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La differenza sta nella ritualità ripetuta

Posted By Comitato di Redazione On 1 settembre 2021 @ 02:05 In Cultura,Letture | No Comments

la-scomparsa-dei-riti-byung-chul-handi Mariano Fresta

Nottetempo è una casa editrice fondata da Roberta Einaudi e Ginevra Bompiani, i cui cognomi rievocano due grandi case editrici che hanno contribuito alla crescita della cultura italiana del secondo Novecento. Nata come editrice di narrativa, ha pubblicato anche saggi riguardanti l’ecologia, la filosofia e il femminismo e ha ripescato autori importanti come Furio Jesi, scomparso ancora giovane quarant’anni fa lasciandoci una vastissima bibliografia che va dalla mitologia, alla germanistica, all’archeologia.

Nel suo catalogo è presente con diverse opere Byung-Chul Han, un filosofo eclettico di origine sudcoreana ma formatosi in Germania dove insegna all’Università delle Arti di Berlino. Il suo ultimo testo, che s’intitola La scomparsa dei riti. Una topologia del presente (2021), affronta una questione piuttosto complessa e cioè cosa differenzia la società che è finita negli ultimi decenni del Novecento da quella attuale della globalizzazione e del mondo digitale, ancora in formazione. In sintesi, l’autore ritiene che l’antica società si basava su istituzioni rituali (le feste relative al ciclo dell’anno e al ciclo della vita, ma anche i gesti quotidiani di cortesia) che, ripetendosi, formavano quel cemento che univa gli uomini in comunità; la quale era essenzialmente una comunità dell’ascolto e dell’appartenenza collettivi, dove ogni membro non cercava di richiamare l’attenzione su sé stesso e non andava alla ricerca delle novità, perché «il nuovo si appiattisce rapidamente diventando routine, è una merce che si consuma e riaccende il bisogno del nuovo». Erano comunità senza comunicazione. Il mondo della globalizzazione, invece, si basa proprio sul mutamento continuo e irrefrenabile, sul consumo non solo delle cose, che sono destinate a finire, ma anche delle emozioni, che non finiscono mai; ha bisogno di un’incessante comunicazione (telefoni cellulari, Internet con i suoi social), di una perpetua chiacchiera vuota che non crea legami, non crea comunità. Si è soli e si cerca di sfuggire alla solitudine e alla depressione strillando più forte, tatuandosi, cercando in tutti i modi di collezionare quanti più follower e like possibili.

A volte si prova qualche difficoltà a seguire il filosofo nella sua critica serrata alla società in cui viviamo e alla cultura su cui si fonda, occorre però riconoscere che, nonostante le nostre perplessità, le sue argomentazioni trovano riscontri nella nostra esperienza quotidiana. C’è anche il pericolo che la nostra lettura privilegi il lato negativo della sua critica, ma egli ha pensato anche a questo; nell’avvertenza, infatti, che premette ai capitoli, Han mette le mani avanti: «Il presente saggio non è animato da uno struggente desiderio di un ritorno ai riti… Senza nostalgia, verrà delineata la genealogia della loro scomparsa, non interpretata tuttavia come un processo di emancipazione».

Un libro da leggere e su cui meditare, dunque. Per seguirlo, però, mi sembra utile separare le sue argomentazioni in due parti: una in cui raggruppare quelle che possono essere accettate senza grandi obiezioni; l’altra in cui riunire tutte quelle problematiche che ci sembrano più difficili da accettare di primo acchito o che paiono prive delle necessarie discussioni per farle diventare chiare e condivisibili da tutti.

Il tema base del primo capitolo (ma poi anche di tutto il libro) è il confronto tra le comunità del passato, che erano comunità senza comunicazioni (ognuna viveva secondo i propri riti), e quella di oggi che si manifesta come una situazione di comunicazione senza comunità. Quella di prima riusciva a fermare il tempo, che diventava come una “casa”, in cui sentirsi a proprio agio, oggi il tempo è un flusso costante che modifica continuamente le situazioni e che ti fa sentire sempre spaesato: questa constatazione mi ha fatto ricordare la lamentela di mia madre che, negli ultimi anni della sua vita, andava ripetendo: «Ho badato ai miei nonni, ho accudito i miei genitori quando ne hanno avuto bisogno; oggi nessuno si prende cura di me, perché i miei figli vivono lontano da me …». Abituata ai ritmi di una società in cui gli avvenimenti si susseguivano con lentezza e in cui la famiglia era ancora compatta, non riusciva a capire i motivi per cui i figli fossero stati costretti ad andar via dalla comunità originaria, abbandonando i genitori e la cultura del paese. Il tempo, in quelle comunità caratterizzate dai riti, effettivamente sembrava non trascorrere, perché periodicamente c’erano occasioni di incontri, di celebrazioni di qualche festa privata o pubblica. Il tempo veramente era della comunità ed era come una casa protettiva. Secondo Han le cause di questa trasformazione sono da attribuire al neo-liberismo, almeno questo è il bersaglio delle sue critiche, che da decenni ormai è accettato senza riserve da parte della politica del mondo occidentale come fondamento di ogni sistema economico; ad esso, quindi, va addossata la responsabilità non tanto della fine dei riti su cui si basavano le società precedenti, quanto quella di aver dato l’avvio ad un modo di vivere la cui caratteristica e la cui essenza sono costituite dal flusso continuo della comunicazione  e, naturalmente, dal consumismo senza limiti. A poco a poco, alla ripetizione periodica delle celebrazioni festive e delle usanze sociali e religiose si sono sostituiti eventi che hanno la caratteristica di rinnovarsi continuamente, facendo gradualmente scomparire i riti che hanno governato le comunità storiche.

Collegato al concetto di comunità è quello di identità e di autenticità personale. Per sapere chi siamo e per essere noi stessi abbiamo bisogno di convivere in una comunità, di confrontarci, senza che nessuno cerchi di primeggiare sugli altri, di distinguersi, perché l’autenticità e la comunità non si devono escludere a vicenda. In una società neo-liberista l’autenticità personale, invece, tende a limitare e ad eliminare la socialità. In nome di una pretesa libertà personale lo sforzo che si fa per affermare la propria individualità finisce con l’accettazione del gioco del neo-liberismo, perché per essere diversi dobbiamo produrre di più e mentre crediamo, comportandoci così, di distinguerci, ci integriamo maggiormente negli anonimi processi di produzione.

Se la nostra lettura si fermasse qui, avremmo qualche perplessità, perché Han svolge la polemica contro il neo-liberismo, che nei suoi discorsi appare senza alcuna materialità, come fosse un puro spirito, che davanti a noi non prende mai consistenza perché omette di spiegare che esso è la filiazione di un particolare sistema economico, ed è un modo più o meno disinvolto di applicare a quasi tutti i regimi politici le leggi dell’economia di mercato.  Più oltre, tuttavia, e cioè a metà del volume, Han arriva a indicare come responsabile di questa situazione il capitalismo, di cui il neoliberismo è la versione più sfrontata. Ma anche qui non abbiamo nessuna esemplificazione di come funzioni questo sistema economico. Si può essere in disaccordo con questa tesi, ma la storia, se si guarda senza lenti ideologiche e se è vero che essa qualcosa dovrebbe insegnarci, ci dice che prima dell’avvento del capitalismo l’esistenza dell’umanità era modellata su ritmi sociali ed economici che non provocavano corse sfrenate verso un futuro infinito ed era regolata da vicende e comportamenti che Han chiama «ripetizioni». È solo con l’avvento del capitalismo e dell’applicazione della teoria del libero mercato che i vincoli di ogni genere non tengono più e i riti si avviano verso la loro lenta ma inevitabile scomparsa.

Marx ed Engels

Berlino, Marx ed Engels

Per dare maggior peso alle sue argomentazioni, Han ricorre ad un pensiero del filosofo danese Kierkegaard: «La speranza è un vestito nuovo fiammante, tutto liscio e inamidato, ma non lo si è mai provato, per cui non si sa come starà o come cascherà. Il ricordo è un vestito smesso che, per quanto bello, però non va perché non entra più. La ripetizione è un vestito indistruttibile che calza giusto e dolcemente, senza stringere né ballare addosso».

Nel capitolo La fine della storia, le critiche arrivano anche a coloro che del capitalismo sono stati gli oppositori più convinti, Marx ed Engels. Secondo Han la colpa dei due rivoluzionari è stata quella di riprendere da Hegel il concetto di lavoro, così ben espresso nella famosa contrapposizione tra padrone e servo, dal quale ricavano la base della loro teoria economica e politica; per i due teorici del socialismo, infatti, il lavoro è l’attività primaria degli uomini, anzi è quella che li distingue dagli altri animali. Ed è sulla divisione sociale del lavoro che si creano le classi, la cui lotta porterà prima o poi ad un cambiamento rivoluzionario del sistema sociale. Non è dato sapere se questa eventuale nuova società avrà i suoi riti, le sue feste, le sue “ripetizioni”. Nel pensiero di Han, tuttavia, è implicita la convinzione che, ponendo al centro di tutto il lavoro e la produzione, qualsiasi tipo di sistema politico non potrà dare esito che a comunità prive di qualsiasi solidarietà sociale e culturale. Per questo motivo alla fine del capitolo dà particolare rilevanza all’opera del genero di Marx, Paul Lafargue, Il diritto all’ozio. Non vi si sofferma molto, ma accoglie integralmente l’invocazione dello scrittore: «Ozio, padre delle arti e delle nobili virtù, sii il balsamo delle angosce umane».

lafargueCi sono critiche anche per il padre della moderna filosofia europea, Immanuel Kant. Mentre i filosofi greci, scrive Han, davano al loro pensiero la caratteristica del gioco e dell’agonismo teatrale, Kant ha escluso qualsiasi atteggiamento ludico dalla speculazione filosofica, prendendo, anche lui, la produttività come punto di partenza del suo pensiero. Per Kant, dice Han, «La voglia di giocare dell’immaginazione va limitata in modo da renderla disponibile alla ragione, alla produzione di conoscenza. Il gioco viene dunque sottomesso al lavoro e alla produzione»; ne è una prova il fatto che Kant condanni la musica perché essa, essendo costituita da suoni che non hanno significato, non produce conoscenza. 

Con ragionevole probabilità, se Kant avesse avuto le nostre esperienze culturali, avrebbe potuto sentire la ricerca di una elegante compostezza classica nella musica di Mozart, l’impeto romantico dei sentimenti nelle sinfonie di Beethoven e il senso della decadenza nelle opere di Mahler; che non sono certo fattori di conoscenza, ma aspetti che aiutano a capire l’atmosfera di certi periodi storici.

Nel capitolo Festa e religione è chiarito meglio il termine “ripetizione” che ricorre spesso nelle argomentazioni di Han. Le “ripetizioni” delle vecchie comunità erano i riti, le cerimonie e le feste, che si celebravano periodicamente nell’arco dell’annata, alcuni dei quali si identificavano con quelli di natura religiosa. Han non distingue tra una religione e l’altra, ma sulle orme di Durkheim parla di una religiosità diffusa in tutte le comunità. Trova nella Bibbia, e specificatamene nella Genesi, una prova delle sue ipotesi, a proposito della necessità di un’esistenza vissuta senza l’ansia del lavoro e della produzione; nel Libro si legge, infatti, che Dio, dopo sei giorni di creazione, nel settimo si riposò. Questo riposo va interpretato non tanto come pausa per riprendere forza per poi ricominciare a lavorare (d’altra parte, una nuova creazione sarebbe stata superflua) ma come conclusione, come atto di compimento dell’opera della creazione. Il riposo, dunque, fa parte integrante delle attività umane. Oggi, invece, il riposo festivo è inteso come non-lavoro, come preparazione alla ripresa delle attività: «L’odierna coazione a produrre perpetua il lavoro e conduce alla scomparsa di quel sacro riposo. La vita viene del tutto profanata e dissacrata».

Emile Durkheim

Parigi, Emile Durkheim

La festa, pertanto, non è che la soddisfazione del bisogno di collettività che è proprio dell’uomo, il lavoro disperde, allontana gli uomini l’uno dall’altro, la festa li riunisce. È per questo bisogno di identificazione con la comunità originaria che nelle feste tradizionali si assiste al ritorno di coloro che sono stati costretti ad allontanarsi dal paese natio per vari motivi. «La festa – scrive Han – è la forma intensa della vita: nella festa la vita fa riferimento a sé stessa invece di subordinarsi a uno scopo». Le feste di oggi sono “eventi” ideati e gestiti da gruppi di amministratori; non sono come i riti che vincolano per ordine della comunità, ma sono, come afferma il loro stesso nome, “eventuali” e non creano comunità: «sono manifestazioni di massa, e le masse non creano comunità».

Il riposo è degradato a “tempo libero” (c’è quasi, in questa considerazione, l’eco di teorie francofortesi, di Theodor Adorno che però non viene citato), non riproduce momenti di riunione, al massimo viene usato per occupazioni inutili e futili, dedicandolo a spettacoli di massa come le partite di calcio o a quelli di canzonette, per non parlare del tempo sciupato nelle chiacchiere da bar. Niente dunque sacralità del riposo, ma attività ricreative che per destare interesse devono continuamente rinnovarsi.

A questo punto Han sente la necessità di spiegare in termini antropologici cos’è il capitalismo, riprendendo così un discorso sul neo-liberismo intrapreso nelle prime pagine del volume. Non fa una critica ai processi economici indicati dalla teoria, ma cerca di capirne le motivazioni profonde e spiega perché esso non vada considerato al pari di una religione, come qualcuno ha fatto e fa: il capitale non riposa mai, mentre le religioni creavano, davano vita a movimenti di pellegrini che si spostavano da un Tempio all’altro, presso i quali  prendevano forma e consistenza le comunità; oggi, dice Han, riprendendo un pensiero di Agamben, sono i turisti a muoversi «senza pace in un mondo estraniato in Museo»; nei Templi si consolidavano i valori insiti nei riti, nei musei, invece, secondo la formula consumistica, è sufficiente soltanto “vedere”,  non occorre una profonda attenzione. Il turismo di oggi si basa sulla formula, alquanto volgare, del “mordi e fuggi”; al massimo si scattano delle foto che poi a casa nemmeno si guardano perché affannati a preparare un altro viaggio per andare a veder altri monumenti, altri musei, altri panorami. Netta la conclusione di Han: «Il capitalismo si fonda sull’economia del desiderio. Per questo non è compatibile con la società rituale».

71vcjaw63nlNel capitolo L’impero dei segni, titolo ripreso da un saggio del semiologo Roland Barthes, Han parla del Giappone come del paese della ritualità quotidiana la quale dà vita ad una comunità senza comunicazione. Nel suo esame dei comportamenti formali dei nipponici condivide l’analisi barthesiana che ammira la grande supremazia dei significanti sui significati, al contrario di quanto avviene nel mondo occidentale dove si dà importanza al significato e si relega ad un ruolo marginale la forma, considerata come un orpello, un ornamento esteriore.  «L’impero dei segni può anche fare a meno di un significato morale. È dominato non dalla legge ma da regole, come nella quotidiana cerimonia del tè, da significanti senza significato». Quella giapponese, infine, è una società estetizzata in cui la bellezza dell’apparenza ha sostituito la religione.

E fin qui le argomentazioni di Han possono essere anche accettate, ma quando afferma che questo comportamento fatto di riti che non hanno nessun riferimento con la realtà dintorno, non è che una «liturgia di segni vuoti che pone fine all’economia capitalistica della merce», è difficile seguirlo e trovarsi d’accordo con lui. Tutti noi conosciamo, anche se indirettamente, l’amore dei Giapponesi per i cerimoniali applicati anche a cose poco importanti, ma sappiamo pure che esso è uno dei Paesi più industrializzati del mondo e che vive perché produce merci di tutte le specie per sé e per molti altri Paesi. O si tratta di una “Nazione-ossimoro”, oppure è un popolo che vive in maniera dissociata l’essere ritualistico e ritualizzante da una parte e l’essere produttore di merci capitalistiche dall’altra. Se nelle antiche società il lavoro e la festa vivevano in un rapporto complementare ed osmotico, non credo che ciò succeda nel Giappone odierno. Tra l’altro cadrebbe anche la tesi che lo stesso Han ha ripetuto nel resto del libro e cioè che il capitalismo non può coesistere con una società rituale.

Mi sembra proprio che questo capitolo risulti piuttosto debole e poco convincente. Ma c’è ancora un altro tema che andrebbe discusso più approfonditamente ed è quello della poesia. Parlando dell’importanza dei significanti nella ritualità (e per probabile influsso di Barthes), Han più volte ribadisce l’importanza che in poesia ha il fattore sonoro delle parole; su questo non ci può essere disaccordo perché i poeti sanno da sempre che la poesia si differenzia dalla prosa per l’uso, appunto, molto ampio di quei suoni con cui si manifestano le parole parlate (ricordiamoci che la poesia, dalle origini fino all’uso generalizzato della scrittura, era sempre cantata) e che la linguistica chiama significanti. Possiamo pure tranquillamente ammettere che nella poesia il significante svolge un ruolo fondamentale, ma ciò non vuol dire che il significato non serva a nulla. La poesia non è come la musica in cui le note sono solo vuoti significanti a cui i fruitori possono attribuire, quando l’ascoltano, le cause delle loro momentanee emozioni; essa è costituita da parole che posseggono ambedue gli aspetti di significante e di significato: i linguisti, quando parlano del segno, cioè della parola, fanno l’esempio della moneta che ha un recto e un verso, che sono inseparabili; quando sono separati e il significante diventa predominante fino a ridimensionare o addirittura ad annullare il significato, la “poesia” tende a scomparire. La composizione di D’Annunzio La pioggia nel pineto può incantare l’orecchio del lettore (o dell’ascoltatore), ma lascia nulla o pochissimo nella sua mente e nel suo animo. Se si accettasse totalmente il discorso di Han finiremmo per dire con Croce che il Paradiso di Dante non è poesia, perché non è “lirica e pura”, e che nei Canti del Leopardi c’è troppa filosofia; oppure dovremmo esaltare più del dovuto i giochi linguistici dell’Oulipo di Raymond Queneau e di Georges Perec.

Per questo mi sembra opportuno modificare la sua asserzione: «L’arte non è un discorso. Funziona mediante forme e significanti, non mediante significati». Forse è meglio dire che l’arte è il significato divenuto forma grazie ai significanti. Altrimenti, se si fa a meno del significato, si cade, nell’estetismo, nella metafisica, nel non-senso infine.

811exqp7ymlNon poteva mancare nell’analisi di Han il tema della guerra. Johan Huizinga, più volte citato per la sua opera Homo ludens, aveva individuato nel gioco il fondamento su cui si basano le attività umane. Questa tendenza al gioco si manifesta nella guerra, pur essendo essa generalmente sentita come attività che ha a che fare più con il dolore e la morte che con la gioia del gioco. È certo che nell’antichità l’agonismo era fortemente sentito, tanto da essere consacrato nei giochi Olimpici in cui le gare non erano che esercizi preparatori alla guerra. Partendo da Huizinga, il filosofo percorre sinteticamente l’evoluzione della guerra dalla “singolar tenzone” all’uso odierno dei droni.  La guerra, come ci documentano gli antichi poemi, quale l’Iliade, spesso si risolveva con un duello tra i capi dei due campi avversari: vengono in mente l’episodio omerico di Achille ed Ettore e quello romano degli Orazi e dei Curiazi e quello di tanti altri eroi, più o meno leggendari, che trattano della sorte di un conflitto demandata allo scontro tra due rappresentanti delle parti in causa.

Successivamente il duello si sarebbe trasformato in guerra, mantenendo però molti degli elementi rituali arcaici. Il duello e così la guerra arcaica riconoscevano al Nemico (all’Altro) pari diritti; in questo senso il duello manteneva pure una forte carica di sacralità. Ma far cadere una bomba atomica su una città non ha più niente di sacro, significa considerare l’Altro come qualcosa che si può impunemente annientare. Già l’Ariosto si lamentava della fine della sacralità ludica del duello (Oh gran bontà dei cavalieri antichi) ma soprattutto malediceva, con invettive piuttosto violente, l’invenzione delle armi da fuoco che permettevano ad una persona di poter ammazzare gli avversari restando anonima e senza nemmeno vederli. Negando così l’affermazione di von Clausewitz, secondo il quale la «guerra non è che un duello su vasta scala». E l’Ariosto non poteva prevedere che per la guerra fossero usate macchine volanti come gli aerei che presuppongono la fine della guerra come duello, né tanto meno che si facesse ricorso ai droni, i cui piloti lavorano facendo i turni e ottenendo un punteggio su una score card per ogni bersaglio colpito, come se fossero i bollini della spesa di un supermercato. «La guerra coi droni – scrive Han – rappresenta quella società in cui tutto è diventato una questione di lavoro, di produzione e di prestazione».

Altri due brevi capitoli chiudono il volume; nel primo (Dal mito al dataismo) si riparte ancora da Kant, per il quale il soggetto umano è il padrone della produzione della conoscenza: «L’universo di Kant è centrato sul soggetto libero e autonomo quale istanza che dona forma e leggi alla conoscenza». Oggi, però, la situazione è radicalmente cambiata: dopo la svolta copernicana di Kant oggi assistiamo ad un’altra svolta, perché la conoscenza è diventata solo un ammasso eterogeneo di dati e l’uomo non è più produttore di conoscenza, sostituito in ciò dalle macchine che elaborano i dati degli archivi elettronici. Ma questo sapere ha il difetto di sottrarre alla conoscenza lo spazio del gioco e della narrazione, perché «gli algoritmi contano ma non raccontano. Il passaggio dal mito al dataismo è il passaggio dal racconto al conteggio».

Kierkegaard

Copenaghen, Soren Kierkegaard

L’ultimo capitolo, Dalla seduzione al porno, tratta del rapporto tra la seduzione e la pornografia, così come è illustrato da Kierkgaard; la prima, paragonata al duello, ha un carattere ludico; la seconda è il disvelamento della verità. Ovviamente le preferenze di Han vanno alla prima, e, per farcelo capire meglio, riprende il discorso sulla poesia: «Persino la lettura assume oggi una forma pornografica. Il piacere per il testo equivale a quello dello strip-tease: scaturisce da un progressivo, sensuale svelamento della verità   … Le poesie si oppongono alla produzione di senso». Ed infine: «Il porno è generalizzabile quale dispositivo neo-liberista».

Nelle pagine precedenti ho avuto modo di esprimere qualche giudizio critico nei confronti di alcune asserzioni di Han, ora nel tirare le conclusioni cercherò di esplicitare la mia opinione generale su tutto il saggio. Han parla di comunità caratterizzata dalla ritualità, ma non ci dice se il suo discorso si riferisce ad una comunità precisa o a tutte le comunità oppure ad una comunità ideale: di esse (essa?) non ci dà nessuna indicazione sulla loro età, sulla loro tipologia, sulla loro collocazione geografica (tutte uguali, dunque, le comunità che ci hanno preceduto?); esse, per usare una banale frase fatta, si perdono nella notte dei tempi e, per questo, tutto ciò che Han dice, pur essendo accertabile, rischia di annullarsi nella nebbia dell’eternità. L’unica società ritualizzante storicamente certa è quella del Giappone, ma, come abbiamo visto, non è risolta l’aporia rito/capitalismo che si annida nella sua cultura.

Anche nei riferimenti bibliografici e nel loro uso Han è piuttosto disinvolto; le sue citazioni sono eterogenee e a volte peregrine: si va dai filosofi ai letterati, dai sociologi ai poeti, tutti vissuti in tempi diversissimi e con nessun rapporto fra di loro a parte il concetto o la frase che in quel caso interessa ad Han prelevare e fare propria. Così già nel primo capitolo vengono chiamati a testimoniare Gadamer e Saint-Exupéry, H. Arendt e Kierkgaard, Mary Douglas e Roland Barthes; e poi nelle pagine successive Novalis, Huizinga, Hegel, Marx, Baudrillard e perfino il libro della Genesi biblica. Insomma, non mi sembra che ci sia una grande coerenza ideologica e filosofica nell’uso delle citazioni bibliografiche, piuttosto si intravvede un certo opportunismo nello scegliere, decontestualizzandoli, termini e concetti, oltretutto di autori presi un po’ alla rinfusa.

C’è ancora qualcosa da dire sul piglio stilistico: malgrado la sua avvertenza iniziale, la cosiddetta comunità dei riti è presentata sempre positivamente, mentre quella della produzione neo-liberista è dipinta con colori pessimisti. Il tono spesso è quello che usavano i sociologi radicali americani degli anni ’60 del Novecento quando inveivano contro la società dei consumi e dei mass mediaÈ come se il filosofo, trovandosi nella difficoltà di capire e spiegare i fenomeni che si presentano davanti a lui, si limitasse a confrontare sistemi di società sulle quali siamo storicamente bene informati e su cui possiamo trovare un accordo universale, e lasciasse, invece, nella vaghezza delle analisi e delle riflessioni i nodi che la società odierna ci sfida a sciogliere.

L’equilibrio tra ritualità e modernità è continuamente cercato ma mai trovato, così che ad una lettura superficiale egli può apparire come un “apocalittico” di qualche decennio fa e convincere il lettore della bontà dei tempi antichi.

Da un punto di vista dell’esposizione e della discussione dei temi c’è da dire che il testo non è di facile lettura, perché è costituito da un continuo flusso di frasi concettuali, senza interruzioni, in cui gli assunti e le asserzioni sono esposti senza argomentazioni dimostrative, senza esemplificazioni, uno dietro l’altro. Il lettore è costretto a soffermarsi dopo ogni periodo, tutti brevissimi, per spiegarsi il concetto in esso contenuto, dopodiché può proseguire, ma sempre con un certo affanno. Lo svolgimento delle tesi va avanti per via di aforismi e gli aforismi hanno bisogno di tempo per essere assimilati. Han usa ripetere gli stessi concetti più volte perché, in assenza di una procedura argomentativa, ci si possa avvicinare progressivamente al focus, per arrivare alla spiegazione dei concetti per accostamenti sempre più vicini.

Nonostante io vi trovi questi limiti, che non sono leggeri, penso che quello di Han sia certamente un libro da leggere, perché invita a riflettere: davanti a certe frasi apodittiche, istintivamente dici di no, perché le ritieni inaccettabili; poi rifletti e trovi che le asserzioni così sicure di Han trovano una qualche rispondenza nella tua esperienza quotidiana, e quindi devi ammettere che ha ragione lui … sì, ma non troppo, ti rimane sempre un dubbio, un’incertezza. Intanto, però, hai accettato di discutere, di meditare su quello che hai letto.

Dialoghi Mediterranei, n. 51, settembre 2021

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Mariano Fresta, già docente di Italiano e Latino presso i Licei, ha collaborato con Pietro Clemente, presso la Cattedra di Tradizioni popolari a Siena. Si è occupato di teatro popolare tradizionale in Toscana, di espressività popolare, di alimentazione, di allestimenti museali, di feste religiose, di storia degli studi folklorici, nonché di letteratura italiana (I Detti piacevoli del Poliziano, Giovanni Pascoli e il mondo contadinoLo stile narrativo nel Pinocchio del Collodi). Ha pubblicato sulle riviste Lares, La Ricerca Folklorica, Antropologia Museale, Archivio di Etnografia, Archivio Antropologico Mediterraneo. Ultimamente si è occupato di identità culturale, della tutela e la salvaguardia dei paesaggi (L’invenzione di un paesaggio tipico toscano, in Lares) e dei beni immateriali. Fa parte della redazione di Lares. Ha curato diversi volumi partecipandovi anche come autore: Vecchie segate ed alberi di maggio, 1983; Il “cantar maggio” delle contrade di Siena, 2000; La Val d’Orcia di Iris, 2003.  Ha scritto anche sui paesi abbandonati e su altri temi antropologici.

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