nuove sia organizzare in modo diverso vecchie conoscenze (è il caso, in particolare, delle innovazioni in campo agropastorale e delle recenti formule di Ritorno ai terreni abbandonati) con la consapevolezza che il futuro è un’ibridazione fra culture che hanno a che fare non solo con saper tecnici ma più complessivi processi di ordine sociale.

Ecco che rialfabetizzare il territorio attraverso la memoria – operazione preliminare – non é un gioco astratto ma una propedeutica essenziale ai processi di “ritorno” che, pur frammentari, sono tuttavia in atto: perché senza esperienze, al momento ancora segmentate – forme di ripopolamento della montagna e del paesaggio rurale caduto ai margini (numerosi sono i giovani agricoltori in campo) – gli stessi termini di cura e tutela del patrimonio paesaggistico (e anche artistico, mi sollecitano gli amici storici dell’arte) finiscono col perdere di significato.

Con quale fine, se non si intende praticare, come negli esempi tardo-identitari della produzione localistica, il culto delle origini? Il fine dichiarato è  quello – in linea con l’intento di imparare a  vedere i luoghi, “riconoscerli” – direi forzando un po’, di  “ripararne” il senso nelle loro sedimentazioni storiche. Lavoro preliminare, a mio vedere, con lo scopo di attrezzare i luoghi, tanto più quelli deboli, caduti ai margini nelle geometrie novecentesche scolpite dal fordismo, a ritrovare, in conclusione, una propria vocazione culturale ed economica così da indicarci – nei processi in atto di ri-territorializzazione – una pedagogia di futuro sostenibile dell’abitare e del produrre.

Paraloup

Paraloup

Un caso concreto di ritorno al futuro. Il modello Paraloup

Non è una scommessa semplice il ritorno, ho imparato, prendendo parte al recupero della borgata alpina  di Paraloup, Valle Stura provincia di Cuneo in totale abbandono. Perché l’abbandono implica in sé il venir meno di un linguaggio proprio – come è avvenuto per l’antica cultura della montagna –, il farsi raccontare dagli altri, dallo sguardo ieri dei cartografi degli Stati nazione, oggi dei turisti o degli investitori, in una formula “il diventare invisibili a se stessi”. Sta già in quella caduta  del senso (ovviamente oltreché nella miseria delle condizioni di vita) la premessa dello spopolamento, dell’abbandono di intere comunità. È in quel frangente anche di ordine mentale, che inizia a disegnarsi la trama sfocata del territorio che va perdendosi. La montagna in primis. Un’esperienza, questa sì condivisa dal Nord al Sud al Centro del Paese: così come é documentata nell’alto Mugello – penso all’inchiesta dei ragazzi della scuola di Barbiana di Don Milani – o  nelle valli cuneesi. A questo proposito mi ha sempre colpito la testimonianza di Tounin Richard, montagna cuneese, area occitana :«Perché ho lasciato il mio paese? Ero ancora bambino quando d’estate vedevo arrivare i turisti con le loro auto, ben vestiti, eleganti. Forse sognavo già di vedermi uno di loro». Un turista di se stesso.

Ritorno è stata la parola chiave di un percorso, culminato nella partecipazione a un esperimento di ricostruzione di un’antica borgata alpina, Paraloup, Valle Stura, nell’ambito dei progetti della Fondazione Nuto Revelli di Cuneo. Ecco che l’esperienza del ritorno  ha implicato in primo luogo un lavoro di riconversione generale del lessico impiegato per raccontare il territorio. Ho verificato così quanto questa memoria in movimento sia ragione di sopravvivenza del senso ultimo dell’abitare: così è stato a Paraloup, luogo simbolo oltre che dell’antica cultura della montagna anche della Resistenza (ha ospitato la prima banda partigiana di Giustizia e Libertà di Duccio Galimberti, Dante Livio Bianco, Nuto Revelli) per le comunità  in sofferenza della Valle Stura in larga parte spopolata e priva di presidi territoriali  (con l’aggravio dell’abolizione delle Comunità montane). In particolare quando nell’ottobre del 2011 gli amministratori della Valle hanno scelto la borgata della Resistenza ora tornata in vita, per richiamare con un grande falò (mettere a fuoco si può dire) il problema drammatico della prossima estinzione dei piccoli comuni, sotto i mille abitanti, in montagna: lì, dove la memoria della Resistenza è veicolo di  elaborazione e salvaguardia dei valori nel tempo. Resistenza, Resistenze: è il messaggio che si intende inviare da Paraloup. Dove il “patrimonio territoriale” (impiego l’espressione di Alberto Magnaghi) di ideali e i valori si intreccia a quello dei saperi e delle buone pratiche della cultura di montagna. Dove i territori e i luoghi, tanto più quelli in sofferenza e deposti, sfidano il senso delle parole che usiamo per raccontarli.

Dialoghi Mediterranei, n.30, marzo 2018
Riferimenti bibliografici
Candau J. (2002), La memoria e l’identità, Ipermedium libri, Napoli.
Clemente P. (2013), Le parole degli altri. Gli antropologi e le storie della vita, Pacini, Pisa.
Carle L. (2013), Dinamiche identitarie. Antropologia storica e territori, Firenze University Press, Firenze.
De Sardan J.P.O. (2008), Antropologia dello sviluppo. Saggio sul cambiamento sociale, Raffaele Cortina, Milano.
Jedlowsky P. (2002), Memoria, esperienza e modernità, Franco Angeli, Milano
Idem (2013), Memorie del futuro. Una ricognizione, in “Studi culturali”, anno X, n. 2 (agosto)
Magnaghi A. (2012), Il progetto sociale. Verso la coscienza di luogo, Bollati-Boringhieri, Torino.
Poli D. (1999), Il cartografo-biografo come attore della rappresentazione dello spazio  in comune in P. Castelnovi, Il senso del paesaggio, Ires, Torino.
Revelli N. (2014), Il mondo dei vinti, Einaudi, Torino.
Teti V. (2017), Quel che resta. L’Italia dei paesi tra abbandoni e ritorni, Donzelli, Roma.
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Antonella Tarpino, editor e saggista ha pubblicato: Sentimenti del passato, La Nuova Italia 1997; Geografie della memoria. Case, rovine, oggetti quotidiani, Einaudi 2008; Spaesati. Luoghi dell’Italia in abbandono tra memoria e futuro, Einaudi 2012; Il paesaggio fragile. L’Italia vista dai margini, Einaudi 2016. È vicepresidente della Fondazione Nuto Revelli e fa parte della Rete dei piccoli paesi.

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