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La “grande trasformazione” tra storia e memoria

copertinadi Santo Lombino [*]

«La bellezza è degli sconfitti. Il futuro non è dei vincitori, è di chi ha la capacità di vivere. E chi ha la capacità di vivere, di essere totalmente se stesso, è inevitabilmente sconfitto. È qui il seme che crea e si traduce in futuro, vita: una sconfitta di straordinaria bellezza. Le facce degli sconfitti, le loro voci, continuano ad esistere. Sono i vincitori che non esisteranno più. Questa è il grande splendore dell’esistenza». Così Franco Scaldati.

Circa sessanta anni fa entrava definitivamente in crisi la «civiltà contadina», segnata da squilibrati rapporti sociali ed economici, da un (apparente) secolare immobilismo, da una visione del mondo «conservatrice», dalla forte presenza di rapporti simbolici tra le persone (ma anche tra queste, gli animali e le cose), dal ricorso costante a forme arcaiche di religiosità, che aveva caratterizzato, con i suoi aspetti contraddittori ed ambivalenti, le comunità della Sicilia «profonda» o «interna». Crisi dovuta all’irrompere di nuovi modelli produttivi, da nuovi fenomeni migratori di massa, dall’affermazione di modelli consumistici veicolati da pervasivi mezzi di comunicazione, che hanno sì unificato linguisticamente il Bel paese, ma ne hanno mutato le caratteristiche culturali e antropologiche. Comunque la si valuti, si è trattato di una «grande trasformazione», quasi paragonabile al passaggio dalle società nomadi a quelle sedentarie al sorgere dell’età neolitica, una frattura epocale che ha cambiato il volto dei paesi e delle città, delle campagne e del paesaggio.

1Nel 1962, in pieno «miracolo economico», Luciano Bianciardi ne La vita agra descriveva sarcasticamente e con grande capacità profetica la società dei consumi che portava anche in Italia oggetti, strumenti, modi di vita e di produzione sperimentati in altri Paesi dell’Occidente capitalistico: «È aumentata la produzione lorda e netta, il reddito nazionale cumulativo e pro capite, l’occupazione assoluta e relativa, il numero delle auto in circolazione e degli elettrodomestici in funzione… il consumo del pollame, il tasso di sconto, l’età media, la statura media, la produttività media… Tutto quello che c’è di medio è aumentato, dicono contenti… Faranno insorgere bisogni mai sentiti prima. Chi non ha l’automobile l’avrà e poi ne daremo due per famiglia, e poi una a testa, daremo anche un televisore a ciascuno, due televisori, due frigoriferi, due lavatrici automatiche. A tutti, purché tutti lavorino, purché siano pronti a scarpinare, a fare polvere, a pestare i piedi, a tafanarsi l’un con l’altro dalla mattina alla sera».

In pochi anni molte parti d’Italia e d’Europa passavano da una società fondata sul lavoro nelle campagne e nelle botteghe artigiane, su rapporti di solidarietà e reciproco aiuto, a una dominata dall’industria, dal profitto e dall’individualismo di massa. «La giornata dell’uomo contemporaneo ‒ scriveva forse con un eccesso di pessimismo Giorgio Agamben negli stessi anni in cui Pier Paolo Pasolini lanciava l’allarme sulla cancellazione della società “rurale” dai tratti spontanei e incontaminati ‒ non contiene quasi più nulla che sia ancora traducibile in esperienza. L’uomo moderno torna a casa alla sera sfinito da una farragine di eventi ‒ divertenti o noiosi, insoliti o comuni, atroci o piacevoli ‒ nessuno dei quali è però diventato esperienza».

2In questi ultimi anni, libri come Millenovecento. Storie di siciliani, a cura di Alessia Porto, Povero, onesto e gentiluomo di Antonino Sbirziola, operaio di Butera (Caltanissetta), emigrato prima a Genova e poi in Australia, Finalmente le api mangiarono il miele. Autobiografia di un siciliano che non si rassegna di Giovanni Lo Dico, bracciante agricolo di Misilmeri (Palermo), Pane amaro di Salvatore Nicosia, docente all’Università degli Studi di Palermo, Graffiti di ombre. Portella della memoria di Angelo Gambino, scrittore di Portella di Mare ancora in provincia di Palermo, seppur diversi tra loro, ci aiutano a capire, spesso grazie alla «presa di parola» dei protagonisti, quanto di sconvolgente è accaduto a metà del XX secolo nelle nostre province, o meglio, nei cento paesi dell’Isola.

Le storie raccolte da Piera Bivona nel libro Cunti della memoria ci fanno capire che anche la società di Bolognetta, comune dell’hinterland di Palermo ha subìto tali cambiamenti. In occasione di una mostra etnoantropologica sulla vita ed il lavoro contadino in quel paese, organizzata nel 1983 dal “Centro iniziative culturali” appena nato, lo studioso Salvatore D’Onofrio osservava: «Al crollo delle tradizionali attività contadine e artigiane a Bolognetta, come in altri paesi dell’agro palermitano, si sono sostituiti… la nuova miseria dell’assistenza di stato e il lavoro… cresciuto a dismisura all’ombra della città terziaria. Piante finte e mobili senza legno, accessori inutili e detersivi che lavano sempre più bianco hanno trasformato in brevissimo tempo le case dei poveri in punti terminali di quella civiltà dei consumi che nega ogni cittadinanza al diverso e alla memoria del passato». Certo, c’è chi prestando orecchio ai racconti provenienti dal «mondo perduto», come lo chiamava, tra gli altri, il regista Vittorio De Seta, si sente immerso in «una atmosfera di piacevole tensione emotiva» e prova un sentimento di «romantica nostalgia del passato» (La Tona), ma è chiaro che difficilmente questo sentimento può provarlo chi di tale mondo ha portato la croce dello sfruttamento e dell’emarginazione o chi, come chi scrive, ha visto negli anni ’60 del Novecento contadini a cinquant’anni già piegati in due dall’uso quotidiano della zappa (e dello zappuni) nel lavoro dei campi. Ha ragione quindi Ignazio E. Buttitta quando, nel commentare la pubblicazione della raccolta di storie orali Millenovecento sopra citata, esprime l’auspicio che, grazie alle narrazioni raccolte nel libro si possa e si debba procedere allo smantellamento della «pervasiva retorica del bel tempo che fu, della sana e naturale vita dei contadini, dei pastori, dei pescatori antichi». Impegnarsi nella conoscenza del passato dell’umanità non significa perciò, secondo Antonino Cusumano, «invocarlo nostalgicamente né tantomeno illudersi di restaurarlo. Significa invece comprendere meglio la società in cui viviamo, ciò che va difeso e conservato, e ciò che va rovesciato e distrutto». Punto di vista che mi pare assai vicino a quello dello scrittore-attore Marco Paolini, che utilizzando l’invenzione di un verbo caro al poeta Andrea Zanzotto, ha scritto: «La memoria mi serve ancora, la nostalgia non più, l’ironia è preziosa, l’epica può essere utile, ma serve immaginazione, per paesaggire, per imparare a leggere in quello che ci sta intorno i segni di ciò che è stato e di quel che sta arrivando».

A distanza di diversi decenni dal passaggio epocale alla società dei consumi possiamo vedere meglio prospetticamente quanto è avvenuto, anche alla luce del venir meno della spinta propulsiva di quell’idea che nei due secoli precedenti aveva dominato il mondo occidentale: l’idea di un progresso lineare illimitato, di quelle che D’Azeglio (approvando) e Leopardi (disapprovando) chiamavano «le magnifiche sorti e progressive» dell’umano genere. Dopo i «trenta gloriosi» anni del secondo dopoguerra e gli ultimi decenni del XX secolo, «l’avvenire è diventato estremamente incerto», sostiene lo storico delle Annales Jacques Revel, «il presente praticamente indecifrabile, e quindi anche il passato ha cambiato statuto», diventando non più punto di confronto e di misura, ma quasi un «rifugio» per un’umanità delusa e privata dei suoi sogni.

In questo tempo di passaggio, ecco venire alla ribalta la marea dei riferimenti alle radici vere o presunte della nostra civiltà, con l’uso di una «immagine ingannevole ed escludente», una infestante metafora botanica che accomuna tradizioni, identità e memoria. Bene ha fatto Maurizio Bettini, classicista e scrittore, a mettere in chiaro nel suo saggio Contro le radici la pericolosità di tale «miscela esplosiva», sostenendo a ragione che «la tradizione non è qualcosa che si eredita per via genetica – o che la memoria trasmette geneticamente da una generazione all’altra – ma la si costruisce e la si insegna passo dopo passo». E porta sensate argomentazioni a sostegno dell’affermazione che la tradizione «non costituisce un viluppo verticale di radici – o di una discesa da presunte sommità – quanto un insieme relativo e alternativo di modi di vita… non è qualcosa che viene dalla terra, che si mangia o si respira, e neppure qualcosa che discende verso di noi da determinate alture». Queste considerazioni non escludono, ovviamente, che tra le persone ed i luoghi che esse abitano si instauri un particolare rapporto di natura, per così dire, sentimentale-ecologico per cui «qualcosa ci ricorda che somigliamo a qualcuno, che siamo chiamati per nome e riconosciuti perché nipoti, figli o fratelli di persona conosciuta» (Cusumano).

A partire dall’osservazione che nella storia umana esistono fenomeni di diversa durata e nulla che appartenga al nostro sentire scompare all’improvviso e in modo definitivo, ma lascia delle tracce nella memoria e nella mentalità delle persone, ci chiediamo quali tracce siano rimaste nella odierna società della Weltanschauung, dei rapporti umani, dei valori dei contadini, delle casalinghe, dei braccianti, delle artigiane e degli artigiani appartenuti al «mondo perduto».

La raccolta di storie personali Cunti della memoria nasce dal tentativo di registrare i segni di esperienza lasciati nella vita individuale e familiare di donne e uomini che nel mondo tradizionale sono nati e hanno condotto la maggior parte della loro vita, arrivando in tempo a vederne la scomparsa, avendo avuto la ventura di vivere a cavallo tra due «mondi». Molti di loro raccontano nei loro ultimi anni della loro esistenza le vicende della parte iniziale di essa, «selezionate» da loro stessi come le più significative per sé e (forse) per gli altri. Quelle dell’infanzia o della gioventù, ormai distanti nel tempo, conservate per decenni nella propria memoria e qualche volta trasmesse a infastiditi nipoti. «Senza il ricordo – ha scritto Tiziana Bartolini sulla rivista Noidonne – non esiste la consapevolezza di sé in un dimensione spazio-temporale. La memoria ci permette di accedere alla compiutezza del nostro essere, che è gioia e dolore, buio e luce, bene e male. È un tutto immateriale eppure colmo di quotidiana concretezza». Lo storico Alessandro Portelli ha cercato di mettere a fuoco i diversi significati di ricordare. Questo verbo evoca infatti per lui «richiamare al cuore, ai sentimenti, il valore di quello che siamo stati e quello che vogliamo diventare»; ma nello stesso tempo «rammentare, riportarlo alla mente, all’intelligenza»; e infine «rimembrare, riportarlo al corpo, ai sensi, rimettere insieme quello che l’alienazione quotidiana e la manipolazione mediatica hanno frammentato».

A questo proposito, sono due le tipologie di memoria individuate dal grande sociologo Maurice Halbwachs, quella individuale e quella collettiva. Il primo tipo di ricordi si raggruppa attorno o dentro «una persona definita, che li considera dal proprio punto di vista». La memoria collettiva, a cui «non siamo ancora abituati a pensare, «ha tuttavia una vita propria» e «avvolge le memorie individuali, ma non si confonde con loro». Essa – scrive lo studioso francese morto a Buchenwald – «si evolve secondo leggi proprie, e se alcuni ricordi individuali a volte vi entrano, subiscono delle modificazioni legate al fatto che si ritrovano collocati in un insieme che non corrisponde più a una coscienza individuale».

3A sua volta, Anna Rossi Doria ha esaminato due usi diversi e contrapposti della memoria che troviamo nella realtà contemporanea. Essa da un lato può essere adoperata come strumento di studiata pianificazione di «politiche dell’identità», che escludono e separano gli «altri» da «noi», fino a produrre quei fondamentalismi che hanno portato a terribili guerre etniche: si tratta quindi di un uso molto pericoloso e dannoso per l’umanità. Dall’altro lato la memoria può essere strumento di crescita della coscienza civile nel presente: un uso che favorisce i legami sociali, la comprensione e l’integrazione, la solidarietà tra generazioni e tra popoli.

Nelle testimonianze raccolte si intrecciano la memoria individuale, presente nel soggetto narrante, con la memoria collettiva, con la presenza degli amici, dei parenti, della comunità che, anche se non prende la parola, osserva in silenzio, approva o disapprova le scelte di chi è (o si avverte) come protagonista. Nella comunità umana, infatti, noi siamo insieme agli altri, e costruire la memoria vuol dire stabilire la connessione tra l’esistenza del singolo e il tessuto collettivo dei processi storici. La memoria quindi è intreccio di esperienza e narrazione e viene a costituire la bussola per l’orientamento non solo nel passato, ma anche nel futuro, per dare ai «nuovi arrivati» la possibilità di una collocazione all’interno della comunità. Nella società tradizionale erano i vecchi che con le loro testimonianze orali davano la mappa in mano ai giovani: raccontare la loro esperienza significava costruire il senso della storia nei giovani, che imparavano così ad ascoltare le voci della storia e a sentirsi parte di una continuità pur nelle differenze.

Spesso i racconti dei testimoni sono stati visti in opposizione al metodico lavoro degli storici, considerato autentico e credibile di per sé. Le narrazioni «in presa diretta» (anche se a volte fatte dopo tanti anni) sono indubbiamente più coinvolgenti e più fondate sulle emozioni – e più capaci di suscitarle – di quanto lo siano o possano essere le fredde analisi storiografiche, in cui vengono esaminate e passate al faticoso vaglio della critica tutte le fonti significative. «Le storie delle persone raccontano molto più dei libri e delle ricostruzioni politiche che abbiamo letto finora, ha scritto per esempio la giornalista Barbara Palombelli. E lo scrittore Vincenzo Cerami a sua volta: «Da sola la storia non racconta niente, è testimonianza morta». Queste opinioni ci fanno capire come sia facile cadere nella trappola dell’«età del testimone», come sia necessario distinguere la memoria, i ricordi dei sopravvissuti e dei testimoni oculari da un lato, e la ricerca organizzata degli storici dall’altro. Se ne è molto parlato a proposito del genocidio che ha colpito ebrei, dissidenti politici, zingari, omosessuali, malati di mente ad opera del nazifascismo. Ma, ferme restando le enormi differenze tra i due fenomeni, ne potremmo parlare anche a proposito del «genocidio» che ha messo frettolosamente in archivio tutto ciò che riguarda la cultura contadina. Concependo la storia come «la conoscenza del passato degli uomini», chi lavora a ricostruirne la trama cerca di avvicinarsi, pur sapendo che è solo una meta ideale, ad una visione scientificamente fondata, anche se mai definitiva, dei fatti e dei fenomeni, visione che la comunità degli studiosi può verificare o confutare, arricchire o demolire.

4Quindi è utile ed indispensabile la documentazione che i potenti del passato, gli intellettuali, gli esperti, i giornalisti, ci hanno lasciato più o meno intenzionalmente, ma è ugualmente necessario ed utile l’uso delle fonti orali, delle testimonianze dei «senzastoria», cioè di chi non detiene gli strumenti del potere, ma è spesso vittima o oggetto delle scelte dei potenti. «Più che in opposizione, i due modi di procedere sono, ancora una volta, complementari», ha scritto Tzvetan Todorov in Memoria del male, tentazione del bene. A sua volta, Zygmunt Bauman osserva che «attraverso la memoria, la storia continua a vivere nelle speranze, negli scopi e nelle aspettative di donne e uomini che vogliono dare un senso alla vita, trovare ordine nel caos, fornire soluzioni note a problemi ignoti. La storia ricordata è la materia di cui sono fatte tali speranze, obiettivi e conoscenze; a loro volta, questi sono i depositi in cui le immagini del passato sono salvate dall’oblio».

Affermazione condivisibile, a patto che si tenga presente la difficoltà che si può incontrare nel raggiungere e mantenere, come ha scritto Enzo Traverso, «il giusto equilibrio tra empatia e distanza, tra riconoscimento della singolarità e messa in prospettiva generale».

È vero d’altro canto che queste testimonianze, che non sono da sole la storia, ma sono «un materiale per costruirla» (Jalla), «un’enorme massa di storia poco cosciente di se stessa» (Braudel), hanno faticato a ricevere un adeguato riconoscimento. «La nostra cultura – sosteneva infatti Annabella Rossi, nel 1970, presentando le Lettere da una tarantata – non aveva considerato affatto tali documenti in quanto la realtà subalterna – cioè il mondo dei rapporti sociali vissuti dalle classi subalterne – veniva occultata in maniera totale o veniva ‘mascherata’ attraverso una serie di meccanismi, aventi chiara funzione di copertura e che possono essere semplificati… con il nome di pittoresco folklorico».

5Solo con l’opera coraggiosa di alcuni studiosi le cose sono cambiate nella seconda metà del Novecento, quando, continua Rossi, lentamente poterono emergere «voci sgradevoli, […] voci che costituiscono un preciso atto di accusa verso un sistema sociale oggettivamente iniquo che vuol far credere che l’emigrazione coatta, la sporadica industrializzazione, la rete stradale e la scuola media unificata e così via abbiano risolto tutti i problemi dell’Italia depressa». La fine parziale dei lunghi silenzi che hanno oscurato la presenza dei ceti popolari nelle vicende storiche arrivò poi con le opere di Rocco Scotellaro, gli studi e le inchieste di Ernesto de Martino, Franco Alasia, Goffredo Fofi, Danilo Montaldi, Carlo Ginzburg, Danilo Dolci, Nuto Revelli. Esse finalmente aiutavano a capire che, come ha scritto Carmelo Fascella, «c’è un’altra storia, oltre a quella riprodotta più o meno fedelmente nelle pagine dei libri scolastici, ce ne sono altre: sono le storie quotidiane di piccoli e grandi luoghi e della gente che li vive, delle relazioni sociali tra queste persone, del loro lavoro, del loro modo di vivere e di raccontare la propria vita». Sulla scia di queste lezioni, il lavoro di Piera Bivona è il lavoro di chi, con grande rispetto e con grande umiltà, ma anche con grande e affettuosa partecipazione, vuole prestare orecchio alle voci di chi non ha avuto un momento pubblico per poter socializzare la propria esperienza di vita. Eccola col quaderno e la penna sedersi accanto a queste persone, donne e uomini che hanno in genere superato i settanta anni, per compiere con loro un viaggio nella memoria. Un particolare viaggio che è di ogni uomo e di ogni donna che giunge alla vecchiaia. Facendo un bilancio e scremando, ci accorgiamo infatti che ciò che resta della vita è un piccolo gruppo di ricordi, affetti, emozioni, cose piccole e grandi che nella memoria trovano spesso un eguale inaspettato o inspiegato risalto.

6Ci vuole pazienza per fare questo viaggio insieme, per non deformare il pensiero dei testimoni, per non imbellettare la crudele o semplice realtà dei fatti riportati alla memoria. E pazienza ha la stessa radice della parola «passione» e di «simpatia», cioè, letteralmente, la capacità di sentire in modo intuitivo quanto gli interlocutori vogliono narrare di sé. Interlocutori pieni di fiducia verso Piera, fiducia nel suo impegno a farsi tramite della loro «presa di parola», nella sua capacità di fedele «restituzione al mondo» dei loro frammenti di vita, e quindi nel suo amore per la verità.

Cosa vogliono fare raccontandosi e raccontando (al)la propria comunità queste donne e questi uomini di un piccolo centro della Sicilia? Come gli abitanti della Lucania negli anni ’50 del secolo scorso, essi, come ha scritto Ernesto de Martino, «vogliono entrare nella storia… anche nel senso che fin da oggi… le loro storie personali cessino di consumarsi privatamente… Essi vogliono che queste giornate… siano notificate al mondo, acquistino carattere pubblico… e formino così tradizione e storia».

Dialoghi Mediterranei, n. 36, marzo 2019
[*] Il testo rielabora la Prefazione al volume di P. Bivona (a cura di), Cunti della memoria, Istituto Poligrafico Europeo, Palermo 2017.
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Santo Lombino si è laureato in Filosofia presso l’Università degli Studi di Palermo con una tesi sul pensiero di Carlo Pisacane. Ha partecipato ai moti operai e studenteschi degli anni ’70, ha lavorato nelle Ferrovie dello Stato e insegnato materie letterarie, storia e filosofia in provincia di Milano e in Sicilia. Si occupa di scritture autobiografiche, storia dell’emigrazione, didattica della storia. Ha curato la pubblicazione di memorie e diari di diversi autori popolari (Bordonaro, Prudenza, Di Sclafani e Orobello, Basso e Garofalo, Galante, Lo Dico). È autore di diverse pubblicazioni, tra le più recentio si segnalano: Una lunga passione civile (con G. Nalli, 2004), Cinque generazioni. 1882-2007, il cammino di una comunità (2007), Il grano, l’ulivo e l’ogliastro (2015) e Un paese al crocevia. Storia di Bolognetta (2016). È direttore scientifico del “Museo delle Spartenze dell’area di Rocca Busambra” e socio del Centro studi filologici e linguistici siciliani. Ha curato diverse raccolte di saggi, tra cui L’ultimo Risorgimento. Settembre 1866: la rivolta del Sette e Mezzo (2018).
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