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La lingua araba: un quadro sinottico sulla situazione socio-culturale
Posted By Comitato di Redazione On 1 novembre 2015 @ 00:18 In Cultura,Società | No Comments
di Francesca Morando
Dal momento che il binomio lingua-cultura è un rapporto inscindibile e, come è noto, reciprocamente plasmante per tutti gli idiomi, questa affermazione acquista maggiore forza laddove la lingua non è soltanto lo strumento funzionale alla comunicazione e l’espressione culturale di un popolo ma rappresenta soprattutto il mezzo (sacro) attraverso il quale si esprime una determinata religione. Per questo motivo l’obiettivo del presente contributo è quello di offrire almeno una chiave di lettura sulla lingua araba, per cogliere alcuni fondamentali atteggiamenti culturali, derivanti dal primario veicolo linguistico degli arabofoni (musulmani, cristiani ed ebrei [1], questi ultimi residenti nella ˀumma [2] fino al 1948) (Durand, 1995: 24 n. 42, 18) nei Paesi propriamente arabi [3], nonché in misura minore l’arabo variamente utilizzato dai popoli islamizzati non arabofoni, originari della Turchia e della quasi totalità delle repubbliche centro-asiatiche dell’ex URSS; dell’Iran, Afghanistan e Tagikistan; dell’India, Pakistan e Bangladesh; di Indonesia, Malesia, Birmania e Filippine e dell’Africa sub-sahariana, che giungono a superare abbondantemente i quattrocento [4] milioni di madrelingua e oltre il miliardo di praticanti e dunque potenzialmente parlanti arabo come lingua seconda o lingua straniera (L2/LS).
Per ragioni storiche e culturali Anghelescu (1993: 6) definisce gli arabi come «i detentori della lingua araba», dal momento che questa ha rappresentato a lungo il fulcro delle tradizioni poetiche beduine, mutuate successivamente come strumento espressivo della nuova cultura (arabo-)islamica, convogliando in questo modo nella lingua anche il mezzo sacro per la divulgazione del messaggio divino. Non a caso il Corano viene concepito, in ambito islamico, proprio come modello inimitabile di perfezione poetico-letteraria ma anche come elemento fondante dell’escatologia, dei gesti e dei rituali della quotidianità dei musulmani, nonché mezzo accentratore della lingua e della cultura arabo-islamica.
L’arabo colloquiale, l’arabo aulico, l’arabo “mediano” o “medio” e l’arabo africano
La lingua araba si suddivide sostanzialmente in lingua letteraria moderna (MSA), legata ai registri “alti” e nelle varietà quotidiane connesse alla zona di appartenenza, variamente influenzate da lingue di sostrato e/o da altre lingue (di parastrato o derivanti dall’influenza coloniale).
Per potere parlare di sociolinguistica bisogna prendere prima in considerazione alcuni fondamentali parametri di variazione, abbastanza veritieri per tutto il mondo arabo, che sono:
Il madrelingua arabo, in realtà, apprende sin dall’infanzia la varietà linguistica dialettale della propria area di origine, vivendo dunque una condizione di dialettofonia, che però muta presto in diglossia. L’arabo liturgico e l’arabo letterario vengono imparati, infatti, successivamente al proprio dialetto, anche grazie a programmi educativi televisivi, in arabo colto, ideati appositamente per i più piccoli. Pertanto l’arabofono (musulmano) si trova ad utilizzare varietà comunicative “alte”:
Il madrelingua utilizza, invece, le varietà comunicative “basse” quando:
Al di fuori della propria zona di origine, il parlante può trovarsi, in svariati contesti, nella condizione di dover parlare con altri madrelingua, portatori di altrettante varietà dialettali, anche distanti dalla propria. Quindi, sorge spontaneo chiedersi come gli arabi riescano a superare tutte queste insidie comunicative che la loro stessa lingua pone. Gli stratagemmi che essi adottano possono risultare sorprendentemente variegati. Ad eccezione dei letterati abituati per professione ad utilizzare l’arabo moderno letterario (Modern Standard Arabic), si ricorre spesso al compromesso linguistico (chiamato arabo “mediano” o “medio”, al-carabiyya al-wusṭā), ossia un atto individuale, momentaneo e fortemente condizionato dalla conoscenza del MSA e dalla capacità di “dedialettizzare” la propria parlata, mantenendone però le basi sintattiche e grammaticali [6]. Il medio arabo si caratterizza quindi per l’assenza delle vocali brevi finali (indicanti i casi) e la tendenza all’uso di parole ed espressioni echeggianti il MSA e la fuṣḥà (lingua “eloquentissima”, riferita alla poesia preislamica e, successivamente, al Corano, inteso peraltro come modello inimitabile di perfezione poetica e letteraria). Inoltre, come ricorda Mion (2007: 123, 130) se tra due parlanti uno attinge da un dialetto rurale (o comunque di un centro urbano meno prestigioso della capitale), questo tenderà ad imitare la parlata utilizzata dal suo interlocutore, che adotterà un dialetto avvertito come più “prestigioso”.
Chiaramente l’arabo mediano per essere davvero mutualmente comprensibile deve (o almeno dovrebbe) essere scevro di tratti fortemente caratterizzanti la propria parlata, quali:
È interessante sottolineare che la diffusione dell’arabo in alcuni Paesi africani è in fase di costruzione: per esempio in Sudan, in Ciad, in Nigeria e in Camerun, le varietà locali hanno in comune il fatto di risentire in particolar modo dell’egiziano e delle lingue subsahariane a loro vicine. Altri paesi come la Somalia e il Gibuti, invece, riconoscono la lingua araba come una delle lingue ufficiali, sebbene attualmente soltanto il Ciad abbia legittimato l’arabo, significativamente nella varietà “ciadiana” (Durand, 2009: 211), come una delle lingue ufficiali del Paese.
Paradossi linguistici
Quanto accennato rappresenta sempli- cemente una schematizzazione che ha l’obiettivo di descrivere uno spaccato verosimile della situazione linguistica legata all’immediatezza dell’oralità e della lingua madre (L1) e quindi della sfera affettiva del parlante. Quanto si sta per delineare riguarda invece il campo espressivo dell’ufficialità, la quale, pur appartenendo a un registro diverso da quello orale quotidiano, tocca ugualmente e in profondità la sensibilità dell’arabo musulmano, dal momento che tale registro, nella varietà fuṣḥà, è la lingua della tradizione culturale, specialmente quella rimandante al Corano, che è rimasta sostanzialmente immutata.
Per quasi 1400 anni, infatti, l’arabo ha veicolato i concetti propri della cultura araba e dell’Islam e, grazie alla sua struttura caratteristica, è stato possibile adattare parole e linguaggi non arabi ai suoi schemi linguistici, tanto in lingua colta che nelle varietà vernacolari, che si basano fondamentalmente sulle derivazioni del triconsonantismo (e in misura minore sul quadriconsonantismo), le quali esprimono a priori dei significati, legati alla forma del modello della parola stessa.
Sembra quindi appropriato definire il sentimento di legame alla propria lingua come un profondo “timore reverenziale”, rivolto a un ideale linguistico inimitabile, distante dal parlato comune, verso il quale ogni “devianza” è considerata esecrabile. Infatti, Nadia Anghelescu (1993:131) riporta:
E continua (1993:145) riportando (forse con vena un po’ folkloristica nelle sue rilevazioni):
Sottolineando (1993: 30) però che il motivo dell’evocazione della bellezza della lingua araba risieda nel ritmo, nella musicalità e nella ripetitività dei suoni, invece della gradevolezza del messaggio poetico in sé. Pertanto dal periodo arcaico a quello contemporaneo, Hitti (1958), rilevato da Anghelescu (1993:10), afferma che:
La tradizione vuole che il futuro califfo cUmar ascoltando la sūra Ṭāˀ-hāˀ fosse colto dalla stessa “magia”[8], così che il Corano «penetrò nella sua anima» (Anghelescu 1993: 20). Ancora oggi abbiamo appurato che anche la lingua quotidiana è traboccante di espressioni tratte dal Corano, in quanto:
Ciò nonostante Anghelescu (1993: 9) sottolinea la citazione di Polk, W. R. (1980), secondo il quale la lingua non è una forma d’arte, bensì l’arte degli arabi per eccellenza. Risulta chiaro, quindi, come la potenza e la perfezione della fuṣḥà “devono” essere celebrate, in tutti i modi possibili, come per esempio anche attraverso la calligrafia, arte sacra per i mistici musulmani, nonché uno dei pochi elementi decorativi della produzione artistica islamica.
Questa situazione linguistica multi- sfaccettata si ripercuote anche nell’apprendimento sia per i nativi che per gli apprendenti dell’arabo e nel corretto impiego dei registri linguistici, dal momento che un madrelingua dovrebbe possedere piena competenza dell’arabo colto e del proprio dialetto e un arabista parimenti dovrebbe padroneggiare entrambi gli aspetti diglottici. Tuttavia, non di rado tale controllo linguistico, esercitato sia da un parlante nativo che da un apprendente, non avviene (sebbene non manchino ovvie e confortanti eccezioni). Habib Ounali rafforza le conclusioni paradossali che vive il madrelingua arabo (musulmano), concentrando i propri studi sui frequentanti l’Università di Tunisi, riportato da Anghelescu (1993: 140):
La situazione in qualche modo risulta analoga anche in Egitto, dove Nada Tomiche (in Anghelescu, 1993: 141) sostiene che:
Riguardo al corretto uso dell’arabo a seconda dei diversi contesti Muḥammad Kāmil Ḥasan (in Anghelescu, 1993: 139) afferma con parole forti che:
Per quanto riguarda l’apprendimento rivolto a parlanti non nativi, è indicativo riscontrare una certa insofferenza verso i metodi tradizionali, lamentati per esempio da Hana Hirzalla (2011), che suggerisce ai docenti studi di linguistica e di acquisizione di una lingua seconda; la didattica comparativa e la formazione degli insegnanti. Va sottolineata anche la grave carenza di una certificazione normata come quella esistente per le lingue europee oltre a quelle certificanti per esempio il russo, il giapponese, il cinese e il coreano. A maggior ragione che l’arabo rappresenta anche una delle sei lingue ufficiali dell’ONU, accanto all’inglese, al francese, allo spagnolo, al russo e al cinese e pertanto un’individuazione precisa del grado di conoscenza diventa indispensabile, proprio per l’applicazione di tale lingua, per esempio, nei diversi contesti lavorativi.
La cultura
In ultima analisi ma non trascurabile per importanza risulta anche il ruolo della cultura, veicolata dalla lingua, che deriva dalla notevole estensione spazio-temporale e culturale dell’Islam, con stratificazioni locali, che vanno rilevate e non certo appiattite e che inducono a studi approfonditi.
Come precedentemente accennato il binomio lingua-cultura rappresenta la base per la formazione dell’identità, che nel caso delle società islamiche risulta essere un processo «autocomprensivo», come afferma Abdel-Karim (2007: 3), dal momento che per costui l’Islam è un «progetto onnicomprensivo, sociale religioso, politico e culturale» che si manifesta in maniera imprescindibile «come religione-cultura-politica».
Pertanto incentrandosi esclusivamente sulla lingua, è indicativo rilevare che i beduini riconoscevano nella poesia la propria forma artistica, per quanto fosse un patrimonio quasi esclusivamente orale, a differenza del Corano, il quale, risultando anche il primo libro scritto, caldeggia invece l’uso della grafia e lo stesso viene definito come “la Madre della Scrittura” (Corano III.7). Dalle Grandi Conquiste [9], intraprese per la diffusione del messaggio coranico, aumenta anche esponenzialmente la proliferazione dei libri, che registrano lo scibile arabo-islamico (integrando anche il proprio sapere con le traduzioni in arabo della vasta produzione scientifica dei popoli confinanti), con particolare attenzione alle scienze, interpretate come prove tangibili della potenza creatrice di Dio (fra le quali straordinaria importanza riveste per esempio l’astronomia, sin dal periodo preislamico, successivamente “incanalata” per fini religiosi).
Di conseguenza Atighetchi (2009:232) scrive che:
Da quanto delineato fin qui emerge la dimostrazione che la lingua araba, essendo rilevata come lingua sacra (oltre che fortemente identitaria) dai musulmani, assume in partenza una significativa specificità culturale, che, per esempio, noi italiani non diamo alla nostra lingua, fra l’altro portatrice anch’essa di un enorme repertorio poetico-letterario, grandemente apprezzato nel resto del mondo (basti pensare al Petrarchismo o ai copiosissimi studi su Dante). Tanto più che l’italiano rappresenta la lingua sacra (insieme al latino) e veicolare all’interno della Chiesa, ma volendo fare una comparazione con la situazione socio-culturale dell’arabo emergono delle profonde differenze sostanziali, che meriterebbero ulteriori approfondimenti.
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